Italia-Germania 4-3/La partita
Quelli dell’Azteca
Un golletto di Boninsegna al 10', poi ottantadue minuti di assedio fino al pareggio assurdo di Schnellinger. Fu a quel punto che cominciò la “partita del secolo”. Con colpi di scena, drammi e braccia al cielo. Nella seconda puntata della nostra inchiesta, la cronaca di un evento che ha fatto la storia dello sport
«Ascoltatori italiani buonasera in diretta via satellite dal Messico. La nazionale italiana con le belle e precedenti prove, specialmente con la partita contro il Messico nei quarti di finale, ha conquistato il diritto di disputare allo stadio Azteca la semifinale per il campionato del mondo…». Cinquant’anni fa, Nando Martellini cominciava così nel suo stile asciutto e molto british la telecronaca di Italia-Germania 4 a 3. Giacinto Facchetti e Uwe Seeler si scambiavano strette di mano e gagliardetti e l’arbitro Arturo Yamasaki, ex portiere, peruviano di discendenza giapponese, stava per compiere i riti iniziali di una partita di calcio. Erano le 16 del pomeriggio ora del Messico, 25 gradi di temperatura e un caldo appiccicoso a 2200 metri di altitudine; da noi era mezzanotte, sul blocchetto del calendario a strappo appeso al muro era appena stato staccato il foglietto bianco e fine fine del 17 giugno, mo’ compariva il 18 rosso.
Boninsegna segnò che manco erano passati dieci minuti, quindi iniziò l’assedio alla nostra porta che ogni tanto tentavamo di rompere con sortite improvvise. Difesa e contropiede, in questo eravamo i migliori, l’avevamo insegnato a tutti gli altri, era dentro le nostre vene. Ed eravamo i campioni d’Europa. I francesi – sempre un pochino biliosi – dicevano che la nostra squadra assomigliava ad una «cassa di risparmio», avendo segnato un solo gol nei tre match iniziali senza prenderne alcuno.
No, non fu proprio bella la partita del secolo. Fino al 92’, al pareggio di Volkswagen Schnellinger, così lo chiamava Nereo Rocco: «Torna indietro, Volkswagen» gli urlava el paròn quando il terzino tedesco del Milan lasciava la difesa e si spingeva in attacco. E quello si spinse in avanti proprio mentre la partita era già chiusa. «Mi trovavo lì per caso – ha continuato a dire il biondo nel corso degli anni – andavo verso gli spogliatoi che stavano da quella parte, la partita era finita». Un traversone di Grabowski venne raccolto dal difensore lasciato solo in mezzo all’aerea, tocco di piatto destro e fu 1-1. Rosato lo avrebbe strozzato. Lo stopper azzurro e rossonero abitava nello stesso palazzo del tedesco a Milano. «Cosa gli ho detto?», si legge in un pezzo del giorno dopo nell’archivio di Stampa Sera: «Non posso ripeterlo per educazione. Più o meno gli ho detto: “Ma come, proprio tu, maledetto?”. È vero che ha fatto il suo dovere ma a me del suo dovere non importava proprio nulla. Perché doveva fregarmi in quel modo? Lui si è messo a ridere e a me è venuto il fegato ancora più grosso».
Cinquant’anni dopo parlando con Succedeoggi, Roberto Boninsegna ricorda: «Sì, il gol di Schnellinger ci mise in ginocchio, però portò ai gol dei supplementari e a tutte quelle emozioni. Senza quel pareggio non ci sarebbe stata Italia-Germania 4 a 3», ragiona al telefono.
