La cena di Esther/3
Tregua in Namibia
«Il nuovo posto fu in Namibia. Nel sud del paese, poco lontano dal confine sudafricano. Un deserto di pietra in cui il Fish river intaglia un canyon e a qualcuno era venuto in mente di costruirci su una diga»
Riassunto delle puntate precedenti. Roghùn, Tajikistan, cantiere di costruzione di una diga, Esther ha invitato a cena alcuni colleghi di lavoro. Mentre finisce di cucinare e si prepara a ricevere gli ospiti, ripercorre le tappe del suo travagliato matrimonio con Linaldo. Lavorano entrambi lì a Roghùn, Linaldo come capocantiere, Esther come responsabile del magazzino. Dopo un primo periodo ‘felice’ in Etiopia, tra avventure di cantiere e battute di caccia, la loro unione ha cominciato a scricchiolare. E da tempo si trascina tra continui tradimenti e fragili ma persistenti riconciliazioni, sostenute dal lavoro e da una comune visione cinica e disincantata della vita. Ora sono appena entrati in una nuova fase di pace armata: Esther ha liquidato il suo ultimo amante, Rachid, un suo dipendente di magazzino che è stato anche compagno di caccia di Linaldo. Arrivano gli ospiti: Furio, il direttore della diga, col quale Linaldo coltiva una rancorosa rivalità di vecchia data, Duran e una coppia di ragazzi, Toni e Bea. Durante la cena Linaldo racconta la sua ultima battuta di caccia sul Pamir, dove ha abbattuto un argali, una specie di grosso muflone di lì, e l’ha portato in dono a Esther come una sorta di pegno di pace. Esther lo fredda, raccontando davanti a tutti come ha sorpreso Rachid a rubare in magazzino e l’ha fatto arrestare.
* * *
Dopo le nozze ufficiali, dopo che si furono stabiliti nel Cadore, Esther sentì una specie di corpo estraneo penetrare nella loro unione. Lo sentì fisicamente.
Misero su casa a Feltre. Una casa esagerata. Anni d’estero li avevano resi quasi ricchi entrambi, non avevano certo problemi economici e si comprarono una delle più belle baite del paese. La villa del maschiaccio, che le ex-amiche di una volta le avrebbero invidiato.
Ma né il matrimonio né la casa bastarono. Non servì a colmare quel vuoto. La questione centrale da affrontare, a quel punto, fu il figlio. Lei non ci aveva mai seriamente pensato fino ad allora. Era un destino possibile, non necessariamente il suo. Un’eventualità che il futuro poteva contenere. E il fatto che non fosse venuto in tutto quel tempo, pur non avendo preso alcuna precauzione, non la insospettì. Però d’allora in poi si concentrò. Non dovette faticare più di tanto a convincere Linaldo, era nei patti, almeno questo lui glielo doveva. Iniziarono la trafila delle copule programmate, nei giorni, nelle ore e nei modi più propizi.
Dopo mesi di tentativi vani, e quando ormai quel corpo estraneo s’era talmente dilatato in lei da occupare quasi tutta la sua mente, si decise a consultare un medico. Stavolta dovette penare di più per convincerlo. Ma alla fine lo trascinò in quel posto. A Padova, pur nel cattolicissimo Veneto d’allora, un centro abbastanza avanzato che si chiamava European Hospital.
Però pur con tutta la loro competenza e delicatezza professionale, i medici dell’EH non poterono non assestarle un brutto colpo quando le dissero che Linaldo era a posto, ma c’era qualcosa che non andava in lei, nelle sue tube. Ne fu scossa più di quanto avrebbe creduto.
Ebbe allora la prima vera, aspra discussione con lui. I dottori così gentili dell’European Hospital tracciarono un quadro abbastanza onesto, non del tutto scoraggiante. Le tube occluse non erano l’unico problema. C’era anche un utero fibromatoso in cui non v’era certezza che l’embrione si sarebbe impiantato.
Litigarono, ma riuscì a spuntarla anche stavolta. Fecondazione assistita. Ci provarono per diversi mesi. Una lunga teoria di tentativi, di due categorie. Quelli falliti subito, i migliori. E quelli in cui l’ovulo fecondato s’impiantava, i più subdoli. Le davano un barlume di speranza prima che il suo dannato utero lo rigettasse. Finché i medici dell’European Hospital posero un limite. Per continuare a tentare occorreva un intervento. Rimuovere quei fibromi per rendere il suo utero più accogliente.
