Il cinema dal divano
La fase 2 di Truman
Abbiamo vissuto come nella bolla di Truman Burbank, la nostra cattività si è trasformata in uno show televisivo dove tutto sembrava “autentico". Adesso è il momento di attraversare il mare. E porre fine al Truman Show
Immaginiamo alcuni prigionieri, reclusi sin dalla nascita nella profondità di una grotta. Alle loro spalle la luce di un grande fuoco proietta ombre di oggetti, piante, animali e persone, ognuna delle quali simula il reale. Ipotizziamo che uno di questi uomini venga liberato: con il lento snebbiarsi della mente, egli capisce che l’effettività alla quale era stato costretto è, al contrario, fittizia e illusoria. Più di duemila anni fa, Platone con il celebre «mito della caverna» – raccontato nel libro settimo della Repubblica – prefigurava l’uomo come incatenato all’esistenza di una realtà apparente. Secondo il filosofo ateniese, gli individui sono passivamente soggiogati da un’esperienza limitata delle cose e l’unica fonte di liberazione è l’alta conoscenza.
Nel 1998 il regista Peter Weir, noto al grande pubblico grazie al successo dell’Attimo fuggente, porta sullo schermo il cosmo del pensiero platonico, attualizzandolo – attraverso l’acre scrittura di Andrew Niccol – con ironia e amara verità. The Truman Show, candidato a tre premi Oscar e disponibile sulla piattaforma Netflix, svela gli ingranaggi oscuri dei reality show, estremizzando una situazione paradossale che forse tanto paradossale non è.
Truman Burbank (Jim Carrey) è nato e cresciuto in una cittadina al centro di un’isola dalla quale non si è mai mosso. È sposato, lavora in una compagnia di assicurazioni e crede di vivere una vita felice, ignorando di essere il protagonista dello spettacolo ideato da Christof (Ed Harris). Il «Truman Show», trasmesso sulle tv di tutto il mondo 24 ore su 24, segue la quotidianità del giovane trentenne sin dai suoi primi passi; l’autore del programma costruisce pezzo dopo pezzo un universo utopico entro cui manipola il suo burattino, condannandolo a una dimensione disincantata e priva di filtri («Non troverete nulla in Truman che non sia veritiero. Non c’è copione, non esistono copie; non sarà sempre Shakespeare ma è autentico, è la sua vita»).
Christof ammira la sua creatura dall’alto degli studi televisivi situati all’interno di una luna artificiale, trasformandosi in un supremo e delirante demiurgo. Il protagonista riuscirà però a disinnescare l’ipocrisia che lo circonda, frantumando le mura di cartone e aprendo gli occhi alla luce giusta. L’uomo vero (Tru-man) si scontrerà con la sua fobia per il mare, anch’essa congegnata dal regista affinché non lasci l’isola, spinto dall’autentico amore per Sylvia (Natascha McElhone) e dal desiderio di rivedere il padre creduto morto (Brian Delate).
The Truman Show è la metafora di uno scenario che impone di osservare la società con una maschera, senza una lente in grado di analizzare in profondo la nostra esistenza. Weir incita il protagonista e il pubblico a interrogare il proprio io, soffocato da una costante e opprimente ricerca di perfezione. Così la lacerazione del velo di Maya ci accompagna verso la verità: dopo ventidue anni la pellicola è più contemporanea che mai, e l’isola di Truman si trasforma nell’impossibilità di agire in un momento di totale sconforto e dolore. Costretti dal presente a camminare dentro un cerchio chiuso, la scoperta di noi stessi sembra essere la nostra unica via di fuga.