Lo scaffale degli editori
L’Avvocato e il Colibrì
Continua il viaggio nei libri finalisti al Premio Strega. Questa volta dedicato ai big dell’editoria che mettono in campo, tra gli altri, il bestsellerista Gianrico Carofiglio, il competitore più gettonato del già laureato Sandro Veronesi
Fuoco amico. È possibile nella corsa per il Premio Strega, adesso che i grandi gruppi sono ulteriormente dilatati, anzi ce n’è uno con paventate potenzialità da “mangiatutti”, quel “Mondazzoli” nato dopo la fusione di Mondadori e Rizzoli, per mezzo secolo nemiche al Ninfeo di Villa Giulia dove si è compiuto l’atto finale dell’alloro letterario più blasonato. Ma anche all’interno di altri gruppi spiccano, fagocitati, marchi prestigiosi, una volta fieramente indipendenti. Allora, dopo aver parlato lo scorso 30 aprile dei romanzi entrati nella contesa sotto l’etichetta dei piccoli-medi editori, andiamo a vedere i “parenti serpenti” che si sfidano per la cinquina, che verrà varata il 5 giugno dai giurati, quest’anno ovviamente da remoto.
Einaudi, la gloriosa casa torinese che è però da tempo nella galassia di Segrate, mette in pista Gianrico Carofiglio con La misura del tempo (288 pagine, 18 euro) e Valeria Parrella con Almarina (136 pagine, 17 euro). La bilancia pende decisamente dalla parte dell’ex magistrato/senatore diventato bestsellerista, il quale non solo ha dalla sua i pronostici dell’ingresso tra i cinque finalisti, ma quelli per la vittoria finale, allorché – il 2 luglio – distanziamento da coronavirus permettendo, potrebbe contendergli la bottiglia di liquore giallo dello sponsor beneventano soltanto il già “laureato” Sandro Veronesi con Il colibrì edito dall’indipendente La Nave di Teseo.
Carofiglio del resto già è stato a un passo dalla vittoria nel 2011 con il rizzoliano Il silenzio dell’onda. Ora ci riprova grazie al suo personaggio di maggior successo, l’avvocato Guido Guerrieri, motore della serie di legal-thriller inaugurata nel 2002. Ma forse proprio la presenza – la sesta – del personaggio inventato da Carofiglio rischia di mettere i bastoni tra le ruote all’ex magistrato barese. Insomma, può non convincere i giurati un romanzo che ha per protagonista un personaggio di cui molto si conosce, molto si è detto. Anche se La misura del tempo – proposto da Sabino Cassese – ha un plot ben congegnato, i dialoghi serrati ai quali Carofiglio ci ha abituati, una acuta definizione psicologica dei comprimari. C’è un giovane da difendere, Jacopo Cardace, accusato di detenzione di stupefacenti e di omicidio. Il processo di primo grado è stato a lui sfavorevole, sicché ora la madre, Lorenza, si rivolge all’avvocato Guerrieri. Il quale, vedendola, la riconosce come la ragazza amata quand’era praticante senza essere convincentemente corrispostori. Le strade divise tanti anni prima, – ecco la misura esistenziale del tempo – ora si intrecciano. Senza troppe sbavature sentimentali, però, mentre Carofiglio concede alle sue figure le abitudini quotidiane – Guerrieri ama musica e film, pugilato e libri, ma ha anche un debole per la buona tavola, specie per “la tiella” barese – alla quale i giallisti ci hanno abituati, da Simenon in poi.