Ebbero un secondo, duro diverbio. Lei era pronta ad affrontarla, lui non voleva più saperne. Ma Esther era decisa a non mollare. Dentro di sé s’era formata la convinzione che spettasse a lei la scelta. Lo scontro si protrasse per molti giorni. Era preparata a lottare fino in fondo, contro Linaldo, il suo utero, i medici, la sorte (questo riguardava tutte le Esther: sia quella di prima e quella di poi, che non pensavano alla maternità; sia quella di mezzo, che n’era ossessionata; ostinazione e coraggio accomunavano tutte quelle Esther).
Ma una notte, in quel periodo di liti continue, si sorprese a sognare lui che si masturbava per procurarle quel pugno di spermatozoi. Si svegliò sudata, turbata. In preda alla nausea. Ebbe allora la percezione che forse stavolta non ce l’avrebbe fatta. Non combatté con la dovuta convinzione, nei round che seguirono.
Decisero allora di prendersi una pausa. Lasciare per qualche tempo la cosa in sospeso, farla decantare. E per cercare di uscirne parve a entrambi una buona idea mettere un po’ di spazio tra quel Linaldo e quella Esther, e la situazione che s’era creata. Lasciare Feltre, andarsene. E dove, se non in cantiere? Un po’ appesantiti, la vita di un tempo.
Il nuovo posto fu in Namibia. Nel sud del paese, poco lontano dal confine sudafricano. Un deserto di pietra in cui il Fish river intaglia un canyon – il secondo più grande al mondo, dopo quello del Colorado – e a qualcuno era venuto in mente di costruirci su una diga.
L’ultima scena Esther la ricordava in ogni dettaglio. Erano nel soggiorno del prefabbricato in cui vivevano laggiù. Il solito soggiorno con la finta stube altoatesina, i batik, le maschere e tutto il resto.
“Ma perché hai fatto tutto senza dirmelo?” Chiese lui.
“Trascuriamo i dettagli, veniamo al punto. Si può fare. Io voglio farlo. Tu?”
Quello che Esther voleva fare era una cosa cui non aveva mai smesso di pensare, fin dal momento in cui erano tornati in Africa. Non del tutto legale. E con qualche dubbio profilo etico. Ma possibile, laggiù, con un po’ di soldi. La coppia, a quanto pareva, era disponibile. Il bambino era un amore, Esther lo aveva già visto diverse volte. Qualche intermediario avrebbe aggiustato le carte. Con le autorità namibiane prima e con l’ambasciata italiana poi. Si poteva fare. C’era un percorso tracciato.
Ripensadoci, adesso, Esther sorride di se stessa. Come aveva potuto pensare che Linaldo avrebbe accettato? Doveva avere la mente un po’ confusa… Ma quel che la offese irrimediabilmente, quel che la umiliò, fu ciò che lui le disse alla fine.
“Senti,” dice Linaldo. “Prendersi un figlio in questo modo, portarlo via alla madre, al padre, ai fratelli che ha qui… Non è giusto, non è proprio giusto, oltre ad essere illegale. Ma non è per questo che non lo farò. Non voglio alibi, non cerco scuse. Non lo farò perché non voglio un figlio. E questo è tutto. Neanche se per miracolo ora ci venisse. Non lo voglio più…”
Silenzio. Prolungato.
“Beh, sai pugnalare…” dice infine Esther.
Silenzio.
“E tutti i tentativi che abbiamo fatto, allora…”
Silenzio.
“E adesso, cosa t’aspetti che faccia? Un po’ dura da digerire, come confessione. E un tantino tardiva…” Dice Esther, fissandolo con quello sguardo in cui per la prima volta affiora la vena di disprezzo che d’allora in poi sarà una costante del loro rapporto.
“Piantala!” Dice lui. “Non è affatto una confessione. Non c’è niente da confessare… Abbiamo solo smesso di fingere tutt’e due. Tu lo sapevi da un pezzo. Lo sapevi prima ancora di cominciare…”
Lei continua a fissarlo in quel modo. “Sei un vigliacco,” dice.
