Alberto Sagna
Una storia inedita

Fantasmi

«Era il tredicesimo giorno che andava a lavoro senza busta paga, senza quei soldi messi alla rinfusa sotto il bancone, soldi in nero, quelli che decideva lui a seconda di come gli girava»

All’improvviso nella stanza arrivò il vuoto, uno spazio crudele.

Quelle parole uscite di soppiatto, mentre era alla cassa per battere uno scontrino, lo sguardo cupo del titolare, la busta paga che arrivava ogni mese in ritardo, poggiata sul bancone laterale del negozio, quasi per caso.

E lei doveva fare in fretta, accorgersene ma non dare nell’occhio, prima di uscire, di andare via, senza aggiustarsi la camicetta, un bottone.

Doveva prendere quel pezzo di carta e fuggire, come se fosse una ladra, tenere con sé l’oggetto furtivo, seguito dall’occhio severo, o preceduto da un biasimo sussurrato, un rimprovero.

In fondo era così, era stato così per dieci anni.

E non sarebbe cambiato neanche adesso.

Neppure lo stesso giorno in cui gli aveva comunicato che suo marito si era ammalato dentro la fabbrica, in quel piccolo avamposto industriale di Porto Marghera.

Mesotelioma pleurico.

Non aveva mai sentito quelle parole, neppure tra i banchi di scuola media, non conosceva il significato e aveva tentato di scomporle una a una su un foglio carta, ma già le era salito il pianto quella sera del 18 maggio del 1994, a tavola, con il certificato medico poggiato lì, tra un piatto d’insalata e la carne rossa, vicino alla forchetta.

Il ricordo di quella tosse che non finiva mai, soprattutto la mattina, del colore sempre più grigio delle mani, delle spalle di suo marito che a mano a mano stavano scomparendo, delle telefonate che lui faceva al medico, ai compagni di lavoro, del lavandino otturato da un liquido scuro.

 * * *

«Ma tu hai i guanti? Te la metti questa benedetta mascherina? Queste polveri, le fibre, ci uccidono, devi pulirti anche le scarpe, i capelli», e lei in silenzio, che faceva finita di sparecchiare, o andare in bagno. Sperando che finisse prima possibile, che tutto si fermasse, che la fabbrica si fermasse, o esplodesse, che suo marito chiedesse il trasferimento, che lei si trasferisse, per non avere più il telefono, e non sentire più quegli squilli, inutili, perché tutto ormai era segnato e niente cambiava, e, infine, per non vedere più quell’uomo pelato, che adesso era seduto davanti a lei.

* * *

Non le aveva risposto, stava digitando sulla tastiera velocemente, inviando dal computer gli ordini, e poi si era girato verso Clara con un sorriso.

E lei si era illusa, per un attimo, o per sempre, di aver capito chi davvero fosse Mario Ballanti, quell’ometto spigoloso, calvo, tutto pelle e ossa, che veniva in negozio sempre con la cravatta a pois e un fazzoletto nel taschino, vicino al petto, con la pelle rossiccia delle guance, segnate dalla psoriasi. Capace, forse e ora, di sorridere, di capire, di comprendere lei, il momento, di voler conoscere finalmente suo marito, di voler vedere quella piccola casa dove abitavano, non lontano dal porto, non distante dal suo portone.

«Che mi dicevi, Clara? Mancano le camicie da ordinare, e tre giacche, devono fare in fretta. Lo sai che oggi è lunedì. I clienti ci aspettano, te lo devo ripetere ogni volta.»

* * *

La stanza vicino al magazzino era illuminata dal neon, l’odore era rimasto impregnato dei corpi, mentre l’unica voce provocò un suono acuto dentro i timpani di Clara, sotto la pelle, salendo dritto sul semicerchio della fronte, come avessero battuto due piatti da orchestra vicino a lei.

La stanza diventò bianca, nelle sue orecchie quelle parole diventarono urla agghiaccianti, e le sembrò che le pareti si spaccassero, il soffitto stesse crollando con pezzi d’intonaco che le cadevano addosso, rimanendo appiccicati alla camicetta, alle labbra, ai capelli, dentro il reggiseno.

Come piccole lingue collose, fredde, che cadevano dall’alto con violenza.

La pioggia picchiava contro i vetri, e le raffiche di vento sembravano pugni rabbiosi.

Era il tredicesimo giorno che andava a lavoro senza busta paga, senza quei soldi messi alla rinfusa sotto il bancone, soldi in nero, quelli che decideva lui a seconda di come gli girava, di chi lo aveva assecondato, di chi era entrato nel negozio, di quanti avevano sorriso alle sue battute lascive, sulle donne, sempre su loro, quasi a cercare la complicità maschile, fredda, con il gesto di una spalla, un’occhiata veloce, adatta alle circostanze per lui, incresciosa per gli altri.

* * *

«Tu non capisci come si fanno gli affari. I veri gentiluomini spendono di più, e io so come accontentarli, li faccio sorridere un po’» le aveva detto al primo anno, quando lei aveva ricevuto una pacca sul sedere da un cliente, ed era uscita dal negozio, per scappare, per rimanere senza soldi. E lui aveva aspettato che Clara tornasse, perché sarebbe tornata, dopo qualche minuto, ed era rimasto seduto al suo posto, sullo sgabello vicino alla cassa. Per poi fissarla, con quegli occhi neri sempre spalancati, irrequieti.

* * *

«Mio marito sta male. Abbiamo bisogno di medicine. Devo comprarle oggi.»

Questa volta non rimase in silenzio, e Mario, il titolare, alzò la testa.

Clara strinse i pugni delle mani.

Si avvicinò ancora di più.

La rabbia. Per la prima volta, vide il volto della rabbia, quella della sua dipendente. Era sua, e tutto ciò stava vedendo non era plausibile, possibile, era sua perché lui era il proprietario del negozio, una bottega storica dal 1979, una delle poche che aveva resistito alla crisi. E Clara aveva resistito con lui per dieci anni, diventando sua, come le finestre, gli infissi, il camerino per le prove, i tessuti, le camicie, le giacche, i pantaloni, la vetrina, la saracinesca che si alzava a mano perché costava troppo rimettere l’impianto elettrico, e l’insegna verde che era fuori dal negozio. Un oggetto inerte.

* * *

«O lei mi da i soldi che mi spettano, oppure…»

«Oppure cosa? Che pensi di fare con le minacce?»

«Le cavo gli occhi con questa forchetta» che tirò fuori dalla tasca, improvvisamente.

Mario si voltò dall’altra parte, alzando le spalle, riaccese il monitor del computer, e iniziò a digitare alcune parole sulla tastiera.

Clara sentì il corpo spegnersi, le mani si abbassarono da sole.

Se ne andò, silenziosa, in fretta, senza aggiungere nulla, senza urlare, senza i soldi, senza la busta paga, senza i trucchi che lasciò nella mensola sul bagno.

Se ne andò, come una sconosciuta.

* * *

Fu in quel preciso istante che Clara diventò una stilista.

Tornando a casa con una matita, un foglio, con lo schizzo di una gonna plissé che aveva disegnato in quello stesso giorno, per il nervosismo, continuando, poi, a tratteggiare.

Lei, con la sola matita, senza mai cancellare le linee.

Dentro un negozio di abiti da uomo.

* * *

La mattina del 31 gennaio di quattro anni dopo, Clara sentì solo il lieve ronzio di un’ape mentre risaliva a piedi la via verso casa, e venne investita da un’automobile.

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