Raoul Precht
Castelporziano/9

Il tempo di Gerald

«Più tardi dedicai un po’ di tempo a Gerald, che dei quattro era forse quello che avevo frequentato meno e anche, obiettivamente, il più difficile da frequentare, il meno estroverso o comunicativo, anche se era l’unico di loro a conoscere l’italiano»

Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente si è discusso delle ripercussioni della seconda serata, e molto anche di Roma e Venezia.

* * *

Tornando a quel pomeriggio, se non parlammo di Roma e della controversa relazione fra me e la mia città, di sicuro non ci lasciammo scappare un attento esame della serata precedente, disamina e analisi e approfondita disquisizione nel corso della quale tralasciai ovviamente di citare Estela o Stella e i miei sbandamenti erotici e mi concentrai invece sulla prima parte, quella in cui avevamo occupato tutti insieme lo stesso fazzoletto di spiaggia e il medesimo spicchio di palco, e il risultato di quella ricognizione verbale fu che ricevetti molti complimenti, secondo me anche troppi e superflui, per la tranquillità con cui avevo affrontato, nel porgere le mie traduzioni, il pubblico vociante e indisciplinato, e anche se mi schermii ripetendo timidamente che in fondo non era stato uno sforzo, che mi ero limitato a seguire l’esempio di chi leggeva (ovvero Erich), loro insistettero con metaforiche pacche sulle spalle, sostenendo che se l’autore era potuto arrivare fino in fondo senza essere disturbato o interrotto era anche e soprattutto grazie a me che avevo reso il suo incomprensibile eloquio (incomprensibile ai più, almeno) con parole interessanti e un tono di voce forte e chiaro, in grado di distinguersi sul vocìo indiscriminato e sui rumori di fondo e d’imprimere un senso alle sequenze di suoni che Erich aveva escogitato, fu un po’ ridicolo e al tempo stesso commovente che lo dicessero tutti, anche e soprattutto i tre che non avevano ancora letto in pubblico, davanti a quel pubblico, lo dicevano in modo programmatico, o forse scaramantico e apotropaico, sottolineando come si aspettassero quella sera la stessa prestazione da parte mia, e quindi freddezza, distacco, passione, ma soprattutto quest’ultima, la passione che tutti insieme avremmo dovuto trasmettere agli spettatori, perché anche noi tedeschi sappiamo cos’è, la passione, disse a un certo punto, inaspettatamente, Erich, che nel frattempo ci aveva di nuovo raggiunto con Gerald, e mi strizzò l’occhio come a significare che a frasi del genere bisognava a un tempo credere e non credere, e comunque fingere di crederci, perché l’importante era il risultato finale, e solo assecondando questa finzione lo si sarebbe raggiunto. Se la sera prima avevamo rotto il ghiaccio, aggiunse Johannes sempre scherzando, adesso bisognava continuare sulla stessa strada e traghettare al sicuro anche gli altri tre moschettieri, e benché non sembrassi troppo demoniaco avrei fatto a tutti loro da Caronte, ormai era inevitabile, tanto si sa bene che l’abito non fa necessariamente il monaco, e lui sospettava anzi che la mia freschezza, quella giovinezza che vivevo e inconsapevolmente esibivo, nascondesse ben altro, una determinazione e una ribellione che mi avrebbero assistito, a Dio piacendo, in ben altre battaglie, sicché perfino Gustavo, dopo tante critiche e prese in giro, ricevette indirettamente un plauso, non fosse che per avermi scelto e chiamato ad accompagnarli in quell’avventura, come nella famosa parabola brechtiana del doganiere, secondo la quale i meriti del poeta sono condivisi da colui che lo ha messo in condizione di poetare, o che è stato tanto testardo da esigerne la produzione, mutatis mutandis, quindi, se ero lì parte del merito andava a Gustavo che m’aveva chiamato e che da me aveva preteso quella prestazione, il ragionamento filava, non faceva una grinza, salvo che Gustavo era scomparso subito dopo l’intervista, risucchiato da improcrastinabili impegni non appena il giornalista di Der Spiegel si era allontanato, forse era andato a fargli le poste altrove, fatto sta che nessuno sapeva dove fosse e nessuno gli si sarebbe potuto rivolgere in caso di necessità, per fortuna di necessità non ce ne sono e in ogni caso abbiamo il nostro giovane amico, concluse Volker ammiccando, e tutti scoppiarono in una risata liberatoria, più introversa e riservata quella di Gerald, più aperta e rumorosa in quello di Johannes, perché le loro personalità erano davvero diverse, ma tutti sembravano convenire che di Gustavo non sentivano troppo la mancanza e che, se fosse stato proprio necessario, avrebbero potuto anche farne a meno.