“Ah, senti! Su questa storia dei figli, voi donne avete sempre pronta la vigliaccheria degli uomini… Se ti piace chiamarla vigliaccheria, fa’ pure. La verità è che io non desidero un figlio. Non l’ho mai desiderato. L’avrei fatto perché lo volevi tu… Come milioni di uomini fanno per milioni di donne. Però non è venuto. Un figlio nostro non è venuto in nessun modo. E non per colpa mia, dannazione.”
“Questo è un colpo basso, brutto bastardo…”
Senza accorgersene, si sono alzati in piedi e sono vicinissimi, in mezzo alla stanza, quasi affrontati. Ma a questo punto crollano entrambi sul divano. Due divanetti separati, ad angolo, divisi da un tavolino. Passò del tempo prima che Esther dicesse:
“Ma perché, perché ti sei lasciato trascinare in questa storia?” Il tono era sinceramente dispiaciuto; e anche vagamente incredulo, di chi cerca di riorientarsi, di capire dov’è.
“Sì, quello è stato il mio sbaglio…”
Silenzio.
“Allora almeno spiegamelo. Spiegami perché cazzo non vuoi più un figlio!”
“Egoismo. Pessimismo. Cinismo. Un’altra mezza dozzina di buone ragioni…”
“Stronzate!”
“Beh, allora dimmelo tu…”
Dopo questo, cominciarono a dormire in letti separati. La porta della camera di Esther restò chiusa a oltranza. Qualche tempo dopo Linaldo ebbe la sua prima relazione extraconiugale, almeno a memoria di Esther. Una sciacquetta che lavorava in segreteria.
Glielo disse subito, e ad Esther parve una conseguenza logica. Molto più logica del comportamento che Linaldo aveva tenuto fino a quel punto. Finalmente c’era di nuovo un ordine, nella condotta del suo uomo… Poco dopo Esther si scopò un tipo, giù in magazzino. Un banconista poco più che ventenne, un ragazzo namibiano. Glielo disse e questo inaugurò il ritmo pendolare degli adulterii che da vent’anni in qua intarsiavano il loro matrimonio.
Però dopo il lavacro di quei tradimenti, dopo che la turbolenza si fu un po’ calmata, i veleni sedimentati, dopo che si furono stancati, l’uno e l’altra, di quelle relazioni estemporanee e vuote, la loro unione riprese misteriosamente a funzionare. A un livello più basso, a un grado più freddo… ma funzionava. Funzionava durante il giorno, sul lavoro, dove ripresero a darsi una mano a vicenda. E funzionava la sera a casa e persino la notte a letto. Era meglio di qualunque altra cosa si trovasse in giro. In tutto quel tempo non smisero mai di abitare insieme.
Gli ultimi della serie, lì a Roghùn, erano Sonja e Rachid. Sonja era una delle segretarie di direzione, una venticinquenne caruccia, biondina, che parlava inglese e russo. Rachid ora doveva vedersela con la polizia (di inglese non ne aveva mai masticato granché, ma non è che con Esther avessero molto da dirsi). Liquidati entrambi. Erano rientrati in tempo di pace, lei e Linaldo, campeggiavano nell’oasi, con quell’argali che lui le aveva portato in dono.
Doveva essere stata proprio quella battuta sull’argali, e poi forse la storia dell’arresto di Rachid, a irritare il suo uomo. Aveva anche lui qualche conto da regolare. Pareva deciso a provocare Furio.
“Beh,” disse Linaldo a capotavola. “A parte me e Furio, nessuno di voialtri c’era, a Palazzo, alla cena offerta dal Presidente dopo la cerimonia. A banchetto finito, quando hanno aperto le danze…”
Fu interrotto da Bea, quella ragazzina che parlava sempre a sproposito.
