In memoria di un mondo lontano
Tripoli, 1977
Diario di un viaggio di lavoro in una terra in pieno rivolgimento, dopo l'arrivo di Gheddafi e quando ancora la memoria del colonialismo fascista era forte, di là dal Mediterraneo. Fra sorprese, speranze e tradizioni incomprensibili
Libia, Tripoli, 1977. Avevo ricevuto una telefonata piuttosto misteriosa dal direttore generale della grande impresa di costruzioni torinese di cui ero Project manager per i cantieri del Sud con base a Salerno. La telefonata diceva: «La aspettiamo a Torino al più presto anzi, subito». E aggiungeva: «Domani, sabato, avremmo il piacere di invitarla ai Due Lampioni in via Carlo Alberto». Eccomi dunque a Torino ai Due Lampioni, un ristorante di gran lusso, che oggi non esiste più, e al sontuoso pranzo venni accolto con affettuoso calore.
Ecco il mistero: l’impresa italiana in joint venture con una danese di Copenhagen si era aggiudicata in quel 1977 in Libia, a Tripoli, l’attività per lo studio e la realizzazione di un nuovo quartiere della città con urbanizzazione completa del complesso. L’opera, sarebbe stata di edilizia prefabbricata da produrre in uno stabilimento su brevetto dei danesi e da montare sul posto. L’impresa, d’accordo con i soci, avrebbe desiderato affidarmi il ruolo di Project Manager dell’operazione.
Mi si erano chiarite di botto le parole del Presidente dottor R. a Roma quando, complimentandosi per il progetto del groviglio di pozzi e caverne che avevo progettato e stavo dirigendo a Salerno, mi aveva detto che mi voleva presente anche in altri progetti specie all’estero e durante gli ottimi piatti di pesce io avevo parlato delle recenti tribolazioni degli italiani in Libia e lui aveva esclamato da buon Capitano d’Industria «e adesso bisogna andare in Libia, hanno sicuramente bisogno di noi».
A Torino durante l’ottimo pranzo ero stranamente piuttosto rilassato, come se vedessi quel problema dall’esterno. L’edilizia di case semplici prefabbricate non era tema di mio particolare interesse e forse questo lo diedi a vedere. Il Direttore generale proseguì dicendo di come questa avventura libica fosse importante per i nuovi rapporti instaurati dall’impresa in quel Paese e disse: «L’ing E, il figlio del titolare Presidente, sarà la guida dell’iniziativa, forte dell’amicizia con il luogotenente di Gheddafi, il colonnello Jallud». Ringraziai per la stima e risposi che per me la prestigiosa proposta poteva essere accolta favorevolmente ma ad una condizione, l’assenso di mia moglie Clelia a venire in Libia con le figlie Claudia e Paola.
Della Libia si era spesso parlato nella casa dei genitori di Clelia. Il Nonnone, dall’Etiopia, dopo la morte del fratello Franz, era stato spostato in Libia dove, lui, allora capitano aviatore, faceva parte della flotta aerea di Balbo, il trasvolatore che morirà per fuoco amico. A Tripoli l’aveva raggiunto la fidanzata Titina con una trasvolata su un aeroplano leggero dopo essersi sposata a Napoli per procura: i miracoli della gioventù. La Libia ricordava a Clelia racconti tragici sulla guerra e altri fatti più positivi della vita dei suoi genitori nella nostra colonia vista dal mondo degli alti ufficiali, ma il ricordo dei genitori era vissuto con l’animo di chi ha conosciuto molte traversie. Nonnone con me parlava dell’arrivo delle nostre armi su navi che portavano parte degli armamenti che non potevano essere montati se non con le parti che arrivavano su un’altra nave regolarmente affondata dagli inglesi e ricordava di come si lavorasse di notte per nascondersi dai bombardieri nemici. Ben diverso era stato poi lo sbarco di Rommel, accolto nel porto illuminato a pieno giorno e con tutto l’esercito già organizzato per entrare in linea, i carri armati, i camion già in moto sulle navi e pronti per l’azione …
Il codice segreto della Storia. Prima di partire dall’Italia avevo fatto, come di consueto, un ripasso di geografia. Avevo guardato a lungo la cartina geografica in quell’esercizio che mi era consueto da ragazzo quando, con l’ausilio dei 3 -4 atlanti di casa, mi muovevo con la fantasia richiamando alla mente Salgari e sfogliando la collezione di francobolli di papà. Papà, che era socio vitalizio del Touring, aveva tutte le guide anche in prima edizione e non mancava di comprare ogni anno il Calendario Atlante della De Agostini.