Più tardi dedicai un po’ di tempo a Gerald, che dei quattro era forse quello che avevo frequentato meno e anche, obiettivamente, il più difficile da frequentare, il meno estroverso o comunicativo, anche se era l’unico di loro a conoscere l’italiano, il che gli permetteva fra l’altro di avere e di manifestare qualche dubbio sul modo in cui intendevo rendere una porzione del suo Poema ex Ponto, ispirato all’esiliato per definizione, Ovidio, così ci accaparrammo lo spigolo di uno dei divanetti dell’hotel e ci mettemmo a rivedere il testo insieme, e con un pizzico di vergogna da parte mia Gerald dovette fra l’altro spiegarmi che Ion Luca Caragiale non era un suo caro amico, ma il più noto commediografo rumeno, e se è vero che all’epoca il teatro brillante dell’Ottocento, per di più di area balcanica, non rientrava fra i miei interessi prevalenti, questo non rendeva l’umiliazione meno cocente, così alla fine non ebbi il coraggio di domandargli chi mai fosse invece Flavia, che compariva nella stessa poesia, già nel decifrare la frase in epigrafe di Ovidio avevo avuto le mie buone (e ben dissimulate) difficoltà, non volevo certo offrire il fianco ad altre critiche, non dopo tutti i complimenti che mi erano piovuti addosso poco prima, ma è così, nella vita si passa dalle stelle alle stalle, dall’esaltazione alla più profonda disistima per se stessi, beato chi a tutto questo è immune, io non ci sono mai riuscito, e a Gerald, come a molti altri, sono anzi grato per avermi riportato puntigliosamente con i piedi per terra, anche se sul momento e in certe occasioni posso magari aver detestato la persona o il veicolo del disinganno, ma Gerald no, non lo detestai davvero, del resto sarebbe stato davvero impossibile, disponeva d’una gentilezza d’altri tempi, con il suo sorriso un po’ sardonico, la camicia bianca immacolata e la giacca che indossava malgrado l’afa insistente di quei giorni, l’accento austriaco che lo rendeva curiosamente esotico, qualcuno scrisse poi che sembrava invariabilmente seduto al tavolo di un caffè viennese, ed era vero, manteneva sempre il medesimo aplomb, la stessa incrollabile sicurezza di chi sa che qualunque cosa faccia non cambierà il mondo e che qualunque cosa faccia il mondo non lo cambierà, non potrà staccarlo dal tavolino del suo caffè viennese preferito, e se poi quel che si può fare è solo della letteratura, la regola si rivela più valida che mai, perché la letteratura non sposta il mondo di una virgola, così in quegli undici versi comparivano Roma, Londra, Berlino e il Mar Nero e ciononostante il testo dava un’impressione di precarietà e d’immobilità, come se tutte quelle partenze e quegli arrivi (e gli incontri mancati e le aspettative e le illusioni) si svolgessero unicamente nella testa di chi scriveva, lo scrittore non essendo appunto che una mano collegata a una mente ingombra di date e luoghi.

