Domenico Calcaterra
Sulla linea di Sciascia e Consolo

Per Nino De Vita

Encomio di Nino De Vita per i suoi settant'anni. Il poeta di “Cutusiu” che ha inventato (o meglio reinventato) una lingua per esprimere un mondo; un “Tiatru” dove le parole diventano le cose

Il primo da cui ebbi notizia di un sì appartato e singolare poeta fu Vincenzo Consolo, prima che egli stesso ne scrivesse, come augurale viatico, la prefazione all’edizione “non clandestina”, per i tipi della editrice messinese Mesogea, della sua seconda e più celebre raccolta, Cutusiu (2001). Ecco, dunque, il tramite di una frequentazione, per me, iniziata sui libri, fu proprio l’autore del Sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Che nei puntuali ritorni in Sicilia, nei rituali incontri estivi, non di rado, mi invitava a prendere confidenza con i versi di quell’ancora poco noto (al grande pubblico) caso letterario: Nino De Vita, aedo siculo che, dalla sua remotissima spelonca, aveva preso a scrivere, dopo una pur fortunata raccolta d’esordio (Fosse chiti, 1984), nella lingua della sua contrada.

Così le notizie sull’appartato bardo si sovrappongono, nel mio ricordo, agli aneddoti riguardanti il “barone magico”, quell’altra solitaria e non meno singolare figura di poeta che aveva incantato il mondo letterario, dopo che, con singolare modalità, era stato scoperto e portato all’attenzione del pubblico e della critica nel ’58 da Montale. Dico il Lucio Piccolo visitato nella pace di Villa Vina da un allora poco più che esordiente Vincenzo Consolo, così come egli stesso narra in una delle sezioni dei racconti Le pietre di Pantalica (1988). Sacerdote, per Consolo, di quella seducente sirena barocca che avrebbe innestato con l’agliastro di una ossessionata preoccupazione (tutta sciasciana) della storia, impostura da smascherare, provare a decrittare e riscrivere (come di fatto fece con la trilogia metaforico-romanzesca che dal Sorriso dell’ignoto marinaio, e attraverso Nottetempo, casa per casa, conduce al terminale Lo spasimo di Palermo).

I versi di De Vita, al contrario – pur condividendo con Consolo l’operare di un fecondo imprinting sciasciano, del resto comune a tanti autori che videro nello scrittore di Ragalmuto un riferimento saldo e un maestro – conducevano, per altra via, a un grado zero, a un primitivo agone di senso, entro cui i fatti della storia rimanevano sullo sfondo, campeggiando al centro, per forza di parola, l’urgenza d’una vampa memoriale che illuminasse a giorno la vita di ciascuno. E ciò attraverso un’archeologia di parola altra, rispetto alla vocazione palinsestuosa di cui ammantava la sua scrittura vertiginosa il Consolo maggiore dal tono morale, dalla cadenza risentita.

Ancora: se l’enumerazione consoliana suggeriva l’impossibile rincorsa a riedificare e vivificare un mondo di crolli e rovine, la compulsione enumerativa in De Vita è il frutto di quella esattezza, capace di irradiarsi in loquela dell’universale condizione umana. Archeologia di parola, e di una lingua consustanziale al suo mondo: giacché Cutusiu oramai coincide, esiste potremmo quasi dire, in ragione del suo dialetto. Del resto, nell’accostarmi alle affilate narrazioni in versi di De Vita, pensai che il miglior commento indiretto a quell’opzione linguistica (e dunque a quel mondo) non poteva che essere il raccontino-manifesto I linguaggi del bosco di Consolo, di cui protagonista è Amalia, una ragazzina che, nominando le cose, rivela il potere di una lingua sorgiva che sembra essere dettata dal luogo (ancora un altro testo consoliano, dopo la superba prefazione a Cutusiu, a rischiarare il percorso del poeta). Ma la sua singolarità va oltre: in quel mondo di cui è custode, e per il quale la geografia s’identifica con la lingua; in cui l’autobiografia, principiando dalla dimensione memoriale privata, si estende a metafora di una condizione tout court, per quella precisione che apre a una imprecisione universale (come chiosava in una lettera inedita indirizzata al poeta stesso uno Sciascia già fiaccato dalla malattia, a proposito della seconda edizione di Fosse Chiti).

Quasi dieci anni dopo, fu lo stesso Nino De Vita a raccontarmi di come giunse alla determinazione di abbandonare il codice centrale e di scrivere, pensare, con sistematica dedizione i suoi cùntura in vernacolo: l’allarmata constatazione che i giovani, che la sua professione d’insegnante gli faceva quotidianamente incontrare, avessero del tutto smarrito la memoria di un intero vocabolario di cose, di fatti, di espressioni, che erano la genuina tangibile sostanza di un mondo minacciato, in breve, di estinguersi. Non accontentandosi affatto del semplice regesto semantico da consegnare all’ennesimo repertorio linguistico, ma impegnandosi con alacre ostinazione a ridare fiato e carne a parole che giovassero, quel mondo, davvero a rappresentarlo, mettendo in versi storie viste o udite, ricevute in eredità perché ne fosse lui il cantastorie, come la storia di ferocia del destino di A ccanciu di Maria (2015), appresa da Sciascia e, dopo tanti anni, raccontata con implacabile e inequivocabile nitore di dettato. E a far di fatto entrare Cutusiu – “timpuni assulazzatu”, con alle spalle il promontorio di Erice e davanti la fenicia Mozia e lo Stagnone – nel novero di quella fitta geografia letteraria dell’isola fu ancora una volta l’amico (e poeta malgré lui) Consolo, consacrando in L’olivo e l’olivastro (1994), uno dei tanti passaggi nella casa di Nino e Giovanna – quel “giardino di voci infantile” in cui Nino scrive “poemi” di vita, in una lingua limpida ed alta.

