Marta Morazzoni
Leone Piccioni a due anni dalla morte

La marcia in più

Un lettore rigoroso e partecipe, che usava gli strumenti della ragione e dell’emozione. Così lo ricorda Marta Morazzoni, notando come per il critico letterario l’aver amato e ascoltato musica abbia avuto un grande peso nel suo lavoro rendendolo unico

Due anni fa moriva Leone Piccioni. Collaboratore della prima ora di Succedeoggi, è stato un nostro nume tutelare. Lo vogliamo ricordare con la testimonianza di Marta Morazzoni tenuta al convegno “Leone Piccioni – Una vita per la letteratura” che si è svolto all’Archivio Centrale dello Stato a Roma nel maggio 2019. Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione. Marta Morazzoni è la vincitrice dell’edizione di quest’anno del Premio Internazionale Ceppo “Leone Piccioni – Vita e letteratura” che si svolgerà a Pistoia appena l’emergenza covid19 lo consentirà.

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Credo che qui altri abbiano già ampiamente raccontato o racconteranno quel che Leone Piccioni è stato per la cultura italiana, quanto la sua opera di critico abbia allargato orizzonti sia negli anni di impegno alla Rai, sia nel lavoro instancabile con cui ha accompagnato lo sviluppo della vita intellettuale del nostro paese dagli anni 50 fino all’altro ieri. A me resta la memoria personale dell’incontro con una figura di studioso sui generis, segnato da un carattere non comune che ho imparato a conoscere sia nel rapporto personale, sia nei tanti scritti che hanno scandito la sua vita, tanti e assidui, fino alla fine.

È stato un intellettuale che ha vissuto con piacere e partecipazione la creatività altrui, ne ha fatto un suo patrimonio e l’ha speso poi con la passione del coinvolgimento e insieme la lucidità del lettore e del critico accorto. Penso all’analisi dell’opera di Ungaretti, che ha finito per chiamarlo dentro una dimensione affettiva, la conoscenza profonda del mondo poetico di Montale, della lingua di Gadda, la curiosità per quel che tra gli scrittori contemporanei stava succedendo, insieme a uno sguardo acuto sulla classicità.

Ho conosciuto e sperimentato sui miei lavori l’attenzione affettuosa di Leone Piccioni, ma ho soprattutto sentito lo spessore dei suoi interventi sui passaggi più alti della nostra storia letteraria, passaggi su cui sono stata sollecitata a riflettere: anni fa mi mandò in regalo la sua Lettura leopardiana e altri saggi, che Vallecchi aveva pubblicato nel 1952. Davvero un regalo! Senza addentrarmi ora nella qualità degli interventi lì raccolti, che toccano Leopardi, Verga e Ungaretti, ricordo di essermi specialmente fermata su quello conclusivo, dedicato a Cesare Pavese e scritto circa un anno dopo la morte dello scrittore. Una riflessione che ho letto e riletto: Cesare Pavese è per me un autore di riferimento e quindi tanto più mi hanno coinvolto gli argomenti che Leone Piccioni ha messo in campo in questo studio riassuntivo della sua opera e della sua vita, illuminandone nel profondo la fisionomia umana e letteraria.

E però questo lungo lavoro sull’opera di Pavese mi ha detto tanto anche del timbro particolare dello sguardo del critico, puntuale, acuto, penetrante come un bisturi nella pagina di Pavese, verso cui si è espresso senza mai essere enfaticamente elogiativo. Ha colto le luci e le ombre di un percorso di scrittura analizzato nei suoi temi, ma soprattutto ascoltato nel ritmo della pagina, con la sensibilità al suono, al tempo della frase, un elemento su cui mi sembra ci si soffermi non così di frequente, e che ci dice di un autore tanto quanto dicono i temi che tratta. Mi è parso questo il segno della dedizione del lettore rigoroso e capace di partecipazione, quale è stato Leone Piccioni, con in più la dote di una sensibilità estesa al campo della musica, di cui è stato ascoltatore attento e colto. Nel mestiere del critico un orecchio formato alla musica mi sembra una carta alta da giocare, e Leone Piccioni l’ha giocata molto bene.

Così, mentre leggevo di Pavese, approfondivo anche la conoscenza di questo lato della personalità e del metodo del critico, la sua cura del suono e del ‘canto’ dentro la trama; e qui ho immaginato la complicità, la vicinanza di Leone con l’arte del fratello Piero, che deve aver rinforzato l’educazione a cogliere la musicalità nella prosa come nella poesia. Tutti dettagli che hanno completato per me il quadro di un intellettuale che ha vissuto il rapporto con la scrittura usando gli strumenti della ragione e dell’emozione. Quell’orecchio addestrato dell’ascoltatore di musica, dell’intenditore di jazz ha avuto un grande peso nel suo lavoro di critico: io credo che questa versatilità lo abbia portato sulla via di un ascolto totale della pagina scritta, quell’ascolto che, per esempio, gli fa sentire, e ci invita a sentire, nella prosa di Pavese la voce di Scott Fitzgerald. È stata davvero, questa, una marcia in più nel rapporto che da critico ha instaurato con i suoi autori.

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