Gloria M. Ghioni e Alessandro Marongiu
Su “La vita bugiarda degli adulti”

Pro e contro Ferrante

Due critici, Gloria M. Ghioni e il nostro Alessandro Marongiu, a confronto su un'autrice da best seller: Elena Ferrante. Davvero è sufficiente che un titolo esprima tutta la sostanza di una romanzo, o servirebbe qualcosa di più?

«Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare via anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento» (p. 9). C’è tutta Elena Ferrante in questo inizio folgorante: un trauma, un enorme e cogente svelamento che segna una linea di demarcazione netta e irreparabile; Napoli, con i suoi quartieri cristallizzati in qualcosa che non passa; l’iconicità di una scena che non è destinata all’oblio, ma che resta – indelebile – nel cuore più ancora che nella mente; un io narrante che si confessa scrittore e scrivente, in cerca di fare chiarezza e “sciogliere il groviglio”. Eppure, se qualcosa sembra richiamare le atmosfere dell’Amica geniale, va detto che La vita bugiarda degli adulti è molto altro. 

La protagonista, Giovanna, è un’adolescente che cerca di compiacere i genitori, almeno finché non sente il discorso del padre, che trova in lei una somiglianza sempre più spiccata con zia Vittoria, la sorella con cui lui ha rotto i rapporti anni prima. E il motivo è sempre stato sepolto in frasi smozzicate e tante reticenze. All’improvviso, il mondo di Giovanna, prima in equilibrio perfetto, si è sbilanciato, portando la ragazzina ad allontanarsi dal genitore da lei più amato. E l’immagine sbiadita di zia Vittoria si è affacciata alla mente, fino a diventare un’ossessione: da lì, il desiderio di conoscere quel tanto fantomatico modello di bruttezza e di malvagità.

Incontrare Vittoria significa entrare in contatto con la sua ruvidezza, con le confidenze irruente e le successive ritrosie, con le maledizioni contro il padre e la madre di Giovanna, nonché con l’immediatezza del suo napoletano, così poco sorvegliato, al contrario di quanto Giovanna sente pronunciare ai genitori, entrambi professori. Vittoria è senza veli, e porta con sé l’amore per il defunto Enzo, che intrappola il suo presente in un continuo rievocare dettagli e quindi covare rabbia per la sua solitudine coatta. Attorno alla donna, c’è tutto il suo quartiere, così lontano geograficamente e architettonicamente da quello di Giovanna da sembrare un altro mondo. E lì si muovono persone che vivono senza le difese e gli schermi della cultura, ma con la spontaneità di abbracci sinceri: non ci vuole molto perché la ragazzina conosca gli altri parenti e venga accolta persino dalla famiglia di Enzo (la vedova e Vittoria hanno un singolare rapporto d’amicizia, unite dall’amore per il defunto). 

Ecco allora che la frequentazione di Tonino, Corrado e Giuliana, figli di Enzo di pochi anni più grandi di lei, fa sì che Giovanna arrivi a mettere in dubbio tutto: se i suoi genitori hanno minato la sua identità, ora i nuovi amici e parenti la portano ad aprire gli occhi sull’età adulta. E sulla quantità di bugie che si devono dire per quieto vivere o semplicemente per sopravviversi, in un continuo andirivieni di menzogne e sensi di colpa. I genitori non sono perfetti, tutt’altro, hanno anche loro segreti che si annidano dietro ad amicizie di comodo, gesti formali, discussioni apparentemente superficiali. Tale scoperta porta in Giovanna spaesamento e atti autodistruttivi, spesso trattenuti appena prima di diventare irrimediabili: lei, che vuole essere amata nonostante la propria presunta bruttezza, prova a migliorare il suo aspetto, ma soprattutto vuole che altri la desiderino. Anche se questo vuol dire portarla a rinunciare a quanto ha di più personale – come la sua dignità -: più volte, come già nell’Amica geniale, il sesso è uno strumento per misurare sé stessa e gli altri, per avanzare socialmente o come sfogo di una disperazione, tra disgusto e al tempo stesso attrazione. Tra Edipo, strappi violenti della propria libido e sue negazioni altrettanto crudeli, Giovanna cerca sé stessa e si incapriccia di un ragazzo che non potrà mai avere, mentre si lascia corteggiare da chi desidera solo il suo corpo procace. 

E, come accade anche negli altri romanzi di Elena Ferrante, la protagonista è tanto tratteggiata, le sue frequentazioni tanto vivide, i suoi dolori tanto rilevati da farci desiderare un riscatto finale, o almeno un po’ di pace per quest’anima che sentiamo amica, vicina, parente, sorella. Un grande romanzo, densissimo e complesso, da leggere centellinando ogni pagina perché c’è una profondità che dà vertigini e che poi ci restituisce, arricchiti, al nostro presente.

Gloria M. Ghioni

Questo testo è apparso su CriticaLetteraria.org, il 13/11/2019.