Quanto è innestato nella malinconia solitaria e nella realtà giudiziaria il romanzo di Carofiglio, tanto è rarefatto, quasi simbolico quello di Valeria Parrella. Anche in Almarina due solitudini, quella di Elisabetta, cinquant’anni, vedova, che ogni giorno vede chiudersi dietro di lei le sbarre del carcere giovanile di Nisida, dove insegna matematica ai detenuti; e quella di Almarina, sedicenne rom, per la quale il carcere è il corollario di una vita ai margini, dalla cui violenza ha tentato di fuggire. Le due donne vengono legate da un’affinità priva di interesse, tesa soltanto a individuare un domani di riscatto. Ma Parrella – che ha una scrittura raffinata quanto lucida nel descrivere persone, sentimenti, la piccola isola napoletana e la metropoli del Vesuvio – non addita lieto fine, lascia solo il desiderio di un recupero – improbabile? – dell’innocenza perduta. Soprattutto, tocca un tema cruciale, come sottolinea Nicola Lagioia, che presenta il libro allo Strega: «Quanto siamo disposti a metterci in gioco davanti agli altri? Il dolore ci accomuna, la paura trae costantemente il peggio da noi, il senso del dovere può diventare una scusa per andare sempre in giro con la guardia alta. Fino a quando la vita non ci obbliga a scegliere».
Anche Bompiani – la storica casa che ha pubblicato Moravia e che è entrata quattro anni fa nella galassia Giunti – ha due rivali in pista, Silvia Ballestra con La nuova stagione (276 pagine, 17 euro) e Marta Barone con Città sommersa (304 pagine, 18 euro). Entrambe le storie sono un viaggio nel passato familiare, a confronto con un mondo attuale stravolto. Ma se è la provincia marchigiana lo sfondo di Ballestra – la sua terra d’origine – è Torino quello di Barone.
Campagna, dunque, in La nuova stagione, la fetta di terra che da Arquata del Tronto digrada verso il mare. Due sorelle tornano dopo due matrimoni devastanti, anche economicamente, e si decidono a vendere il terreno coltivato dal padre, ora sminuito dalla madre che se ne lamenta con i paesani. Devono contrattare con acquirenti ambigui e superficiali, Olga e Nadia: sono ex mezzadri arricchiti o emissari di multinazionali della frutta abituate a commercializzare fragole e susine anche d’inverno. A snaturare la terra delle radici è venuto anche il terremoto e il malanno del punteruolo rosso che ha decimato le palme. Le due donne tentennano di fronte alla nuova stagione che può derivare dalle loro scelte, narrate anche con sprazzi di ironia: «Dunque era questo, il diventare definitivamente adulte (…) Disperarsi per una lettera d’esproprio invece che per una lettera di amore finito». Un’opera originale, sottolinea Loredana Lipperini, che l’ha presentata allo Strega, rivolta anche al mondo «surreale di una burocrazia paralizzante». Capace di una «lingua particolarissima, che ingloba il dialetto incastonandolo in una scrittura di divertita e antica bellezza».
«Esordio fulminante» quello di Marta Barone, 33 anni, nata sotto la Mole. Così lo definisce Enrico Deaglio che lo ha proposto ai giurati. In Città sommersa c’è la Torino anni Settanta/Ottanta, rigogliosa e ferita dagli Anni di Piombo. Nel terrorismo è coinvolto Leonardo, il padre dell’io narrante, una donna che vuole ricomporre il puzzle esistenziale del genitore morto di cancro quando lei era ragazza. Lo scuro della fabbrica domina le tessere. Che Marta – autobiograficamente – vuol cominciare a sistemare a partire dalle carte di un processo che inchioda il padre Leonardo, coinvolto e poi assolto. La trentenne va a ritroso nell’esistenza di L.B., come lo evoca burocraticamente, tra articoli di giornale, carte processuali e d’archivio. Fu studente di medicina pugliese che manifestava a Valle Giulia; adepto di Servire il popolo pronto a lasciare gli studi e rapido a distribuire volantini davanti alle fabbriche torinesi; leader politico che sposa la compagna indicata dal partito; l’uomo che fa un anno di carcere per banda armata. Barone riavvolge il nastro della storia recente per se stessa e per quanti non l’hanno vissuta. E tiene viva la memoria per coloro che ci sono stati dentro.