A proposito di "classici rivisitati"
L’opera fatta strana
Da un decennio è invalsa una strana moda, nell'opera lirica: stravolgere contesti e libretti per ambientare le vicende nelle situazioni più assurde. E, sempre, fra le proteste del pubblico. Perché questa mania di "farla strana"?
Con le parole «‘o famo strano» il bravissimo Carlo Verdone, in uno dei suoi film, preannunciava alla sua fresca sposina, come dire, l’intenzione di passare una notte d’amore alquanto movimentata. E sin qui… chi può! Il difficile, o meglio la tragedia, per i melomani è intervenuta quando il proponimento di “farla strana”, piuttosto che riferirsi ad una notte d’amore, è andata, da parte di alcuni registi, ad interessare l’opera lirica. E, allora, sono stati dolori!
Per questo, in un momento di totale chiusura dei teatri, ritengo possa divenire utile fare il punto, sorridendoci sopra amaramente, sulla moda, ahimè! perseguita da tantissimi registi, di stravolgere completamente l’opera lirica, con effetti spesso devastanti sul povero spettatore. Inutile aggiungere come tutti i melomani sperino in una pronta riapertura dei teatri di opera. A patto, però, che si ritorni a regie decenti o almeno interessanti, capaci, soprattutto, di non offendere l’intelligenza creativa degli autori e di chi ha pagato il biglietto.
Tornando alla volontà registica di “farla strana”, da una decina di anni a questa parte (e anche più), la sopra descritta volontà di portare in scena la “stranezza programmata” è divenuta, appunto, appannaggio di numerosi registi italiani e stranieri che, in nome di questo “credo”, hanno aperto una specie di gara fra di loro a chi, appunto, riuscisse a “strombolare” di più un povero melodramma.
Ora, a parte alcune spassose invenzioni con opere che, per lo più, si prestavano (vedi alcune opere giocose settecentesche o anche di Mozart), per le restanti la gara di cui sopra è stata ingaggiata da una serie di registi i quali, appartenenti ad una specie di “Nouvelle Vague” (la parola è però impropria), alla fine, stravolgendo i “desiderata” degli autori (librettista e musicista), sono riusciti a produrre mostri scenici, spesso davvero insuperabili. E ciò lo hanno fatto con assoluto sprezzo del pericolo (fischi del pubblico) e sprezzo del rischio di far uscire dalla tomba gli autori che, per fortuna sempre dei registi, ebbero un dì lontano a calare «in un profondo avel».
Ad essere precisi, la stagione delle stranezze o delle rivisitazioni è stata aperta nel 1976, a Bayreuth, grazie al nipote di Wagner, Wolfang che, morto il fratello, Wieland (una specie di geniaccio), per farsi perdonare le simpatie naziste di sua madre, Winifred, consentì alla cosiddetta “officina di Bayreuth” da lui creata, di attualizzare le opere del celebre nonno. Di qui le regie, spesso stravaganti, a iniziare da quella fatta del Ring (Tetralogia de’ L’anello del Nibelungo, composto da un prologo e tre giornate: L’oro del Reno, la Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei) ad opera del regista francese Patrice Chéreau che, influenzato dalle idee di Bernard Shaw, vide nel Ring una metafora sociale fra classe operaia e capitalismo.
Data la stura, da quel momento hanno avuto inizio una valanga di reinterpretazioni delle opere del povero Wagner che, conservatore com’era, a mio giudizio, se fosse tornato in vita, avrebbe appiccato fuoco al teatro che aveva costruito.
Come ovvio, non potendo, per giustizia, la sola Bayreuth godere di tanto “innovativo bene” i teatri di tutto il mondo si sono dati da fare. Pertanto è avvenuto che i sovrintendenti, mandando all’aria secoli di tradizione, buon uso della logica e del buon gusto, siano corsi ad affidare ai registi di questa “novella moda” l’impegno di seppellire, attraverso le possibilità esplicate dai loro illuminati cervelli, un numero considerevole di disgraziatissime opere liriche a loro incautamente affidate.
Purtroppo, da abbonata al Teatro dell’Opera romano e frequentatrice anche di altri teatri, ho avuto la disgrazia di assistere a numerosi di questi dolorosissimi parti “nutrendo in core” (come si direbbe in un’opera lirica) la speranza che la moda, prima o poi, possa cambiare. Ma il tempo passa e siamo ancora lì!
