Pier Mario Fasanotti
Due libri di Adelphi

Le donne di Jean Rhys

“Viaggio nel buio“ e “Buongiorno, mezzanotte” rilanciano la scrittrice inglese Jean Rhys: una raffinata autrice di ritratti femminili pieni di solitaria malinconia. Donne insoddisfatte della libertà illusoria del Novecento

Vale proprio la pena di occuparci di un’eccellente scrittrice: Jean Rhys. L’editore Adelphi ha mandato in libreria due suoi libri: Viaggio nel buio (177 pg., 18 euro) e Buongiorno, mezzanotte (169 pg., 17 euro). Se per assurdo dovessimo “fondere” i due testi, potremmo dare loro il titolo “Le sbandate”. È un azzardo, lo so, ma giustificato dalla descrizione puntualissima di due donne sole al mondo, in perpetuo disagio. Una è ventenne, l’altra ha 37 anni. Si spostano a Londra e a Parigi. Hanno una tristezza endemica, si pongono domande difficili, con una ripetitività che sfiora l’ossessione. Ci sono tante frasi che lasciano il segno. Qualche esempio: «È tutto crudele, cretino, indicibilmente orrendo. Non ho mai abbastanza fegato per uccidermi, se no me ne sarei andata per un pezzo»; «Io non credo che le cose cambino davvero, mi pare che tutto si ripeta continuamente»; «Non ho dignità. Non ho dignità, non ho un nome, e neppure un viso o una patria. Il mio posto non è qui né là, non appartengo a nessuno, a nulla… ma non importa… eccomi qui, una pagliuzza che galleggia ai margini di un gorgo e gradatamente scompare inghiottita dal centro, un centro morto in cui tutto ristagna, tutto si placa».

Ci sono frementi somiglianze tra le donne dei due romanzi. Cominciamo dal Viaggio nel buio. La giovanissima Anna Morgan, dominicana, è sbarcata in Inghilterra, vive in varie camere ammobiliate dopo essersi esibita come ballerina, a nord di Londra. Ha pochi soldi, ma soprattutto il suo cuore è rabbuiato dal grigiore londinese che si fa morsa interiore. Inevitabile che i suoi pensieri si spostino dalla fuliggine morale e materiale di Londra ai ricordi coloratissimi della sua terra, alla sua amica d’infanzia, al desiderio d’una volta di «essere una bambina nera».  Le case alte e massicce della città, che paiono spiarla e inseguirla con tenace cattiveria, la inducono a ricordare le palme di cocco, i fiori scintillanti, i terreni rigogliosi della sua patria.

Ha parole dure verso una città che, almeno nei quartieri eleganti, è d’obbligo imparare «la sciccheria (e poi sei a posto)». Ha un lieve moto di allegria quando sente qualcuno che suona il piano, «un tintinnio come di poggia che scorre». Ma, nelle varie camere che prende in affitto «quando si ha la febbre ci si sente leggeri e pesanti, si è piccoli e gonfi, ci si arrampica interminabilmente su una scala che gira come un mulinello». Ha incontri galanti, beve (molto), tenta di essere “una gentildonna inglese”. Illusione, solo illusione, e nemmeno la volontà di apparire tale. Dorme una notte con un uomo. «Mi svegliai molto presto e per un po’ non riuscii a capire dov’ero. Un odore fresco, che non era l’odore morto di Londra, entrava dalla finestra». Quella piccola e breve gioia non le impedisce, dopo, di piangere.

Spesso è cinica. «Torniamo in albergo»: dice a un uomo di tirare le tende, sa che certi momenti «durano mille anni eppure finiscono subito». Ricorda quanto le ha detto l’amica Laurie: «A certe donne comincia a piacere solo quando stanno per invecchiare; è una bella sfortuna, direi. Io preferisco consumarmi finché sono giovane». Per fortuna, pensa Anna, c’è l’alcol: «Con un po’ di gin quasi immediatamente tutto incomincia a sembrarmi piuttosto comico». E felice, o quasi, quando dorme («dormo come se fossi morta»). Altra illusione di una ventenne sradicata: «È strano quando hai l’impressione di non volere altro dalla vita che il sonno; oppure rimanere sdraiata senza muoversi. Succede quando senti il tempo che scivola via come acqua che scorre». Piange spesso, anche quando trova dei soldi che uno spasimante le infila di nascosto nella borsetta. Lo stesso uomo che evidenzia tutta la sua vigliaccheria facendole dire da un amico che tutto deve finire, anzi: è già tutto finito. Tra delusioni, alcol e lacrime, Anna Morgan, fissa un raggio di luce che filtra sotto la porta. Pensa all’uomo che le dava soldi: «Rimasi sdraiata a guardarlo e pensai come sarebbe stato ricominciare da capo. Come nuova. E alle mattine, e alle giornate di nebbia, quando può succedere qualsiasi cosa. Ricominciare da capo, tutto da capo…».

La protagonista di Buongiorno, mezzanotte, non ha un nome preciso. Accetta quello che le viene in mente o quello che altri le danno: Marthe, Shasha, per esempio. Si trova a Parigi: anche lei vaga da una camera ammobiliata e l’altra, basta che ci siano «odori rispettabili».  Frequenta locali e ristoranti alla moda. Momenti caduchi: «Io mi sforzo, ma tutti mi riconoscono a prima vista. Corridoi che non conducono mai da nessuna parte, porte che saranno sempre chiuse, lo so». Ammiccante e fine aria parigina, certo. E poi? «Cammini nella notte con le case buie e soverchianti che paiono mostri in agguato». Sa bene che se si hanno soldi, quelle case hanno gradini che rendono le stanze amiche, che aprono le porte, una dopo l’altra. Ma l’ironia è un suo vestito interiore: «Se sei sicuro di te e affondi bene le radici in un terreno adatto, le case lo sanno e c’è sempre qualcuno che ti dà il benvenuto». Ma questa non è la sua realtà quotidiana: «Niente porte ospitali né finestre illuminate, solo un’oscurità minacciosa».

Parigi è bella, chiara, accogliente. Eppure lei si chiede spesso: «Ma che cosa ci faccio qui?». S’intristisce quando sente dire, ai giardini, «ma che ci fa qui quella vecchia?». Pensa, addirittura, che la tristezza sia meglio della gioia. Non c’è da trascurare un fatto: ha partorito. Courage, courage, le aveva detto la levatrice. Una notte interminabile. La trattano teneramente. Addirittura un’amica le fascia l’addome perché non si veda la recente gravidanza e per sconfiggere le smagliature. Intanto lei si dice: «Che cosa sei? Io sono uno strumento, qualcosa da usare». S’intristisce perché non può allattare, «povero bambino». Passano cinque mesi, fasciati sia il neonato sia la madre. Poi la sconfitta della sua maternità. È in ospedale, senza una grinza, senza una smagliatura: «E lui è lì, giace con un biglietto legato al polso, perché è morto. E io lo guardo, senza un segno, senza una smagliatura».

Il finale del romanzo contiene amarezza. Forse sarcasmo. Si trova in un letto ad aspettare che un uomo esca dal bagno. Si chiede che colore abbia la sua vestaglia. Ce l’ha bianca. «Grazie a Dio non dice nulla. Lo guardo dritto negli occhi e per l’ultima volta disprezzo un povero diavolo d’essere umano. Per l’ultima volta… E poi gli getto le braccia attorno alla vita, e lo attiro sul letto, dicendo sì, sì…».

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