Regolari e irregolari
La conta degli invisibili
Si diceva che saremmo stati migliori, e invece ci troviamo come sempre a difendere solo i nostri privilegi. Per esempio, mercanteggiando sul numero degli "schiavi" da regolarizzare. Un suk funzionale solo alla propaganda
Una fitta nebbia si addensa lungo i confini dello Stato, il traffico si blocca, ogni attività è sospesa, ogni essere umano si trova sigillato in un bozzolo cieco. È un attimo: quando il sole torna a splendere nel cielo acceso della California, tutti i messicani sono spariti, scomparsi, dissolti nel nulla. All’improvviso, i campi sono vuoti e silenziosi, nei condomini e nelle ville cessa il ronzio degli aspirapolvere, invano vecchi decrepiti chiedono di essere portati in bagno, nei forni dei ristoranti si brucia la pizza, nei cantieri nessuno impasta la calcina, le piscine si intorbidano, la giovane amante non risponde più al telefono.
Così – nell’ormai lontano 2004 – il regista Sergio Arau descrive la California senza messicani e il golden State finalmente ricondotto nelle mani degli eredi bianchi dell’antica corsa all’oro. Pensate: in quegli anni spensierati Donald Trump non era ancora all’orizzonte, il muro tra Messico e Stati Uniti invecchiava serenamente, serenamente i border patrols (la “migra”) correvano in caccia degli indocumentados e serenamente il paese delle meraviglie apriva le sue porte agli incoscienti che riuscivano a passare il confine.
Quel piccolo film era uno scherzo d’autore, uno sberleffo, un imperfetto saggio di fantascienza sociologica: eppure nelle sue scene e nelle graffianti canzonature si nascondeva una profezia: un ritratto di quello che accade oggi – e di quello che potrebbe accadere – non solo in California, ma nel resto del mondo ricco e bianco che abbiamo il privilegio di abitare. Ecco dunque: quella nebbia che nel film disperde i messicani è arrivata davvero in tutto il pianeta come un sipario tra un atto e l’altro della commedia umana. Pandemia, virus, contagio, isolamento, tracciamento: per combattere e forse vincere questa battaglia bisogna disperdere la nebbia che ci impedisce di conoscere a fondo noi stessi e chi vive insieme a noi.
Non è – non sarebbe – più tempo di favole, pregiudizi e superstizioni. Solo in California, degli 800mila lavoratori impiegati in agricoltura il 60 per cento sono immigrati senza documenti: illegali, clandestini, come amiamo definirli nel nostro gentile Paese. Negli Stati Uniti dell’era Trump, gli immigrati irregolari rappresentano il 2 per cento dei lavoratori nelle costruzioni, il 10 per cento negli hotel e l’8 per cento nell’industria alimentare: milioni e milioni di nuovi americani le cui mansioni – e il cui contributo all’economia globale – sono nello stesso tempo indispensabili e invisibili. In ogni Paese europeo le percentuali sono simili, sia che si tratti di manovali nelle costruzioni, di lavoratori agricoli nelle serre spagnole o nei campi del Sud d’Italia, di badanti e collaboratori domestici negli appartamenti privati. Altro che invasione, altro che minaccia! In una parola, e non da oggi: la nostra sicurezza famigliare e alimentare dipende dal lavoro di un esercito di nuovi schiavi, senza volto e senza diritti.
Ma il sistema – la pacchia che prometteva di durare altri decenni – comincia a vacillare sotto il colpi dell’emergenza. Questo è da oggi l’orizzonte europeo: con la politica di tracciamento e distanziamento sociale imposta dalla pandemia, centinaia di migliaia di immigrati si ritrovano senza lavoro e – in quanto irregolari – senza interventi sociali che assicurino una pur misera sopravvivenza. In una parola: una moltitudine di esseri umani si raccoglie ormai sotto le nostre finestre e noi – i nostri governi – non possiamo chiudere gli occhi e pretendere di non vedere e non sentire, come abbiamo fatto fino ad oggi.
Di fronte a un problema di queste dimensioni sarebbe necessario un soprassalto di dignità e la politica dovrebbe per una volta recuperare il suo senso. Certo, si può rispondere con la “doppia verità” del presidente americano che predica inflessibilità e nello stesso tempo garantisce agli imprenditori una totale assenza di controlli sulla manodopera. Si può rispondere al contrario come il governo di Lisbona, che avvia alla luce del sole una seria politica di regolarizzazione degli immigrati. Facile a dirsi: per noi – nel cinema come nella politica – è troppo forte il richiamo della commedia all’italiana.
Nel 2011, in Cose dell’altro mondo, il regista Francesco Patierno girò un insolito remake del film di Arau, ambientando la rovinosa scomparsa degli immigrati in un Veneto ipocrita e ignorante. Nel ruolo dell’imprenditore razzista, Diego Abatantuono è chiamato a ripetere il suo mantra: «Fuori dalle balle, prendete il cammello e tornate a casa vostra». È questo più o meno lo slogan dell’opposizione che oggi rumoreggia sotto il palazzo al grido di «mandiamoli tutti a casa», mentre nelle stanze del governo si fa notte in una misera trattativa da azzeccagarbugli: un suk politico in cui si contratta a colpi di spiccioli ed elemosine, piccole furbizie per salvare la faccia, arretramenti tattici e ridicole enfatizzazioni.
Regolarizzazione per sei mesi, poi a tre, poi indietro a trenta giorni, poi ancora per sei mesi. E carte bollate e scartoffie, paura della piazza e del sondaggio settimanale, ansia per il raccolto dei pomodori e per i prezzi al supermercato. Al termine della snervante trattativa gli invisibili appaiono finalmente all’orizzonte: li puoi scorgere con il binocolo, dentro una nebbia fitta che ancora ci avvolge. La situazione – come diceva Ennio Flaiano – è grave ma non seria.