Fatte queste affermazioni, per non far pensare a qualcuno d’essermi bevuta il cervello, passo ad elencare, brevemente, alcuni esempi delle “illuminate” regie alle quali ho avuto il profondo disagio di assistere. E inizio con quello che ritengo sia stato il più grande affronto reso ad un’opera lirica di ineguagliabile bellezza musicale, quale è appunto… la Sonnambula. Orbene, per la volontà registica del duo Wieler-Morabito (nella foto accanto al titolo), a Stoccarda, nel 2012, è andata in scena, l’opera belliniana che, a parte amenità varie, ci consegnava una più o meno gentile Amina, alla quale, viene, con esplicita evidenza, per così dire, rotta la “brocca”. In conseguenza di questo abuso operato dal conte, non certo da quel tonto del promesso sposo Elvino, la misera abortisce mentre canta la sublime “Ah! non credea mirarti”, con tanto di scorrimento di sangue in scena… ma si può?
Dopo Bellini, giungiamo alla scaligera Traviata del 2014, la cui regia è stata curata, anzi distorta, da certo Dmitri Tchernia, che ci ammannisce un “romantico” Alfredo, fornito di matterello, il quale, mentre canta, “Dei miei bollenti spiriti” stende le tagliatelle per la sua Violetta, confondendo (può darsi) i suoi bollenti spiriti con l’acqua bollente per calare le tagliatelle. Da parte sua Violetta, possedendo dimensioni alquanto generose, dimostra agli spettatori d’aver lungamente gradito le citate tagliatelle, anzi, non paga, tanto per aiutare la bilancia, esala l’ultimo respiro stringendo al seno una scatola di cioccolatini. Sull’ultima scena urge, però, un’ulteriore precisazione: il regista relega i tre maschietti (Alfredo, il padre e il dottore) non già a un metro di distanza ma addirittura ad una decina di metri dalla povera donna che muore (affetta, più che dalla tisi, da diabete fulminante!) sola e abbracciata, piuttosto che con l’”amato Alfredo”, con la cioccolata.
Proseguendo con Verdi, sempre alla Scala – nel 2015 – assistiamo ad una Giovanna d’Arco schizofrenica, che, per merito del duo registico Leiser-Caurier, sta con un piede in manicomio, insidiata addirittura da uno psicopatico padre il quale, in preda a turbe sessuali, passa il tempo a chiedersi: Giovanna è pura o no? Ai due, poi, ben si accompagna un reso idiota Carlo VII che, impacchettato in carta stagnola dorata, più che un re sembra un cioccolatino natalizio.
Passando da Milano a Napoli, cosa dire di una Carmen del 2015 (nella foto), al San Carlo, dall’ambientazione (usando una parola gentile) piuttosto irrazionale ove il regista Finzi Pasca e lo scenografo Hugo Gargiulo, sparita Siviglia e la fabbrica di tabacco, al suo posto fanno ammirare un portale addobbato con centinaia di lampadine, tipo festa paesana del Sud, all’interno del quale si aggira una folla d’incerto mestiere, in giallo canarino o giallo itterizia. Vista l’uniformità di colore usata per gli abiti, allo spettatore diviene lecito presupporre che costoro, per ottenere simile uniformità, si siano dati, telefonicamente, la voce il giorno prima. Comunque, il meglio della regia si esprime allorché i poveri cantanti vengono costretti ad agire attorniati e, direi io, infastiditi, da biechi figuri che, agitando lunghi cilindri fosforescenti, anche questi tipo matterello, arrecano continuo incomodo a chi canta e a chi guarda. Potete immaginare, per dirla operisticamente, “in tal frangente”, ove sia andato a finire l’eros e il pathos del quale dovrebbe essere pervasa l’opera di Bizet… roba da zucchine lesse senza sale!
E ancora, da non perdere – nel 2016 – al Costanzi di Roma, un Barbiere di Siviglia il cui regista Davide Livermore porta sulla scena, a mo’ di filo conduttore dell’opera, un topo che, sin dalla sinfonia, attraversa la scena e diviene, via via, sempre più grande sino ad assumere le proporzioni, si direbbe a Napoli, di uno “zoccolone”. Sulla enigmatica presenza dell’imperversante topo, non avendo ben compreso il recondito e subliminale messaggio di questa inquietante presenza, ho scritto al teatro chiedendo lumi. Non ho avuto risposta! Rimasta, pertanto, “in grave ambascia” e dovendomi pur fare una ragione circa la scenica pantegana, ho così concluso: può essere che il regista, ritenendo Rossini alquanto antiquato, abbia ritenuto utile, tanto per svecchiare l’opera, portare in scena, più che un barbiere, un bel… topo di Siviglia.