Ammetto che non comprendevo sempre pienamente cosa volesse dire, quindi lo bersagliai di domande per chiarire i punti che a mio parere restavano oscuri, non so quanto la cosa gli facesse piacere, in alcuni momenti mi sembrò anzi svogliato, e una volta sbuffò che un po’ d’oscurità bisognava preservarla a tutti i costi, per sollecitare l’interpretazione del lettore e non dargli nulla che fosse predigerito, lì per lì non ne capii tutte le implicazioni, ma a posteriori penso proprio che avesse ragione lui, una moderata oscurità è davvero essenziale, anche se lo bisogna stare attenti a ben pilotarla e gestirla, e per le altre sue poesie, in particolare Flower Power, seguii alla lettera le sue indicazioni, non tentai nemmeno di suggerire al lettore o ascoltatore delle possibili interpretazioni, ciascuno ne avrebbe fatto quel che voleva o non ne avrebbe fatto nulla, come disse Gerald scrollando le spalle, la letteratura è un’occasione che si offre, un’occasione che può essere colta o lasciata lì a marcire, quante cose marciscono giorno dopo giorno, e non sarebbe certo la fine del mondo se dovessero farlo pochi versi, anche se per ventura sono i nostri, ci sono costati cari e ci sembrano impareggiabili, lo diceva sorridendo, ma con una piega amara della bocca, anche in questo aveva naturalmente ragione, uno scrittore nel migliore dei casi produce e mette in comune, poi spetta alla comunità dei lettori manifestare interesse o, come avviene più spesso, ignorare sprezzante, a chi scrive dovrebbe bastare di averci provato e poi non pensarci più, dovremmo anzi occuparci d’altro, aggiunse, mantenere un sano dilettantismo e soprattutto non permettere mai alle ambizioni letterarie di avvelenarci la vita, perché questa è fatta anche di tante altre cose, dacci oggi la nostra dose quotidiana di letteratura, insomma, ma per qualche minuto, non di più, inutile esagerare. E quanto alla pretesa oscurità dei miei versi, insisté, pensi solo, caro Precht, alla falsa etimologia di dichten e Dichter, facciamo finta per un attimo, un attimo solo, che poetare discenda davvero da dicht, e quindi denso, fitto, folto, spesso, compatto, e allora mi dica, caro amico, come potrebbe mai la mia poesia non essere tutto questo al tempo stesso, e quindi anche ermetica, impenetrabile, non solo nel senso di volutamente incomprensibile, ma anche nel senso ulteriore che non si lascia penetrare dall’esterno, dall’imponderabile che alimenta le nostre giornate? Inutile dire che non avevo alcuna risposta da dargli, e lui forse non ne cercava, la domanda essendo di quelle retoriche, che non pretendono nemmeno di essere prese sul serio per una replica o uno scambio, fatto sta che l’osservazione sembrò chiudere la nostra discussione, io non seppi ribattere e lui non trovò altro da commentare, né sulle poesie che avevo tradotto né sul mondo, e cerimoniosamente si alzò facendo un mezzo inchino per congedarsi, mentre con un pizzico di malignità pensavo che mantenere quell’aria compassata e imperturbabile doveva pur costargli qualcosa in termini di tempo e preparativi, probabilmente prima dell’intensa serata che ci aspettava al varco sarebbe tornato in stanza a rassettarsi e profumarsi, come se dovesse andare a un ricevimento in casa dell’ambasciatore austriaco.

