Lidia Lombardi
Lo scaffale degli editori

Noi e il Novecento

In “Us” adolescenti incollati a realtà virtuali fanno riflettere sulla nostra storia recente. “Anna di Ingleside”, eroina d’antan, torna in libreria e diventa star di Netflix. “La bambina senza il sorriso” svela misteri napoletani e l’anima partenopea nascosta

I ragazzi reclusi in casa nel lockdown, la sindrome della grotta. Non si può non collegare alla “rivoluzione” nelle nostre vite causata dal coronavirus l’esemplare romanzo di Michele Cocchi, Us (Fandango, 319 pagine, 17 euro). Ma non è un instant book, l’autore lo ha scritto in tempi non sospetti, poi il caso ha voluto che fosse pronto per andare sugli scaffali durante la pandemia. La solitudine esistenziale dei giovanissimi, i loro malesseri, le incertezze che traboccano in prove di autolesionismo, il rifiuto dei genitori, la fuga dalla realtà sono invece i nodi attorno ai quali si sviluppa la storia. Nella quale Cocchi, psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza, snocciola i caratteri dei tre protagonisti desumendoli certamente dalla propria esperienza professionale, ma riuscendo a creare un plot narrativamente convincente, un romanzo vero e proprio insomma.

Fulcro della narrazione è Tommaso, sedicenne che vive con mamma, papà, fratello, in un borgo dell’Italia settentrionale, a ridosso del confine con la Francia. Vive si fa per dire, ché da un anno e mezzo quasi non esce dalla sua stanza, invischiato in quello che gli psicologi chiamano hikikomori, letteralmente “chi si è ritirato”, “chi sta in disparte”. Niente più scuola, basket, pranzi e cene con la famiglia. Ma invece ore e ore illuminato dallo schermo del computer, con un appuntamento fisso giornaliero, un videogioco che si chiama “Us”, noi. E “noi” sono la sua squadra composta da altri due avatar, Rin, una ragazza stile manga, e Hud, il duro, mentre lui si chiama Logan e la sua testa somiglia a un teschio. Ogni giorno hanno una missione, agganciata alla storia recente, che li mette dalla parte delle vittime o dei carnefici, siano le Farc colombiane, i nazisti tedeschi, Mandela in Sudafrica. Così l’autore, rivolgendosi a lettori giovani e non solo, scava nella storia del Novecento e riflette sul concetto di eroismo, che spesso non significa obbedire agli ordini. Tommaso gioca e gioca, senza conoscere i suoi due compagni di missione, come un automa. E però alla fine ha il sopravvento la vita vera e una spedizione autentica fa crescere i tre. Un romanzo di formazione, se formazione significa anche imparare a uscire dal guscio.

Ancora letteratura per ragazzi, con un bestseller di lungo corso ora rilanciato da una serie Netflix. È il sequel di Anna dai capelli rossi, l’orfanella uscita dalla penna di Lucy Maud Montgomery, la scrittrice canadese che nel 1908 raggiunse l’apice del successo con il primo degli otto volumi ispirati alla sua infanzia, avendo anche lei perso la madre. La allevano i nonni, e ne fanno una donna felice, come dimostra questo Anna di Ingleside pubblicato da Gallucci (363 pagine, 13,90 euro). Ecco allora la protagonista felicemente trasferita con il marito Gilbert dalla iniziale casa dei sogni alla più spaziosa dimora di Ingleside, appunto. Il tran tran è per lo più radioso, la famiglia Blythe si districa tra sei figli, dividendo le ore tra sprazzi di allegria e qualche inevitabile preoccupazione. Un’evasione pura, leggere la Montgomery, un’operazione che può apparire obsoleta ma che continua a risultare vincente: Anna dai capelli rossi è stata la gallina dalle uova d’oro di una celebre serie giapponese trasmessa dalla tv italiana a partire dal 1980 e adesso, quaranta anni dopo, diventa star di Netflix e dell’editore Gallucci nella nuova traduzione di Angela Ricci.

C’è una bambina al centro del romanzo di Antonio Menna, giornalista de Il Mattino e autore di storie tutte ambientate a Napoli, come Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai Quartieri Spagnoli premiato dal settimanale francese Le Point come uno dei migliori cinque romanzi “polar” (poliziesco più noir) europei nel 2015. E però La bambina senza il sorriso (Marsilio, 220 pagine, 16 euro) non è un libro per ragazzi, invece ruota attorno al mistero di un genitore che scompare mentre va a passeggio tra i vicoli di Napoli con la figlia Chiaretta, nove anni e un raro problema, ridere senza riuscire a mostrarlo, perché un disturbo congenito impedisce allo stimolo lanciato dal cervello di far schiudere la sua bocca. Solo Carmine, il papà, riesce a interpretare quell’inapparente sorriso, sicché quando la bambina lo perde di vista mentre un attimo prima erano mano nella mano si sente due volte sconfitta. Certo, Carmine è già scomparso qualche volta (il gioco a carte, le donne…) per poi tornare a casa, ma la ragazzina, impaziente e sicura che in questo caso c’è dell’altro, bussa alla porta di Tony Perduto, giornalista precario che vive da solo ai Quartieri Spagnoli e che è il fil rouge dei libri di Menna. Lui apre la porta, diffida della piccina che gli chiede di scrivere un articolo nella cronaca cittadina, poi la situazione da surreale vira verso l’indagine un po’ esistenziale, un po’ poliziesca. Fino a diventare una storia corale di padri e figli che scava a fondo nell’anima partenopea, nascosta come il Sebeto, fiume perduto nel sottosuolo di Napoli. Tutta ombre e luci, a guardare bene. Con scorci narrati con misura, mai pittoreschi, talvolta inquietanti: tra tutti, la Bagnoli spettrale dell’ex Italsider, con lo strascico di ingiustizie sociali seguite a speranze di progresso e di prosperità.

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