Microcosmo, couche letteraria il cui atto fondativo viene a coincidere, a ben pensare, con la rievocazione stessa della nascita del personaggio aedo: nasce, ciò voglio significare, quando si rivela la voce narrante di quel mondo, nel racconto del suo stesso convulso e faticoso venire alla luce raccontato nel proemiale 8 giugnu millinuvicentucinquanta: quel respiro (“Chi vittìru un rispiru?”), primo strenuo aggrapparsi alla possibilità stessa della vita che, giunto quando già si disperava, miracolosamente sterzando dall’epicedio all’esistere, segna il suo ingresso nel teatro-mondo di quella contrada. Allora: come non pensare, qui mi chiedo, a Cutusiu come il luogo esemplare, ma tutt’altro che fantastico, in cui la poesia può, anche in tempi di greve cupezza per l’uomo, rinascere? Come non pensare, dico, a quella “Contrada senza nome” che nella sua deliziosa e opalescente favola teatrale, Lunaria (1985), ancora Consolo indicava (con forza di eloquente metafora) come il luogo dove essa può risorgere, inattesa?

Mi rendo conto solo adesso, mentre scrivo, di quanto la mediazione di Consolo sia stata decisiva nel mio primo incontro con l’universo del poeta: per cui non ho un ricordo preciso di quando e come io e Nino De Vita ci conoscemmo davvero. Avendo funzionato, quel primo contatto, più come la ripresa di una conversazione, ma già da tempo avviata sui libri. L’ennesimo snodo di quella grande “conversazione” tra vecchi e giovani, germinante incrocio di generazioni, che qui, sull’isola, in Sicilia, fu il lievito di in un riconoscersi che, ne accennava non a torto ancora Consolo nell’avvio alla Prefazione a Cutusiu, veniva a disegnare una mappa di nuove vittoriniane convergenze, una “nuova topografia dello spirito”. Tuttavia, nel giorno dei suoi settant’anni, non vorrei dire soltanto del poeta, di cui peraltro copiosamente ho scritto, negli ultimi anni, recensendo puntualmente, al suo uscire, ogni nuovo incunabolo del suo indiviso romanzo di resistenza linguistica ed esistenziale. Ma anche dell’uomo: di ciò che, dell’uomo, non viene eclissato quando, penna in resta, Nino De Vita assolve al suo magistero di poeta che parla dalla tombale e materna contrada. Dire vorrei di quella compassione gnoseologica (non saprei definirla altrimenti), che caratterizza il suo modo di accostarsi alle cose, di ascoltare e (dopo tutto) di comprenderle. Il suo poetare, perciò, acquista senso, se e solo in quanto, programmaticamente potremmo dire, si tramuta in occasione concreta di relazione, empatico contatto con l’altro da sé; nel prefigurarsi di un rapporto entro cui il grimaldello privilegiato rimane pur sempre quel materno resiliente vernacolo che ambisce a divenire esperanto della condizione umana.

Non c’è timore d’ingannarsi, affermando che parlare del poeta è, in uno, dire dell’uomo: del suo occhio compassionevole posato su fatti e cose di quel suo privilegiato osservatorio, in cui la grande storia sembra assente, evaporata; sussunta in emblematica cifra di un luogo-teatro in cui l’uomo, nella sua resistente e oscena nudità, si rivela. Ma se ci si soffermasse soltanto sull’agire di una pur dilagante pietas, nello sguardo di De Vita, avremmo ancora detto poco sull’uomo e sul poeta, ché i suoi versi nel dialetto natio si pongono entro una luce d’immanente pensosità, intrinseca al suo gesto testimoniale di custode affaccendato nell’esausta attitudine di memorare, ridiscendere al nocciolo delle cose; colte nel momento stesso in cui si palesano, ogni qualvolta, con forza primeva, si danno, nell’alveo potenziale della stupita e risicata scoperta del dire, come primitivo pensamento. I personaggi che solcano la scena del teatro-mondo di Cutusiu non sono che icone di destino: figuranti di un senso orecchiato dal poeta, registrato, metricamente scandito in clausole di senso, nel solo pentagramma davvero significativo, capace di accoglierne meraviglia e bestemmia.

Sin dai suoi esordi, il bisogno, per De Vita, è stato sempre quello di un entomologico fedele inseguimento di una linea di discorso capace di tenere, in maniera naturale, le parole ben aggrappate alle cose; giacché, e lo ha ribadito senza possibilità d’equivoco anche in Tiatru (2018), sua ultima raccolta data alle stampe (si pensi al dialogo dell’io poetico con Berengariu), le parole, da sole, non sono sufficienti, se esse non diventano sostanza di cose (che sono destini). Tre incontri, tre voci di autori siciliani mi hanno accompagnato nel mio più che ventennale apprendistato: accanto a Vincenzo Consolo, che fu l’incontro folgorante con un’idea di letteratura risentita e che tuonava alta; dopo il superamento di certe ingessature e incrostazioni ideologiche che resistevano come scudata zavorra, e che ho avuto modo di lasciarmi alle spalle,  grazie al salvifico incontro con il più visionario degli intellettuali siciliani del secondo Novecento, Michele Perriera; l’incontro con Ninuzzu, ha rappresentato il ritorno, attraverso le sue novelle in versi, la scoperta del valore archetipico della lingua all’alba della lingua, all’apice di un esemplare nitore lirico e insieme comunicativo.

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