Il territorio immenso della Libia si affaccia al Mediterraneo diviso in tre parti, la Tripolitania a Ovest, la Cirenaica a Est con in mezzo il Fezzan e le sabbie del Sahara, che, simile a un fiume mosso dal vento, collega al mare il cuore dell’Africa quasi ambisse raggiungere, con quella specie di ampio estuario, le sponde ritenute felici dell’ex mare Nostrum, come ben sappiamo in questi giorni di poveri migranti.
Mio padre Egidio parlava della Libia, «quel gran scatolone di sabbia», e percorrevo spesso parlando con lui la costa sul mare andando da Tripoli a Homs, da Misurata a Sirte e Bengasi, poi Cirene, Derna Tobruch ormai prossimo all’Egitto poi, superato il confine, El Alamein nella zona di Marsa Matruh a 108 km da Alessandria. Sotto, il deserto che a sud è interrotto dalle oasi di Cufra e Giarabub vicino al confine egiziano, mentre a Ovest, verso il Niger, si estende il tavolato del Fezzan; poi il deserto prosegue fino ai monti del Tibesti.
Mi risuonano ancora alle orecchie le voci della radio Phonola che ascoltavo compunto con papà e ancora oggi mi vengono ogni tanto alla mente le canzoni di guerra, specie Giarabub, indelebile:
Inchiodata sul palmeto
Veglia immobile la luna,
A cavallo della duna
Sta l’antico minareto.
…
Colonnello, non voglio il pane
Dammi piombo pel mio moschetto,
C’è la terra del mio sacchetto
Che per oggi mi basterà.
Colonnello, non voglio l’acqua
Dammi il fuoco distruggitore,
Con il sangue di questo cuore
La mia sete si spegnerà.
Colonnello non voglio il cambio
Papà mi diceva che il Duce aveva fatto arrivare in Libia il cavallo bianco per entrare trionfatore ad Alessandria con una sciabola sguainata, poi sentivo che i nostri soldati «si riempivano di gloria» e capivo che andava male, molto male … Tobruc, El Alamein, i generali Rommel la volpe del deserto e Montgomery …
E si parlava di storia: in questa terra ingrata si erano succeduti Berberi, i Cartaginesi e i Romani, poi nel 430 i Vandali, quindi Bisanzio, gli Arabi nel 430, poi Normanni, Spagnoli, i Cavalieri di Malta con Carlo V, quindi nel 1551 fu preda di pirati, cacciati poi dai Turchi che la tennero fino al 1911. E poi l’Italia di Giolitti con l’annessione di Tripolitania e Cirenaica, mentre nel 1930-31 col Duce venne annesso il Fezzan e l’oasi di Cufra, infine la guerra mondiale con l’occupazione degli alleati. Nel 1943 veniva costituito uno stato monarchico con re Idris poi spodestato nel 1969 da Muammar Al Gheddafi che la trasformò in Repubblica araba di Libia
Il nuovo governo chiude le basi militari statunitensi e britanniche, nazionalizza tutte le imprese di estrazione petrolifera e in generale le grandi imprese. Il 21 luglio del 1970 decreta la confisca dei beni dei 35.000 italiani ancora residenti per «restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori». Gli italiani furono costretti a lasciare il Paese entro il 15 ottobre del medesimo anno. Dal 1970 fino al 2008 ogni 7 ottobre, in Libia si celebrò il “giorno della vendetta” in ricordo dell’avvenimento: l’espulsione di 20.000 coloni.
Nel 1977 si ebbero ancora restrizioni nei confronti dei pochi rimasti e questo era stato l’argomento innescato nella chiacchierata a Roma col Presidente.
Il nostro sbarco a Tripoli “bel suol d’amore”. Ci trovammo a Roma, Clelia e io, con l’ing E, il vice presidente ing F, e la segretaria Luciana con macchina da scrivere, timbri e cancelleria.