Rimasto solo, me ne andai a fare l’ormai consueto giro in spiaggia, nei pressi dell’hotel, pensando a quello che sarebbe potuto succedere più tardi, anche se sapevo benissimo che l’andamento della serata era del tutto imprevedibile, la composizione e gli umori del pubblico essendo in definitiva così cangianti da sfidare ogni profezia, e mentre camminavo sulla sabbia calda mi resi conto del fatto innegabile che nella mia mente circolava e ricorreva un pensiero obliquo e sotterraneo, con cui dovevo fare i conti ma che mi metteva a disagio confessare perfino a me stesso, tanto era ridicolo, magari con un po’ di fortuna sarebbe stato possibile, immaginavo, ritrovare nella folla, fra una duna e l’altra, la mia Estela, non che ci tenessi particolarmente o che ne provassi un autentico desiderio, però quello che era accaduto non era disgiunto, malgrado tutto, da un sentimento ancora embrionale di tenerezza, in qualche modo mi stavo affezionando, forse non esattamente a lei, piuttosto al pensiero che sarebbe potuto succedere un’altra volta, o anche no, in fondo, e non sarebbe cambiato niente, lo sapevo, non mi aspettavo nulla, soprattutto non volevo rischiare una delusione, e se più tardi e sull’altra spiaggia, in mezzo alle dune, non l’avessi incontrata, come era molto molto probabile che accadesse, non avrei dovuto sentirmi menomato o considerare l’intera esperienza poco riuscita o addirittura fallimentare. Proseguii le mie riflessioni cercando di calcolare quante probabilità avessero due persone di incontrarsi due volte di seguito, in due serate successive, nascosti com’eravamo da una moltitudine, da almeno altre cinquemila teste, forse molte di più, quel pomeriggio la matematica non mi aiutava però a fare chiarezza nella mia testa, nei calcoli diversamente dal solito arrancavo, del resto non ero neanche sicuro che l’avrei riconosciuta, tutto si era svolto in una penombra rischiarata sì e no da qualche fuoco, e chissà quante ragazze avevano la stessa silhouette e la stessa andatura, neanche la voce ricordavo più con esattezza, nell’oscurità e con il contrappunto del rullio delle onde m’era sembrata calda e vibrante, ma come avrei potuto distinguerla da altre voci simili, mi domandai, per non parlare dei seni appena accennati o di altri dettagli su cui la notte prima, impegnato com’ero a possederli, non mi ero troppo soffermato, la contraddizione e la condanna del maschio, ottuso cacciatore, essendo quella di possedere senza conoscere e di perdere subito dopo la conquista qualcosa che non si è avuto tempo e modo d’apprezzare davvero, in realtà non la conoscevo e non sapevo niente di lei, niente di niente, perfino il nome poteva essere una finzione, una storiella che raccontava a chi era tanto ingenuo da crederle, e che io fossi il re degli ingenui non ci voleva molto a capirlo, forse avrei dovuto mettermi a cercarla di crocchio in crocchio, di fuocherello in fuocherello, chiedendo lumi a destra e a manca, conosce questa ragazza, ha già visto questa ragazza, ma quale ragazza? non so, una fatta non so bene come, con una voce che non so bene a cosa assomigli, e un nome che magari si è inventata solo per me, per prendermi in giro. Su tutto questo riflettevo mentre mi facevo strada costeggiando le onde, badando a non farmene lambire, e al tempo stesso cercavo d’immaginare il futuro, quello immediato, con la pubblicazione nella rivista caldeggiata da Gustavo delle poesie e di un mio intervento critico sul festival, e quello a lungo termine, gli studi che avrei fatto all’università, per esempio, ma anche un domani che mi sembrava molto remoto, quello in cui avrei forse trovato un lavoro, un lavoro vero, non i lavoretti, articoli traduzioni e ripetizioni, che già svolgevo da qualche anno per sopperire alle mie piccole spese senza dover più chiedere una lira a casa, qualcosa di serio, d’impegnativo, qualcosa che avrebbe finalmente delimitato e definito il mio posto nella società, ammesso che in una qualche piega spazio-temporale del mondo, quello degli adulti come Gustavo, un posto per