Alberto Fraccacreta
A proposito di "La diga ombra"

Poesia di ombre

La nuova raccolta poetica di Antonio Bux propone una sorta di discesa negli inferi per trovare il significato delle cose (e delle persone): un viaggio oltre il confine delle sicurezze consuete

La discesa agli inferi è forse uno dei topos più frequentati nella poesia contemporanea. Il «varco» montaliano è quel punto del visibile in cui il poeta riesce a scorgere un legame, un’orlatura, una scorciatoia con il mondo dei morti, e ne dà conto nei suoi versi, quasi fossero una cronaca non troppo nascosta della catabasi vissuta. Una sigla come La diga ombra (nottetempo, pp. 96, € 10), ultima silloge del prolifico poeta foggiano Antonio Bux, con i sostantivi nudamente giustapposti, rimanda ad atmosfere acherontiche, mettendo insieme lo sventolio dell’oscuro e lo sgocciolio acquifero dell’Ade. Come scrive Giuseppe Munforte nella quarta di copertina, «ogni poesia ci pone la domanda di cosa sia la poesia, quella forza che porta la vita come una bufera nel linguaggio, e fa del linguaggio bufera». Il turbine lirico di Bux (da notare l’assenza di titoli e la mancata divisione in sezioni che lascia emergere una parola spezzata dalle viscere del logos) si espone holderlinianamente alle visioni degli dèi e al tempo fatto acqua (Montale, Brodskij) per riuscire a modellare brandelli semantici in grado di dare ordine — seppur temporaneo — al caos (molto opportuno sarebbe qui il neologismo dei Finnegans Wake di Joyce, «kaosmos»).

Si noti la prima quartina di uno dei testi iniziali: «Giorni d’acqua, simili a dèi…/ Ma cosa viene, da sopra o sotto,/ a sognare gli esseri/ e poi farli umani, bestie da pascolo, vivono davvero il loro tempo?». È simile per il nitore delle immagini anche questo componimento, subito successivo: «Anni perché fate fiume,/ dove e quanto il sogno dura,// se per durare si deve sparire d’acqua/ evaporando un solo tempo/ perché nel tempo si muore?// (Voci di dèi, una nuvola sopra le teste/ disegna le voci tutte le idee/ e i corpi quando si amano/ così i giorni, i profili già ombra// le vite come ombre equidistanti)». Lo stile di Bux, ipnotico e ossessivo nel ritmo, mantrico e insieme orfico, è legato alla poesia mitica, alle descrizioni arcaiche della terra (un tratto in comune con il compianto Mario Benedetti, citato in esergo), che nulla concedono al pastiche della scrittura “ironica” nel tentativo di riesumare un sospirato “sublime”, capace di suonare come bonnefoyana «vera presenza» (o, meglio, quale dolorosa esperienza di realtà à la Leopoldo Maria Panero).

La diga ombra è la terza parte di un trittico — il cui progetto originario prevedeva il nome complessivo L’ipnosimetro —, assai uniforme sotto il profilo tematico, costruito con Terza persona interiore (Transeuropa, pp. 84, € 15) e Monolite (Gattomerlino/Superstripes, pp. 136, € 12). Ed è subito evidente lo stato soggettuale franto e ricomposto, dissociato e unilaterale, che tenta di trovare una «terza navigazione» per uscire dall’impasse. La poesia non diviene così soltanto un’ottima opportunità di esecuzione linguistica, ma anche e soprattutto un termometro esistenziale per comprendere gli aspetti abissali della personalità e realizzare il più grande sogno dei poeti: un’identità in armonia con il mondo esteriore («più nulla per sentirsi uniti, sereni e prossimi/ all’incontro buio, in quella fiamma/ di cercare altrove sicuri/ l’oscuro solamente e poi diventarlo»). Questa tensione alla pienezza è segnalata dalle lunghezze lievemente ipermetre dei versi: prevalgono ottonari e novenari sui settenari, e dodecasillabi sugli endecasillabi.

Prevale, inoltre, la ricerca di Dio: diverso dagli dèi (per lo più creature terrestri) e dal dio (in minuscolo), assieme alla presenza femminile è il vero protagonista della silloge. Dio nominato, antinomico, cercato, perso e ritrovato, Dio che in ogni caso appare come personaggio concreto («Una luce appena, una specie di fulmine/ celeste. Sarà forse Dio che chiama, da una nube,/ sarà sotto la terra che continuano i ruscelli?»), filosoficamente emblema di celaniana originarietà umana («Ma vive un più crespo grumo di respiri,/ respiri simili a prati di dèi, come cerchi d’alberi,/ venuti al mondo per spiare, come un bacio/ d’autunno, sotto acque senza respiro,/ un Dio cieco che da bimbo ti vuole bene»). Ed è proprio dall’umanità innocente intravista nella trascendenza che l’uomo, trasfigurato nel poeta, riesce a superare le idiosincrasie, le ferite, le ombre. «Dolore, il tuo padrone sono io,/ e di questo io tu mi devi soffrire».

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