Eccoci a Tripoli alla dogana per uscire dall’aeroporto: faceva molto caldo con soffi di vento rovente. Un militare abbastanza malmesso apriva tutti i bagagli e da quelli femminili con un sogghigno tirava fuori la biancheria intima… era molto scuro di pelle e le mani erano chiazzate di bianco dai funghi… Fu poi la volta dell’ispezione della macchina da scrivere, che cercarono di smontare per vederne l’interno: capimmo che cercavano se c’era nascosta una bottiglia di liquore!
Dopo questo preambolo, arrivammo al Lybia Palace, l’unico albergo possibile a Tripoli, di stile nostrano, vecchiotto e mal tenuto, e ci sistemammo in camera con acqua corrente scarsa.
Rientrati dopo cena, trovammo la camera sottosopra: i diligenti boy dell’albergo avevano preso, a loro giudizio, abiti e biancheria femminili, che poi ritrovammo in un’altra stanza. Volevano dividerci per evidenti motivi di religioso, maomettano pudore. Furiosi, ci volle del bello e del buono per riuscire a tornare assieme.
Clelia andò all’ambasciata mentre io esaminavo i luoghi e i progetti. Era un’iniziativa certamente ambiziosa, ma, più che di edilizia si trattava di una fabbrica di pezzi che sfornava i componenti da assemblare e poi attrezzare con manodopera mista secondo un programma basato su cicli da ripetersi uguali in progress e nella difficile gestione degli approvvigionamenti “just in time” in mezzo alla polvere. Insomma quel lavoro consisteva, almeno sulla carta, in un governo di ritmi e controllo di specifiche ferree, all’americana come avevo ben conosciuto in mie precedenti esperienze in Etiopia e in Canada.
Ma poi pensavo alla possibilità di conoscere il deserto, le oasi e le mitiche rocce colorate, e mi sorgevano dubbi.
Passarono alcuni giorni: della città ci ricordiamo il bazar molto vivace e, finalmente popolato anche da donne, velate: era ricco di stoffe locali che piacquero molto a Clelia e la visita fu piacevole. C’erano molti colori e la vita pareva anch’essa colorata, e c’erano il venditore di profumi, il barbiere, il venditore di amuleti, quello di medicine. Ma a noi si rivolgevano con facce un po’ grifagne.
Fuori, nei giardini sul bel lungomare che ricordava l’Italia, si vedevano molti ragazzi o giovani uomini che si baciavano sulla bocca …
La colonia Libia. Nonnone parlava di come dopo i massacri delle guerre di conquista, la colonia era stata abbastanza florida nella speranza della nostra gente umile che in più di centoventimila avevano vissuto il grande sogno, ed anche studiosi si impegnavano in ricerche scientifiche e archeologiche, come lo stesso prof Desio, mentre si era cercato di portare i luoghi a un prestigio internazionale con iniziative accattivanti come il gran premio automobilistico, il “Tripoli Gran Prix”, e la “Fiera Internazionale di Tripoli”, la più antica d’Africa. Concerti si tenevano nel restaurato stupefacente teatro romano di Sabratha e veniva costruita la via Balbia da Tripoli a Tobruk per unire le due entità separate di Tripolitania e Cirenaica da noi fittiziamente unite. L’idea di Mussolini, in sintonia con le follie del suo amico Adolfo, prevedeva che la Libia diventasse parte del progetto fascista, e che la sua sezione costiera entrasse a far parte integrante di una Grande Italia, mentre l’interno sahariano doveva fare parte dell’Impero Italiano scendendo ad unirsi con Etiopia e Somalia forse comprensivi anche del Sudan se non addirittura dell’Egitto.
Ci dirà un vecchio colono nella sua casetta bianca, accarezzando il tronco di un ulivo piantato quando era arrivato in Libia e passando una mano amorevole tra le foglie: «Se mi avessero dato l’acqua, avrei fatto di questo deserto un giardino», ed aveva la voce amara.