L’incredibile Bonimba della nomenclatura breriana («Un soprannome che non mi piaceva molto, si sa, però è anche vero che quel nomignolo mi caratterizzava, mi faceva entrare nella cerchia dei giocatori di Brera e nella sua fantasia»: Brera gli aveva detto un giorno che, basso com’era, gli ricordava il nano Bagonghi); il calciatore che ha tanto amato la sua squadra, l’Inter, (che spesso lo ha “pugnalato” lasciando che andasse a giocare altrove), al punto che quando Fraizzoli gli disse di averlo venduto alla Juve, lui rispose al telefono dalla spiaggia dove era in vacanza: «Presidente, alla Juve ci andrà lei…»; il centravanti che trascinò proprio l’Inter di Invernizzi alla rimonta scudetto, nel campionato dopo il Mondiale messicano, segnando tra l’altro un gol da cineteca contro il Foggia a San Siro, mezza rovesciata al volo di sinistro, un proiettile di cerbottana alla destra del portiere; sì proprio lui, una faccia da pugile e da monatto tanto che Salvatore Nocita lo prese per i suoi Promessi Sposi, il kolossal tv dell’89 (pare che fosse Facchetti a “raccomandarlo” al regista, tifoso nerazzurro), dove c’era un bel po’ di gente: Burt Lancaster, Alberto Sordi, Franco Nero, 248 attori e diecimila comparse.
Ebbene, Bonimba in Messico nemmeno doveva esserci. Non era nella lista dei 22 portati in America da Ferruccio Valcareggi, l’allenatore che due anni prima, nel 1968, ci aveva condotto a vincere l’Europeo di casa anche con una buona dose di fortuna. «Non ho mai avuto un buon rapporto con Valcareggi. Mi scartò ma io continuai ad allenarmi con l’Inter ad Appiano». Però, il fato combina le cose: alla vigilia della partenza per il Messico, Anastasi stette male e non partì più. Il ct chiamò Boninsegna e anche Prati. Un mezzo pasticcio perché invece di 22, gli azzurri erano 23. Uno doveva andar via. «Io e Prati dormivamo nella stessa stanza ed ogni sera ci chiedevamo chi fra noi due dovesse rifare le valigie per l’Italia. Ma Valcareggi e quelli della federazione avevano paura che si facesse male Riva e che la nazionale rimanesse senza una punta centrale». Infatti tornò indietro Lodetti, fedele scudiero di Rivera nel Milan, quello che correva per lui, ed anche questa esclusione venne letta come un ulteriore “sgarbo” verso il golden boy. Che infatti non la prese bene, litigando con Federazione e allenatore. A taccuini aperti. E peggio prese il part time con Mazzola, il cambio programmato a tavolino, la famosa staffetta. Dovette arrivare dall’Italia Rocco, il suo allenatore e secondo padre, per calmarlo. Walter Mandelli, il capo della comitiva azzurra, voleva cacciarlo e rispedirlo a casa.
Come con il Messico, anche contro la Germania ad inizio del secondo tempo Rivera scese in campo e Mazzandro (ancora Brera) andò a farsi la doccia. «Fecero fuori Lodetti e Mandelli – ricorda Boninsegna, oggi un nonno di 76 anni – offrì al mediano del Milan e a sua moglie quindici giorni di vacanza ad Acapulco, così per addolcire l’esclusione. Lodetti ovviamente non accettò e se ne tornò a casa». Sempre agitate le nostre migliori imprese.
Schnellinger fece 1 a 1, dunque, dopo 92 minuti e si ricominciò. Tuttavia, è il caso che rifiatate un po’, ci sono i supplementari, i trenta e più minuti che battezzarono quell’incontro la partita del secolo, cinque gol racchiusi in mezzo giro di orologio, roba da infarto ma non per scherzo, disse Brera, e Gino Palumbo, il grande rivale in tribuna stampa, dovette prendere delle gocce di Coramina. Il dottor Fino Fini, il medico della nazionale, raccontò che si accorse che Domenghini era stremato dalla fatica del gran correre avanti e indietro. E che stava per suggerire a Valcareggi di sostituirlo. Ma Domingo lo guardò fisso negli occhi e gli disse a muso duro: «Dottore, se mi toglie, gli dò un cazzotto…». Neppure Franz Beckenbauer mollò: aveva una spalla lussata e giocò con un braccio attaccato al corpo, come ingessato.