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Si dovesse riassumere in poche parole l’ultimo romanzo di Elena Ferrante, queste parole potrebbero essere: “la vita bugiarda degli adulti”. Che è, come si saprà già, il titolo stesso del romanzo. Ora: che di un’opera si conosca pressoché tutto dal titolo non è una buona notizia né per l’autore né per l’opera (e fin qui poco male), ma soprattutto non lo è per chi avesse volontà di leggerla. Il fatto è che oltre alla lunga cronaca dell’apprendistato alla vita di Giovanna, la giovanissima protagonista nonché voce narrante, un apprendistato che passa per la caduta del separé che le teneva celati menzogne e altarini della famiglia sua e di un paio di famiglie limitrofe, non c’è molto altro. Fanno da immancabile contorno i goffi approcci sessuali tipici dell’età e ovviamente – si deve sottolineare: ovviamente – la perdita della verginità come limite estremo (anche nel senso che, com’era facile aspettarsi, tale perdita arriva in prossimità della conclusione). Moti dell’animo, azioni, rapporti, paesaggi urbani: tutto è disposto in fila ordinata, prima articolato, poi disarticolato, ovvero analizzato e controanalizzato, e da ultimo disvelato, come se la Ferrante avesse ricevuto il compito di tracciare una cartina topografica, e quindi di riprodurre ciò che c’è senza pensare mai di nulla aggiungere. E, per di più, appiattendo a due dimensioni quanto in natura esiste a tre. Perché difetto ulteriore de “La vita bugiarda degli adulti” è che non presenta zone d’ombra in cui il lettore possa cercare elementi che si manifesterebbero solo a uno sguardo più attento, o qualcosa che potrebbe appartenere unicamente a lui, come un significato o una intuizione propri.

Lo stile della Ferrante, spesso decantato come virtù rara, qui stanca presto per la sua uniformità, e quindi per l’incapacità di dare scossoni, per sporadici che fossero, a vicende più che ordinarie. C’è un episodio, movimentato, una zuffa in una sala cinematografica, in cui la scrittura asseconda la concitazione della scena: ma è un caso. Sempre in tema di stile, si è sopra utilizzato il termine “cronaca”: giusto così si possono definire frasi come «forse dovrei collocare lì la fine dell’infanzia», «mi convinco che diventai definitivamente un’altra quando un pomeriggio Costanza venne in visita senza le sue figlie» o «quella fu la mia prima esperienza di privazione», che appaiano la formazione di Giovanna al resoconto di una gara sportiva a tappe. L’impressione è infatti quella di un romanzo edificato in maniera meccanica, troppo meccanica, considerato anche quanto il suo sviluppo si regga sulle opposizioni a due: adolescenti contro adulti, Napoli dei benestanti contro Napoli del popolo, lingua italiana (cultura) contro dialetto (ignoranza), parenti buoni contro parenti cattivi, fronte alta (perspicacia e studio) contro fronte bassa (scarsa intelligenza), personaggi contro personaggi («Vittoria e Costanza erano così diverse, tutto in loro divergeva. La prima non aveva istruzione, la seconda era coltissima; la prima era volgare, la seconda fine; la prima era povera, la seconda ricca»).

Occorrerà in chiusura dar conto della trama, che ha il suo bel ruolo nel far formulare un giudizio ampiamente negativo. Mentre mostra nel fisico le stimmate della crescita, Giovanna continua a guardare al mondo con lo spirito incantato dell’infanzia, grazie anche all’ambiente protetto che le garantiscono Andrea e Nella, genitori dell’agiata (e snob: ma di sinistra) borghesia partenopea. Una frase sfuggita al padre, «sta facendo la faccia di Vittoria», mette in discussione le bambinesche certezze di Giovanna (sì, viene in mente “Uno nessuno centomila” di Pirandello): Vittoria, sorella di Andrea, è lo spauracchio del nucleo famigliare, e al suo carattere impossibile sono attribuite le colpe della disgregazione tra consanguinei. Per comprendere in che misura quel «sta facendo la faccia di Vittoria» sia da considerare un’offesa, o addirittura un insulto, Giovanna pretende di incontrare la donna, che finora non ha mai visto: la frequentazione con lei e la notizia che il padre ha una relazione con la moglie del suo migliore amico scoperchiano il più trito dei vasi di Pandora. Seguono terremoti interiori ed esteriori (Giovanna sveste il rosa della fanciullezza e adotta il nero d’ordinanza dello spleen adolescenziale), le esperienze del sesso con maschi brutti e maleodoranti, l’amore puro per il seducente Roberto, e la prospettiva finale di un viaggio in treno con l’amica Ida all’insegna, parrebbe, del degrado di sé tramite il sesso (sì, viene in mente “Nymphomaniac” di Lars von Trier). Tutto qui? Dietro un numero incalcolabile di rovelli, parole superflue e dinamiche ripetute (gli spostamenti da una all’altra mano di un prezioso braccialetto), tocca dire: tutto qui.

Alessandro Marongiu

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