me ci fosse. Niente di eccezionale, lo so, banalità giustificabili forse a diciott’anni, ma che in un libro di narrativa non contribuiscono particolarmente all’identificazione del lettore con il protagonista, e se posso essere sincero neanche a quella fra protagonista e scrittore, se penso anzi a quanto sono lontano dal me stesso di quegli anni quasi mi verrebbe da domandare se queste due immagini confluiscano davvero a creare la stessa persona, ma domandarlo a chi, se io per primo non sono capace di dare una risposta sensata, del resto le varie identità che assumiamo, cangianti e inaffidabili, scorrono all’apparenza come acqua fresca sui nostri volti, ma depositano poi le loro scorie nelle rughe e pieghe del corpo intero mentre affrontiamo un periplo di cui ignoriamo la fine, un gioco di cui non conosciamo le regole, fino a diventare ombre e muoverci circospetti e guardinghi, non a caso in un futuro molto lontano avrei dedicato tutto un romanzo all’autoscopia, al disturbo di vedere all’improvviso un se stesso che non è, il doppio che sempre ci accompagna, ma certo allora non potevo saperlo, neanche immaginarlo lontanamente, e se anche l’avessi immaginato non avrei capito di quali misteriosi anelli sarebbe stata composta la catena che alla descrizione di questo processo di autosuggestione, di questo fenomenale e drammatico disturbo, avrebbe portato. Le scarpe in mano, i jeans arrotolati come due pomeriggi prima per evitare che un’onda sbarazzina e dispettosa li bagnasse e che la sabbia mista all’acqua si tramutasse in una spiacevole fanghiglia, mi aggiravo intanto per la spiaggia, allontanandomi sempre di più dall’albergo e adocchiando bikini e qualche raro seno nudo sui pochi asciugamani sparsi senza un ordine particolare, era l’ora in cui la gente cominciava a defluire, ad andarsene, magari qualcuno si sarebbe ritrovato più tardi con altre compagnie intorno al palco del nostro destino, chissà, in ogni caso la folla non si sente mai istigata agli eccessi nel pomeriggio, tende anzi a moderarli, la bella e brutta gioventù che occupa la spiaggia fa caso persino ai bambini, i bambini che sempre ci osservano, era ovvio che per scatenarsi tutti avrebbero aspettato con ansia il lento calare della sera, quella che io avvertivo nell’aria intorno all’albergo era una tensione legata all’attesa, a uno scioglimento che si faceva attendere ma che non avrebbe mancato di stupire, così decisi di sospendere la mia vuota ricognizione e tornare indietro, a scoprire quale dei miei protetti potesse aver bisogno di me, non fosse che per scambiare quattro parole o spettegolare un po’ dei vezzi degli altri letterati, nient’altro, strana genia, i letterati, a volte all’avanguardia, così estrosi, bizzarri, altre volte invece prevedibili e terribilmente banali nei loro sentimenti e risentimenti, e i miei non facevano certo eccezione.

Tornando indietro, e quand’ero ormai prossimo allo scalcinato albergo, fra tante facce che non conoscevo e che mi passavano accanto senza che le notassi, come ci succede del resto per le decine di migliaia di persone che in vita nostra incontriamo e tranquillamente ignoriamo, m’imbattei in un volto che mi parve subito familiare, non foss’altro che per un motivo elementare, da qualche giorno figurava infatti su tutti i giornali, un onore non abituale per un assessore, sia pure di un comune mastodontico come quello di Roma, quindi non potevo sbagliarmi, era proprio lui, l’assessore alla cultura, e quel pomeriggio aveva scelto, forse per non essere riconosciuto, o al contrario, chissà, proprio perché tutti lo riconoscessero subito, di travestirsi da marinaio, così abbigliato, almeno, si era presentato all’albergo, e non era poi tanto peregrino, pensai, che il mecenate di una simile impresa, da compiersi su una spiaggia, si proponesse sotto le sembianze di un marinaio o di un gondoliere, a questo, almeno, mi faceva pensare il modo in cui era vestito, rendeva simpatico e sbarazzino il volto altrimenti cinico del potere, di coloro che trovavano e mettevano i soldi, potendo