Continua a raccontare Boninsegna: «Il gol frustante, quello che poteva spezzarci definitivamente le gambe, fu quello di Müller nel primo tempo supplementare, il 2-1 per loro, una palla che andava spazzata via». Perché Poletti, che aveva preso il posto di Rosato acciaccato, dopo un traversone da calcio d’angolo tentò di addomesticare il pallone, cincischiò, forse voleva appoggiarlo ad Albertosi. Il falco d’area tedesco mise una punta del piede tra Albertosi e Poletti e buonanotte. A casa davanti alla tv eravamo disperati, i fratelli più piccoli andarono a dormire, tanti spensero l’Autovox, lo scatolone magico. «La Germania è in vantaggio» annunciò un mesto Martellini alle masse televisive.
Invece l’Italia reagì al trauma. Scoprì la re-si-lien-za, ma all’Azteca non sapevano ancora che cosa fosse. Resilienza è parola del linguaggio contemporaneo, un latinorum psicologico che piace tanto ai manager di scuola bocconiana. E fu così che Burgnich, furlan di Ruda, detto la Roccia, un altro che come Schnellinger non segnava mai, imbeccato da Rivera e favorito da un rimpallo, impattò il 2-2 e poco dopo andammo addirittura in vantaggio, perché Riva triangolò proprio con Boninsegna e fu l’unico a far sussultare Martellini: «Riva, Riva, Riva…ed è gol» si scompose il telecronista, frattanto Gigi aveva già sferrato il sinistro malefico che andò a conficcarsi nell’angolo in basso a sinistra di Sepp Maier, il portiere dai guanti enormi. Riva, proprio lui che fino alla partita con il Messico (2 reti ispirate da Rivera) non sembrava più lui: pare che fosse in crisi per una storia d’amore con una signora sposata e il marito volesse denunciarlo. Brera scrisse di «un amore bovariano che i bene informati dicevano squassante». Poco dopo, Rivera si fece passare davanti una palla senza respingerla mentre si era piazzato sul palo alla sinistra del portiere azzurro: «Bastava che avanzasse di un passo…» rimprovera ancora Boninsegna. «Ti uccido…» o qualcosa del genere urlò con tutto il fiato in corpo Albertosi all’abatino. «Sì, Albertosi me ne disse di tutti i colori – ha confessato un mese fa proprio Rivera all’HuffPost – Allora pensai un po’ da sbruffone: “Tocca a me farmi perdonare, dribblo tutti e vado a fare gol”. Ma appena presi la palla a centrocampo vidi troppe maglie bianche. Allora cambiai idea. Ma il risultato fu lo stesso».
Dunque, dove siamo arrivati? Italia-Germania 3 a 3 e palla al centro. Rivera a De Sisti che giocava, come Domenghini, con i calzettoni “alla cacaiola”, cioè abbassati, passaggino a Facchetti che vide Boninsegna sulla sinistra. E che successe, Boninsegna? «Feci quella corsa sulla sinistra perché avevo ancora fiato in corpo, gli allenamenti ad Appiano erano serviti a qualcosa, superai un difensore, alzai la testa, vidi qualcosa lì al centro e poi arrivò Rivera…». Martellini non si era ancora ripreso dal pareggio dei bianchi di Schön. Stava infatti dicendo: «E siamo ancora sul 3 a 3. Questa drammatica partita tra Italia e Germania per l’ingresso in finale…». Pausa. «Boninsegna ha saltato Schulz, passaggio…». Pausa. «…Rivera…Rete…Rivera ancora 4 a 3! 4 a 3 gol di Rivera…». E si sente qualcuno, pare un regista della Rai, gridare fuori campo: «Vinciamo, vinciamo…». Martellini – che ripeté tre volte in Spagna, dodici anni dopo «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» (Caressa a Berlino 2006 lo volle battere: urlò quattro volte «Campioni del mondo!») – finalmente si sciolse e non poté fare a meno di esclamare: «Che meravigliosa partita ascoltatori italiani… Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni che ci offrono…». Alla radio, Enrico Ameri fu singolare: «Rete… ha segnato ancora l’Italia e non sappiamo dirvi con chi, gentili ascoltatori…». Un soffio di silenzio, un respiro forse: «Esattamente con Rivera… li stringiamo al nostro cuore».