Banchetto tra le dune. L’iniziativa imprenditoriale era ben avviata ma a me crescevano i dubbi anzi mal digerivo lo scambio tra un incarico ben remunerato e di prestigio internazionale con la difficoltà di esprimere la mia inventiva progettuale che esplicavo nella la dinamica dei cantieri di galleria di cui ero esperto e specialista. Controllare ritmi prefabbricati di cose e persone non era un mio modo di sentire. I nostri interlocutori libici avevano deciso di portare avanti i temi dell’iniziativa festeggiando il prossimo inizio dei lavori con la presenza anche del Project Manager in pectore con un banchetto a casa del personaggio più autorevole.
Così a sera ci trovammo un po’ fuori città in una villa pretenziosa, arieggiante quelle degli italiani arricchiti e circondata da un parco di palme e banani. I nostri libici erano quattro sui quarant’anni, il nostro gruppetto era costituito da E, F. io e i due top manager danesi. Clelia era l’unica donna. Chiusero ben bene tutte le porte e le finestre, tirando anche le grandi tende: faceva caldo, il vento soffiava con polvere di sabbia. Dissero: “Qui siamo tra di noi e ritenetevi a casa. Siate i benvenuti”, e una serie di camerieri si avvicinarono con vassoi di liquori di ogni qualità. Capimmo subito che loro attendevano questo momento per bere senza ritegno la bevanda proibita e dopo alcuni brindisi l’effetto fu evidente sui loro volti e un bel momento, a causa di una mossa brusca, uno dei servitori, forse tradito da un tappeto complice di troppi bicchierini, scivolò a terra rovinosamente e bottiglie e bicchieri andarono in frantumi.
Clelia si intratteneva cordiale e quasi divertita e i danesi erano prodighi di complimenti.
Passammo in una grande sala e a un tavolo rotondo ci venne servito il cous cous. Ci dissero che era cucinato alla maniera berbera e si sentiva sulla lingua che la semola era lavorata a mano. Tutti parlavano italiano; io ero seduto a lato di un libico, e presto mi accorsi che si era tolto le scarpe e che ogni tanto, chinandosi, si passava le dita tra quelle dei piedi.
A un certo punto i nostri anfitrioni, sempre più accaldati dal vino, dissero: «Adesso per festeggiare l’amicizia, proseguiamo alla maniera libica» e, presi con le mani dei bocconi di cous cous, li misero nei nostri piatti, e il mio vicino spiava il mio gradimento.
Finalmente portarono le coppette con acqua profumata di rose e fiori di gelsomino per sciacquarci le mani. Seguirono i dolci raffinatissimi a base di mandorle, noci, datteri e miele.
Uscimmo finalmente e Clelia non dette a vedere i disagi, comportandosi da perfetta signora.
Il roof garden. Con intimo disagio guardavamo quella città che mia suocera Titina, venuta fresca sposa accanto al suo prestante ufficiale, ci descriveva con accenti di rimpianto, spesso però anche pieni del ricordo dei timori vissuti: era rientrata in Italia con una delle nostre ultime navi prima della resa mentre le altre erano state affondate. Si ricordava dei dolci e profumati Lucum, che Clelia si affrettò a comprare, scegliendoli ben assortiti, e dei profumi di gelsomino di cui aveva portato una piantina che aveva piantato sul terrazzo di Napoli e che poi noi erediteremo per piantarla a Punta Licosa dove vive tuttora.
Sentivamo ovunque i segni di un frettoloso abbandono e tracce dell’Italia scrostate e ripensavamo a quello che ci aveva raccontato il padre dei nostri cari amici Minale, che era addetto commerciale del Governo fascista. Ci parlava degli entusiasmi di una colonia florida, con i libici convinti dell’Italia, che per loro aveva costruito dieci villaggi dai nomi bellissimi: “El Fager” (al-Fajr, “Alba”), “Nahima” (Deliziosa), “Azizia” (‘Aziziyya, “Meravigliosa”), “Nahiba” (Risorta), “Mansura” (Vittoriosa), “Chadra” (khadra, “Verde”), “Zahara” (Zahra, “Fiorita”), “Gedida” (Jadida, “Nuova”), “Mamhura” (Fiorente), “Beida” (al-Bayda’, “La Bianca”).