quindi fare e disfare, niente a che vedere con l’altra immagine, quella dei muscoli e dell’arroganza bruta, che quella sera stessa avrebbero invece esibito i giovani del partito, reclutati dopo le prime due serate di confusione come servizio d’ordine, quando avrebbero circondato il palco per prevenire ed evitare gli imprevisti già vissuti in precedenza, lui, l’assessore, al riparo dal suo berretto da marinaio sembrava invece sereno, è vero anche che doveva mostrarsi sorridente a taccuini e telecamere, i politici si riconoscono appunto per la facilità e la disinvoltura con cui distribuiscono i sorrisi e grazie alle quali (facilità e soprattutto disinvoltura) elidono ed eludono i conflitti, ma quel festival era indubbiamente anche una sua creatura e soprattutto una sua scommessa, aveva accettato di finanziarlo e di metterci per così dire la faccia, oltre all’etichetta e ai simboli del partito, rischiando critiche di ogni tipo, ora non poteva certo abbandonarlo alla sua sorte, che lo volesse o no doveva partecipare attivamente, farsi vedere, sentire, intervistare, mettere il suo sorriso un po’ sbieco a suggello dell’evento sponsorizzato. Lo vidi entrare in albergo e dirigersi verso un gruppo di persone, molte delle quali armate di microfono o cinepresa, avrei saputo solo in seguito che un regista stava facendo delle riprese per ricavarne in seguito un lungo documentario per la televisione, forse anche l’assessore doveva essere intervistato o almeno filmato e inserito poi nel flusso narrativo stabilito in anticipo e a tavolino, la stessa cosa sarebbe accaduta a molti dei poeti, avrebbero lasciato di sé un’immagine a futura memoria, bloccati e congelati nell’età che avevano allora, nelle idee che difendevano, nel linguaggio che queste ultime accompagnava e che già poco tempo dopo sarebbe apparso a tutti così obsoleto nella sua rivoluzionaria dabbenaggine, ma tant’è, era la fine degli anni Settanta, la cosiddetta controcultura imponeva certi schemi e chi più chi meno tutti vi si erano piegati, perfino chi la esecrava non riusciva a tirarsene completamente fuori, dei bacilli comparivano come schegge impazzite in ogni scelta lessicale, in ogni giro di frase, proprio come avviene oggi con l’esecrabile politically correct, del resto nessuno è completamente indenne dal tempo in cui vive, tempo che tutti ci condiziona, fino a raggiungere, colpire e inquinare perfino gli schemi mentali che vorremmo originali e personali, ma ben poco rimane di personale e d’irrinunciabile, a meno che non si faccia la scelta estrema, quella di mollare gli ormeggi, per ritornare a metafore marinare, e staccarsi completamente dal proprio spazio e dal proprio tempo, ignoro come si faccia, un modo ci deve pur essere ma per me resta misterioso, impenetrabile, di difficile accesso, anche se poi per converso non mi sembrava e non mi sembra neanche oggi di aderire troppo al mio tempo, al contrario, spesso e volentieri cerco di rimanergli estraneo, di mettermi in salvo dal profluvio di volgarità con cui la fine del Novecento ci ha allietati, non che il nuovo secolo e millennio, avrei scoperto dopo, abbia però molto di meglio da offrirci, anzi, e così il cerchio inesorabilmente si chiude.

Intanto continuavo ad avanzare, un po’ staccato dall’assessore e dal suo codazzo, quando mi vide Johannes e tutto allegro mi venne incontro, ho una grande notizia, disse, è tornata l’acqua calda, almeno nella mia ala dell’albergo, forse dopotutto non è quella più famigerata che era stata chiusa per la disinfestazione, anche se questo nessuno sembrava saperlo, e io meno di chiunque altro, quindi non potevo aiutarlo in alcun modo nella sua nuova e appassionante indagine. Johannes scrollò le spalle, era tanto per parlare, precisò, mica per arrivare a una conclusione, è da un sacco di tempo che ho perso la speranza di arrivare nella vita a una qualunque conclusione, sorrise, del resto l’indomani sarebbero partiti tutti, e dunque a chi poteva importare, ormai si trattava di sopravvivere ancora per una sera e una notte, e magari la