Nessuno credeva che fosse finita dopo tutti quei colpi di scena ma intanto si organizzava, si prendevano appuntamenti, si cercavano bandiere e ci si chiamava a voce da una palazzina all’altra, un passaparola telefonico improvviso e surreale in piena notte. Qualcuno restò a casa da solo e dopo non uscì perché lì dove era non aveva amici a portata di mano: si limitò a guardare la famiglia che dormiva. Quella non era casa sua, si era rifugiato là in un paese di campagna vicino Napoli, terra e cemento, niente mare e brutte facce, sembrava già Gomorra. Al suo paese, Pozzuoli, la terra si sollevava e tremava. Come succede anche adesso.
Dopo il gol risolutivo, Rivera si era adagiato nelle braccia di Riva, molti protagonisti, italiani e tedeschi, crollarono sull’erba quando l’arbitro si decise a chiudere il match. «Se non avesse segnato – disse Riva a proposito di Rivera – l’avremmo rinchiuso in un armadio dell’Azteca». Brera celebrò in seguito quel gesto della mezz’ala del Milan, quel ragazzo cresciuto che calcisticamente poco amava, e ricorse ai testi classici, omerici: «Le troiane porte Scee e la porta di Maier si confondono nel cervello stranito di tutti». Festa grande in albergo per gli azzurri, tuffi nella piscina, una sera ed una notte da vivere sfrenatamente. Come in Italia. Sembrò una liberazione. «Era dal ’43 che aspettavo questo momento» pare che mormorasse Candido Cannavò. Ma non pensava al pallone.
Una volta tanto, i giornalisti poterono lavorare con calma e non precipitarsi a dettare gli articoli, il fuso orario non consentiva, almeno ai primi giornali del mattino, di tenere aperte le rotative nella notte persino per la partita del secolo. Poi in quei giorni era in corso uno sciopero dei tipografi tant’è che il Corriere della Sera giovedì 18 giugno, il giorno dopo la semifinale fra Italia e Germania (Ovest, eh sì) e la nottata di festeggiamenti, pubblicò un trafiletto in prima pagina in cui era scritto: «Ci scusiamo con i lettori dei servizi incompleti che siamo costretti a pubblicare sui campionati di calcio che si svolgono in Messico a causa del protrarsi delle agitazioni articolate dei poligrafici». E però due giorni dopo, venerdì 19, la grande partita aveva soltanto una grande foto su tre colonne nella prima del quotidiano milanese, mostrava l’abbraccio tra Albertosi e Riva e un titolo che anticipava l’epilogo messicano: «Italia e Brasile in finale». Il titolo più grande, sei colonne, lo prendeva la “spalla”, in alto sulla destra, sullo sciopero della scuola. Rassicurava milioni di famiglie: «Revocato il blocco nelle elementari» prima riga. «Buone prospettive per le scuole medie» seconda riga. A sinistra, l’apertura, era data da un’intervista al pluriministro Preti, un Andreotti dei governi di allora e anche di quelli di prima. Luigi Preti, socialdemocratico, c’era sempre, soprattutto al ministero delle Finanze. Infatti lui assicurava nel titolo: «Nessuna patrimoniale» (lo si potrebbe fare pari pari oggi, cinquant’anni dopo, con altri ministri).
Gino Palumbo sul Corsera diede 10 in pagella a Domenghini, 9 ad Albertosi, Rosato e a Boninsegna; 8,5 a Burgnich; 7 a Rivera e 6,5 a Mazzola. Poletti si beccò l’unica insufficienza: 5. Gianni Brera invece sul Giorno definì Burgnich eroe di giornata e gli diede 9. Voto basso, 5, invece al gemello difensivo di Burgnich, Facchetti. E quasi si scusò: «Diciamo disastroso, intronato preoccupante (Dio, che dispiacere parlarne male: ma debbo…)». E 5 si prese anche Poletti, giudizio aderente a quello di Palumbo come su Domenghini che fu gratificato di un 8. Ma la divaricazione ci fu, clamorosa ma certo non nuova, sui due “staffettisti”: 6- a Rivera e 7,5 a Mazzola. Sull’abatino così si espresse: «Come sarebbe bello se potessimo farne giocare dodici. Lui ci vuole, certe cose le fa meglio di tutti: ma quanto può costare, a volte, impiegarlo. Merita 6 meno». Dell’altro invece lodò l’ottima partita su Beckenbauer «al quale ha restituito pure una bella lecca. Sta imparando a fare il vero interno. Mi piace anche si lagni di poter giocare solo 45’. Merita 7,5». 7,5 anche a Boninsegna e 6,5 a Riva.