“Oh, sì,” aveva detto, con la sua voce squillante che la faceva sembrare persino più giovane della sua età. Come il viso, del resto, quel faccino imbrattato di lentiggini, una specie di Pippi Calzelunghe, pensò Esther, se si lasciasse crescere i capelli e steccasse le treccine… “Sì, quelle danze loro… somigliano a una specie d’arte marziale, che so,” stava dicendo Bea. “Quei gesti lenti, ripetitivi e quelle facce truci che si guardano in cagnesco, sfidandosi con gli occhi… Sto provando a impararle, c’è un tizio, in amministrazione, che sa ballare e m’insegna…”
“Beh, Bea,” disse Esther, versandole da bere. “Questa è una delle tante cose sconvenienti che fai…”
“Perché sconveniente?” Protestò lei. “E’ un tipo gentile, avrà cinquant’anni… Potrebbe essere mio padre…”
“Prima di tutto perché sei una ragazza,” disse Linaldo. “E quelle danze sono per soli uomini. E poi dovresti andarci cauta con i tajiki, ne hai già fatte un bel po’, di sciocchezze…”
“E naturalmente anche per Toni,” disse Esther con noncuranza. “Non hai niente da dire, tu? Devi tirarle un po’ il morso, a questa scalmanata. Non le fa bene, a nessuno dei due. Lo so, ci sono passata. Aiutami a ritirare i piatti,” aggiunse, rivolta a Bea.
L’arrosto era in caldo. Quando la raggiunse, in cucina, e le soffiò in faccia: “Ma perché hai detto quelle cose? Come ti permetti?” Esther semplicemente aprì il forno. “Tiralo fuori,” le disse. “E mettici su questa salsa,” le porse una piccola zuppiera di salsa scura, con immerso un mestolino a beccuccio. “Concentrati su quello che fai. Non c’entra, il mio arrosto, con le tue furie. Parli troppo apertamente con gli uomini. Loro non sono preparati a questa franchezza. Non da una donna.”
Quando rientrarono trovarono Linaldo che faceva circolare quel filmato, sul cellulare. L’aveva ripreso durante il ricevimento offerto dal Presidente subito dopo l’invaso della diga. Nel film si vedeva Furio sul palco pronunciare un discorso, con l’interprete tajiko che traduceva per la platea. Vantava l’impresa del cofferdam, quel primo invaso ottenuto in modo così rischioso e a prezzo di tanti sacrifici. Ma le sue parole cozzavano contro un muro di volti ostili, sprezzanti, della schiera di autorità tajike allineate sul palco presidenziale. Suonavano fesse e vuote. Dopo il banchetto, quando furono aperte le danze, Furio venne invitato a ballare dal suo omologo, il capo della rappresentanza governativa a Roghùn. Un vecchio ingegnere tajiko, senatore della repubblica, fregiato di mille onorificienze, che in epoca sovietica aveva partecipato alla costruzione di Nurek, la diga attualmente più alta al mondo che Roghùn avrebbe superato.
Nella scena seguente, sullo schermo dello smartphone, Furio era costretto a ballare al centro dell’enorme salone dei ricevimenti addobbato a festa, affrontando in quei passi che simulano un duello diversi rappresentanti del governo tajiko che via via si unirono alle danze. L’intento era chiaramente offensivo. Furio si muoveva maldestro, spaurito, tra ministri e generali in uniforme di gala con file di decorazioni sul petto. Come una specie di bestia ammaestrata in mezzo suoi domatori. Una brutta figura, avvilente per tutti gli italiani del cantiere.
Il cellulare passò di mano in mano. Il fatto che nessuno ridesse accentuò l’imbarazzo.
Dopo che gli invitati se ne furono andati, in camera da letto, mentre si preparavano per la notte, lei gli disse:
“Dovevi proprio farlo? Furio non l’ha presa bene…”
“Beh, questa è nuova,” rispose lui. “Tu lo difendi? Gli hai sempre dato addosso anche tu, al numero uno…”
“Sì, ma era nostro ospite,” disse Esther, con quell’intonazione di disprezzo che era come una sorta di linguaggio cifrato tra loro. “Impara piuttosto ad affrontarlo fuori, in cantiere. Regolali lì, i tuoi conti.”
Linaldo la fissò. Cos’era, di nuovo, questa voglia di colpire?
“Non è stata poi una gran cosa,” provò a minimizzare. “Poco più di uno scherzo. Piccolo scotto da pagare, per quel che ci ha fatto passare con quel cofferdam… Sta’ tranquilla, Furio se ne scorda subito. Non gli è mai importato molto, a lui, se la gente gli ride dietro.”
“E allora che lo fai a fare? Ti dà soddisfazione? T’accontenti di poco, numero due… Sei sempre il solito. Non le porti mai fino in fondo, le cose.”
Linaldo stava per replicare, ma non lo fece. Aveva sonno. Spense l’abat-jour sul comodino. Lei aveva già spento il suo. Il buio dava tregua.
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