serata sulla spiaggia sarebbe stata più difficile da superare che la notte in albergo, viste le premesse, adesso rideva proprio, Johannes, sotto la chioma scomposta, di nuovo allegro, mentre l’inseparabile cappello era rimasto chissà dove, abbandonato su un bracciolo o su un tavolino, quando mi aveva visto entrare m’era venuto incontro come per un riflesso pavloviano, doveva ancora raccontarmi un frammento della sua vita, disse serio, la permanenza come writer-in-residence all’Oberlin College, nella parte settentrionale dell’Ohio, proprio quell’anno, raccontarmi soprattutto dell’interesse che aveva riscontrato fra quegli studenti per la sua vita avventurosa e la sua scrittura, che non lo era certo di meno, avventurosa, intendo, nei suoi intricati procedimenti, e di come a sua volta avesse cercato di mettersi in ascolto di quelle esperienze così diverse, la vita di uno studente dell’Ohio, figurarsi, proprio come tre anni prima, in occasione di un precedente viaggio negli Stati Uniti, compiuto con alcuni amici per rendersi conto di persona e farsi un’immagine meno abborracciata del paese che ritenevano responsabile della grave situazione nel Sud-Est asiatico e in America latina, dell’Impero del male, insomma, gli era riuscito così difficile, confessò, prendersela con la gente comune, mantenere in essere e alimentare nella sua mente il collegamento, che pure in qualche modo doveva esistere, fra le placide, simpatiche, generose esistenze con cui veniva in contatto e le menti distorte e bacate che quel paese governavano, organizzando putsch e omicidi in tutti gli angoli del mondo. Gli domandai se anche Natascha, la sua compagna, quella di cui parlava nella poesia dedicata a Venezia, era stata della partita, se l’aveva accompagnato in quel viaggio di scavo e ricognizione, tre anni prima no, mi disse, invece in Ohio era riuscito a portarsela dietro, e lei, con i suoi quadri sognanti e trasognati, aveva avuto un successo persino maggiore del suo, poco c’era mancato che le assegnassero una cattedra d’arte figurativa honoris causa, e tutti volevano conoscerli, invitarli, ascoltarli, le storie riguardanti la loro coppia e le loro vicissitudini avevano fatto il giro di tutto il college, ma non era troppo strano, quindici anni di vita, di lotte e di creazione artistica trascorsi insieme non passano inosservati neanche a un estraneo come potevano esserlo quegli studenti universitari e i loro professori, per un intero semestre si erano anzi sentiti metaforicamente al centro dei riflettori della comunità accademica e avevano dovuto combattere, insieme, per cavare un senso dall’oscurità che tutto sbiadisce e rende indistinto, per dare a quei giovani curiosi delle risposte di cui non disponevano, a distanza di tanti anni quel racconto si carica di tonalità cromatiche diverse, anche perché oggi so che Natascha sarebbe rimasta accanto a Johannes anche nei lunghi anni in cui gli editori – dopo il fulminante e tutto sommato inutile esordio con Wagenbach – non avrebbero più voluto saperne nulla, di lui, e sarebbe stato costretto a stamparsi le sue opere in proprio, com’è spesso destino dei poeti, fino a quel dicembre del 2006 che avrebbe sancito la fine di tutto, Herzversagen, ovvero pudicamente guasto del cuore, ma Versagen è anche diniego, insuccesso o fallimento, è il cuore che si rifiuta, che decide da un momento all’altro di fermare la giostra, immagino sia stata lei a fare in modo che Johannes fosse poi sepolto proprio dietro la tomba di E.T.A. Hoffmann al cimitero del Kreuzberg, a Berlino, e che ci sia sempre lei dietro il progetto in cui è coinvolto il Museo della navigazione di Bremerhaven di restaurare la barca dal legno ormai marcio che Johannes aveva trasformato in un luogo di letture pubbliche e conferenze, è Natascha insomma che ne perpetua il raggio d’azione, ma allora si trattava solo di una coppia inossidabile, cosa che a un diciottenne non poteva dire granché, e sebbene Johannes non facesse che parlare di lei, Natascha io non la conobbi, non fui in grado di farmene un’immagine.