Poi venne la sera delle conclusioni al Roof Garden del Lybia Palace in una atmosfera finalmente di aria più fresca e tra i profumi di piante fiorite.
Clelia, cui io avevo delegato anche la scena, disse che lei in Libia non ci sarebbe venuta assolutamente ed io tirai un sospiro senza commenti. L’ing ER, con fare teatrale, si inginocchiò ai piedi di lei dicendo: «L’impresa e i danesi si sono convinti nel volere Sandro come Project manager, siamo appesi alle tue labbra, avrai quello che desideri, casa e servitori, profumi e dolcezze. Basta una tua parola». Ma Clelia, ferma e sorridente, negò. Ormai la decisione era presa. Prima di tornare in Italia pensammo di visitare l’antica città romana di Leptis Magna per riprendere pensieri sereni.
Tra Tripoli e Leptis Magna. I 123 km da Tripoli a Leptis Magna li percorsi in silenzio, con animo contradditorio, e cercai per tutto il viaggio suggerimenti e distrazione dalla natura e dai suoi abitanti. Dopo il percorso in riva al mare con qualche prato giallo e qualche mandorlo ed olivo, incontrammo due villaggi: in uno vedemmo uomini in caffetano seduti sul ciglio della strada in attesa di lavoro, ma doveva esserci un mercato; comparivano coltivatori con asinelli che sollevavano sabbia con gli zoccoli, e sentieri terrosi tra mura di mattoni, si spandeva odor di stalla e di polvere e comparivano alcune tende fatte con stoffa di lana e pelo di cammello, in strisce bianche e color caffè
Ci avviciniamo e alcuni ragazzi gridano “italiani” e fanno il segno dell’ombrello: dove è andata la gentilezza di cui parlavano il Nonnone e gli amici Minale che dicevano di un popolo dignitoso, buono e interessante e si lasciavano sfuggire, ma solo ogni tanto, che era stata un’illusione il voler portare laggiù la vanagloria della nostra civiltà. Vedevo donne cariche di ogni sorta di merce e mi veniva in mente che mi dicevano di quel popolo che c’era più cura del cammello che della donna.
Ma si era alzato il vento anzi si era solo rinforzato e la mancanza di umidità rendeva l’aria nitida, trasparente che faceva vicini gli oggetti: un sole impietoso dava vita agli elementi naturali che incombevano con insistenza, il sole in combutta con quel vento capriccioso variava colori ed effetti ottici, quel vento che muta la geografia delle sabbie e degli stati d’animo richiamando il patrimonio immaginario e simbolico che vive in noi.
Avevo visto nei voli dal corno d’Africa il deserto da 8.000 metri: una plaga giallo rossa, interrotta ogni tanto da valli bianchicce di fango disseccato, ricco, forse, di sale e con sorpresa vedevo tavolati spaccati di rocce, tutto annegato dalle foschie del calore, e riandavo alla nascita di quei luoghi nella fase umida delle glaciazioni e poi al paesaggio attuale, in cui l’unica traccia di quel tempo è il Nilo fecondatore dell’Egitto, poi andavo, cavalcando con la fantasia, ai paesaggi del deserto e agli enormi roccioni, che ricordavo non so da quale libro o racconto, dove in improvvise spaccature profonde ricche di vene d’acqua passava la carovana dei cammelli, un villaggio in movimento, e pensavo al detto Tuareg: «Dio ha creato paesi ricchi d’acqua perché gli uomini possano vivere e i deserti perché ritrovino la propria anima», e ancora mi venivano in mente le oasi nei segreti della natura.
Ma ecco le mura di Leptis Magna. Il sole entrava netto tra le pietre di quella città, che qui chiamano Roma, e improvvisamente nacque in me, in noi, l’illusione di ritrovarci in Italia tra quelle pietre poste dai nostri padri invano assediate dai venti e dall’oblio.
Leptis Magna. Non c’era nessuno tra i ruderi e stupimmo per la grandiosità dei luoghi forse più vasti di quelli di Palmira e di Gerace in Siria che avevo visitato tempo addietro: colonnati come quinte, il foro, archi e palestre, mercati e strade fiancheggiate da alte ed armoniche colonne.