Si consumarono così polemiche sulle pagine di sport, l’occasione era troppo ghiotta, anche quella vittoria non poteva sancire un armistizio. Al contrario. E Palumbo mandò a dire a Brera: «…di fronte all’eventualità della sconfitta… abbiamo detto a tutto il mondo… che se il nostro calcio è il calcio della furbizia, degli squallidi calcoli, degli spettacoli mediocri, delle folle ammalate dello 0-0 come simbolo – in poche parole, tutto il credo calcistico di Gioanbrerafucarlo, ndr – ciò deriva non da una nostra inferiorità ma da una mentalità che abbiamo inculcato nei giocatori per anni con la complicità responsabile dei dirigenti… E con quella, ancor più grave, degli allenatori e dei dirigenti di società, primi nel tradimento compiuto ai danni del football».
L’altro tirò via per la sua strada, terminando il suo pezzo da inviato così: «La squadra azzurra, benché gloriosissima finalista, non va troppo lodata per ora. Guardiamola freddamente». E, poche righe sopra, aveva scritto: «Ora mi terrorizza l’idea che qualcuno debba scorrere un giorno questo articolo senza capire né poco né punto come si sia svolta la memorabile semifinale Italia-Germania dei Mondiali 1970. Retorica ne ho fatto solo a rovescio, giustificando la mia umana impotenza a poetare. Ho dato un’idea di quanto avrebbe meritato lo spettacolo dal punto di vista sentimentale? Bene, non intendo abbandonarmi a iperboli di sorta…». E invece questo fu l’attacco del suo articolo: «Non fossi sfinito per l’emozione, le troppe note prese e poi svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che attaccherei questo pezzo secondo i ritmi e le iperboli di un autentico epinicio. Oppure mi affiderei subito al ditirambo, che è più mosso di schemi, più astruso, più matto, dunque più idoneo a esprimere sentimenti, gesti atletici fatti e misfatti della partita…Un giorno dovrò pure tentare. Il vero calcio rientra nell’epica…».
Messico ’70 fu anche questo. Rivalità velenose e gelosie sanguigne dividevano le platee dei lettori, i tifosi. Che infatti, passata la festa, si spaccarono e si insultarono dopo la sconfitta finale con il Brasile: chi stava con Mazzola, chi stava con Rivera. Chi con la staffetta e chi no – ma contro Pelè la staffetta non ci fu e Rivera giocò solo sei minuti («Fu un gran signore» sottolinea Boninsegna). Chi stava con Brera e chi contro. Siamo terra di dualismi, da sempre. E questo era il racconto sportivo di allora. Non poteva rimanere imbalsamato e sempre uguale, trascorso mezzo secolo. Infatti è cambiato, è diventato un’altra cosa. Difficile dire: in meglio.
Italia-Germania 4 a 3 ha attraversato le generazioni, se l’è goduta anche chi venne dopo. Abbiamo visto film e commedie, abbiamo letto libri e partecipato a dibattiti. Quella partita è stata come la prima ragazza, come l’esame di maturità, come incontrare i compagni di liceo e di facoltà, quelli dispersi dopo il Sessantotto. Un’operazione Grande freddo, una scossa di nostalgia e di sentimentalismo. Forse tornava buona anche per non parlare d’altro e di come eravamo cambiati.
Già, e voi con chi stavate: con Rivera o con Mazzola?
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2/continua.
Mi hanno aiutato a scrivere questo articolo:
Wikipedia.
Gianni Brera: Il più bel gioco del mondo. Bur Rizzoli
Gianni Brera: Storia critica del calcio italiano. Baldini & Castoldi
L’Archivio del Corriere della Sera
L’Archivio storico della Stampa
L’Archivio di Repubblica
RaiPlay radio
Articolo di Valerio Piccioni su gazzetta.it prima dei Mondiali di Germania 2006.