Così come, a ripensarci col solito, insopportabile senno del poi, non fui in grado di fare tante altre cose, in quei giorni, per esempio di capire più e meglio quello che succedeva intorno a me, di conoscere più e meglio Johannes e anche gli altri, di incuriosirmi magari addirittura per coloro di cui non parlavo la lingua, che so, i poeti greci, spagnoli o portoghesi, per esempio, che invece ignorai quasi con un senso di dispetto, come se la loro presenza togliesse importanza alla mia, e soprattutto non fui capace di scorgere i nessi devastanti fra le cose, le storie, le persone, quella proprietà tanto rara e impalpabile che va sotto il nome d’intuizione essendomi pressoché estranea, vedevo, ordinavo, catalogavo, mandavo a mente a futura memoria, ma non intuivo nulla, e se quell’esperienza l’avessi fatta anche solo cinque anni dopo sono certo che ne avrei tratto ben altri insegnamenti, anche nei confronti della poesia, sarei arrivato con maggiore determinazione a considerarla, almeno per quel che mi riguarda, uno strumento straordinariamente duttile e flessibile, ma da utilizzare con cautela, per sperimentare nuovi linguaggi nel mio atelier personale, non certo come veicolo di propaganda per ideali e posizioni politiche che durano lo spazio di un mattino, questo mi avrebbe risparmiato la lettura e lo studio di tante brutture, di tanti poemi e romanzi a tesi, non solo, e questo è più sottile, mi sarei forse anche rassegnato molto tempo prima al fatto di non capirla affatto, la poesia, quella degli altri, intendo, e di trovare incomprensibile o abominevole ed esecrare quasi tutto quello che avrei letto in versi, una cosa che mi faceva soffrire, a quell’epoca, io dovevo assolutamente capire tutto e comprendendo fino in fondo tutto apprezzare, in altre parole nulla doveva rimanere al di fuori della mia portata ermeneutica, le griglie interpretative essendo fatte per applicarsi a qualunque testo, ah, i ricatti del testo e delle sue malefiche griglie, di nulla potevo dire che fosse brutto o malriuscito dal momento in cui mi ritrovavo davanti le dubbie qualità di un testo compiuto, solo molto più tardi avrei imparato che, il tempo essendo maledettamente tiranno e la morte sempre più  vicina, sia che la si voglia prendere in considerazione sia che si preferisca invece ignorarla, leggere significa anche scegliere ed eliminare, accettare e confutare, ma soprattutto scegliere, evitare di perdersi nel mare magnum e ammettere anche, a volte, di non capire, o di trovare orribili gli scritti dei contemporanei, davvero furchtbar, come diceva Gottfried Benn confessando in una lettera questa sua depravazione che sono così lieto di condividere.

In qualche modo anche quel torrido pomeriggio declinò senza che nessuno lo rimpiangesse, fu sostituito da una sera candida e profumata, benedetta da una lieve brezza, e tutti noi raggiungemmo la spiaggia di Castelporziano e il palco che ci attendeva al varco come una singolare, traballante promessa, mentre la gente arrivava a ondate discontinue e variabili, ma continuava ad affluire, senza dubbio molta più gente della sera precedente, che fosse effetto delle polemiche sui giornali o della minima eco avuta in televisione, fatto sta che le presenze si erano improvvisamente moltiplicate, tanto che si faceva fatica ad aprirsi un varco e ad avanzare verso le postazioni che in qualche modo, nella disorganizzazione generale, ci erano state assegnate. Come la sera prima, avevo in mano una cartellina con le poesie che avrei dovuto leggere, mentre Gerald, Volker e Johannes erano debitamente armati dei loro libri, libri che poi, con dediche di diverso tenore, mi avrebbero lasciato in dono a mo’ di ricordo di quei giorni e forse anche come una specie di memento mori, quasi a dire, abbandonandoseli dietro, che il libro è qualcosa di morto e di superfluo se non trova il suo lettore, e che solo regalandolo a un lettore ideale (perché interessato, affamato e voglioso di leggerlo, com’ero indubbiamente a quell’età) possiamo perpetuarne l’esistenza, al di là di quella del tutto effimera e tutto sommato inutile che ha già avuto presso chi l’ha scritto, là dove effimera non vuol certo dire che non sia stata magari anche di lunga o lunghissima durata, soprattutto se, come spesso accade, ahinoi, è rimasto per periodi indefiniti nel proverbiale cassetto. Con qualche difficoltà alla fine riuscimmo a installarci, passando sotto un grande cartello rosso con una scritta nera e gialla, proprio nei pressi del potente impianto d’amplificazione, con qualche probabile conseguenza per i timpani, nella zona prevista per gli attori e le comparse della lunga serata, e cominciò l’attesa, attesa che lo spettacolo avesse inizio, che la gente se ne accorgesse e si potesse dunque rimediare un minimo di silenzio e di raccoglimento, che gli organizzatori ci svelassero quale idea si erano fatti dell’andamento di quella terza serata e a quale scaletta ci saremmo dovuti attenere, tutto questo non essendo che il necessario preludio all’ultima parte dell’evento.

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