Arrivammo al porto romano tra le statue del teatro che sorge ricco di un potente frontescena di pietra bianco rosea, alto di archi e nicchioni e decorato da un triplice ordine di colonne dell’epoca di Antonino Pio.
L’acqua azzurrissima tra pietre e reperti di marmo bianco era troppo accattivante e ci tuffammo nudi in un bagno ristoratore: ci sentivamo compenetrati d’arcano, quasi convinti di vivere all’epoca degli antichi fasti di Roma.
Tra le rovine di quelle città un profondo senso della storia trasudava dalle pietre e dai marmi e viveva dopo secoli lo spirito grande del tempo antico. Era ancora possibile inebriarsi della bellezza e, assumendo un passo lento e uno sguardo puro, perdersi nel silenzio tra archi e colonnati e fondali di teatri sognati. …Sono visioni che rendono insopportabile la realtà attuale.
Il flusso del tempo. Di ritorno al cantiere di Salerno sul balcone di casa che guarda il mare pensavo a disagio a Tripoli all’alba dell’ultimo giorno in Libia.
… Prestissimo al mattino ero salito al roof garden, insonne, solitario: tutto era avvolto nel silenzio dell’alba e avevo cercato il deserto nelle lontananze e avevo visto salire via via laggiù la luce del sole riflessa in un bagliore, giallo, bruno e grigio, un’alba diversa e nuova … poi tanti piccoli vortici polverosi avevano portato odori sgradevoli …
Quelle case da costruire avrebbero potuto essere una via una per misurare e confrontarci con quella società inquieta?
Ero poi rientrato in casa e avevo preso dalla libreria quasi automaticamente il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati: «Quassù (alla fortezza) è un po’ come in esilio. Bisogna pure trovare una specie di sfogo, bisogna ben sperare in qualche cosa. Ha cominciato uno a mettersi in mente, si sono messi a parlare dei Tartari, chissà chi è stato il primo …». Il tenente Drogo disse: «Forse anche per il posto, a forza di vedere quel deserto …».
Mi precipitai sulla costiera amalfitana per rivedere luoghi nostrani, vidi i torrioni fitti di ulivi e di limoni precipiti nel mare e salii le scale del duomo di Amalfi, poi, avviandomi per i tornanti, andai a Furore nel mio cantiere che si stava avviando per la bonifica del Fiordo e che richiedeva di risolvere problemi complessi ed eccitanti e pranzai “Da Bacco” con l’amico sindaco F., e gustai piatti di pesce sopraffini.
Parlai a lungo con quell’uomo entusiasta e tutti e due ci immergemmo in ragionamenti sul recupero del fiordo con l’abitato millenario: occorrevano idee per rinnovare una vita vera in quei luoghi…La mia decisione col senno di poi era stata giusta.
Ora, 2020, mentre scrivo ho ripreso in mano il Deserto dei Tartari: «I Tartari… i Tartari… da principio sembra una stupidaggine, naturalmente, poi si finisce a crederci lo stesso, almeno a molti è successo così, effettivamente».
No, non ci sono i Tartari oltre il deserto ma i tagliagole del Califfo ed ora dei suoi degni successori.
Esco nel giardino sul mare di Punta Licosa dove sto scrivendo e mi accarezza il profumo di gelsomino portato dalla Libia, dolcissimo, sereno.
San Bernardo da Chiaravalle. A Punta Licosa sono fioriti il giglio e il mirto, il melograno e la lantana, l’umile oleandro e la salvia, l’ibisco e la bouganvillea, brilla il verde cinerino dell’Atriplex portata dalla Palestina e ci sono ciliegie rosse e una prugna bruna e dolci more di gelso, ovunque aleggia il profumo del gelsomino di Tripoli.
Sono le piante della Bibbia che portano il pensiero a essere sereno e penso che tutta la mia lunga attività sia stata, o almeno abbia tentato di essere, quella di un “coltivato giardiniere” di piante mentali.
Mi vengono alla mente le parole di San Bernardo da Chiaravalle: «Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce t’insegneranno le cose che nessun maestro ti dirà». In fondo i problemi principali del mondo sono il risultato della differenza tra il modo in cui la natura opera e il modo in cui l’uomo pensa.