Persistendo poi con il povero Bellini, che più che rivoltarsi nella tomba tenta ormai disperatamente di uscirne, dopo Sonnambula, tocca a una Norma del 2004 a Monaco, dove il regista Yurgen Rose fa divenire la sacerdotessa dei druidi una pseudo palestinese (almeno così sembra) che, vedi mai, “miete il sacro vischio” (con ogni evidenza importato dai Paesi del nord) nel deserto. Senza contare che Norma, al posto del “fatal romano”, se l’intende con un Pollione (non poteva essere altrimenti) divenuto anche lui pseudo israeliano.
Identica ambientazione, si presuppone, arabo-israeliana ci viene donata a Bologna – nel 2016 – dal regista Daniele Abbado che, bontà sua, applica particolari cure ad un molto improbabile Attila, vestito più o meno da nazista; e neppure questa è una certezza, essendo quanto mai enigmatica la foggia usata. Povero Verdi! Quest’ opera, già di suo complicata, diventa improponibile se, è il caso di dire, si va a “sconcicare” un panorama difficile come quello del medio-oriente.
E come sorvolare sulla messa in scena di Un ballo in maschera del 2016 a Monaco di Baviera, la cui azione, parlando di corna, si svolge per intero su un enorme letto che, generosamente, durante l’opera, al passo forse con determinati gusti, ospita anche incontri plurimi. Ma la vera genialata del regista Johannes Erarth arriva nel finale, ove fa resuscitare il conte Riccardo che, dopo essere stato non pugnalato bensì sparato dal quasi cornuto marito di Amelia, lasciata costei, fresco come una rosa, se ne va con l’indovina Ulrica, per l’occasione divenuta “bona” come la famosa Anitona di Fellini.
Da annoverare ancora una Mimì divenuta tossicodipendente; un povero Werther che, visto come hanno conciato lui e Carlotta, si suicida non per disperazione d’amore ma per disperazione di “lesa estetica”. E ancora un Eugenio Oneghin a Roma (fresco di giornata) anno 2020, ove, per la regia di Robert Carsen, (nella foto) e le scene di Michael Levine, la Russia, sia essa la campagna che gli scintillanti saloni moscoviti, sono sempre rappresentati da tre claustrofobiche pareti bianche, senza quinte o quant’altro, all’interno delle quali, si aggirano dei poveretti (i cantanti) che sembrano capitati in tanta desolata landa, per pura disgrazia. Quando si dice operazione risparmio!
La lista potrebbe continuare, ma non voglio infierire su quanti hanno la bontà di leggermi. Eppure, prima di chiudere vorrei dare testimonianza sul come il pubblico presente a queste assurdità, non essendo scemo, ha sempre gratificato i responsabili dello scempio con innumerevoli fischi e dei buu (gazzarre mai viste) che, chissà per quale arcano motivo, quasi mai vengono riportati dalle cronache ufficiali dei giornali. Insomma, stante la situazione, se Diogene cercava l’”uomo” i melomani cercano qualcuno che, finalmente, lasci “riposare” a casa questi onnipresenti geni della regia. Il vantaggio che ne deriverebbe sarebbe quello di poter tornare ad assistere ad un’opera eseguita come Dio e autori comandano.
E su questo punto, un‘ulteriore domanda sorge obbligatoria: se la democrazia si regge sul concetto della maggioranza, perché, parlando di opere liriche, questa maggioranza di spettatori che, disperati, abbandonano i teatri lirici, stracciando gli abbonamenti, non viene tenuta in conto? Perché mai si dovrebbe pagare per vedere così distrutte opere, frutto del genio umano? A chi giova un simile andazzo? Perché si affida a certi sovrintendenti (per fortuna non tutti) che, capaci soprattutto a far di conto (e, visti i deficit, spesso manco quelli), l’onere di approntare un cartellone? Costoro, appunto, essendo dei manager, risultano preparati sull’opera come un cittadino qualsiasi lo può essere sul teatro Kabuki. Perché non si ridà potere ai direttori artistici che, oggi, nominati come sono dal sovrintendente, poco aprono bocca? Chissà, costoro, essendo musicisti, forse potrebbero riuscire, recuperata autorità, intanto a non farsi rifilare dalle agenzie, a scapito degli italiani, artisti stranieri il più delle volte mediocri; e poi, chissà, imponendosi potrebbero moderare anche i “lampi di genio” di alcuni registi che spesso mostrano di poco essere informati sui tempi e sui fatti contenuti nel libretto delle opere a loro affidate.
Impossibilitata a dare appropriate risposte a questi quesiti, e non volendo, magari col dire la verità, procurarmi querele, mi affido alle famose parole di Pietro Mascagni, il quale, dopo la visione di un’opera di un raccomandatissimo compositore fascista, onde evitare dei guai, dando i giudizi severi che costui meritava, così si espresse: “non ho parole!”