Società e covid-19: le polemiche su Agamben
Il decimo passo
Le reazioni anche violente alla tesi espressa in un articolo dal filosofo denunciano strumentalizzazioni, sprezzo dello studio, intolleranza verso chi non è allineato col pensiero dominante. Ma le idee profonde sono destinate a essere comprese nel tempo
Pensando allo studio in tempi di quarantena, mi torna alla mente la voce del poeta Caproni, riascoltata in un filmato di Gabriella Sica: il poeta è come un minatore, il quale dalla superficie, cioè dall’autobiografia, scava finché trova un fondo nel proprio io che è comune a tutti gli uomini e così scopre gli altri in sé stesso. Mi piace pensare allo studio come a un modo di essere poetico, che non è solo degli studiosi, ma di chiunque presti la sua voce a questo scavo. Mi si dirà che in tempi di emergenza non ci si può concedere il lusso dello studio. Eppure io credo che chi abbia assunto questa forma di vita mai debba dismetterla, soprattutto nei momenti di emergenza.
Da qualche mese assistiamo a un interessante dibattito intorno alla situazione politica e sociale messa in atto dalla pandemia. Da umanista, vorrei provare a comunicare il senso di spaesamento provato di fronte al modo in cui la polemica culturale si è in alcuni momenti inasprita violentemente contro il filosofo Giorgio Agamben che allo studio, così come prima ho cercato di descriverlo, ha dedicato tutta la sua vita. In questi mesi, in estrema sintesi, il filosofo ha espresso la preoccupazione non tanto sullo stato presente della pandemia, quanto sull’eredità che lascerà, dato che essa ha fatto emergere delle reazioni da parte degli uomini che non potranno certo essere facilmente cancellate. L’idea di una massa passiva e rarefatta rispetto ai divieti imposti ha spinto Agamben a riflettere su questa emergenza come laboratorio di un futuro scenario politico basato sul distanziamento sociale. La scissione moderna dell’unità della nostra esperienza vitale, da una parte in un’entità biologica e dall’altra in una dimensione culturale e affettiva, ci spingerebbe ad accettare come qualcosa di necessario l’imposizione dall’alto di limitazioni della libertà, con l’unico scopo di preservare la pura sfera biologica.
Che cosa sta emergendo, dal punto di vista culturale, dall’attuale polemica contro Agamben? Vorrei riflettere sui modi in cui questa polemica si è manifestata. Partirei da quello meno interessante, ovvero dalle offese di essere un vecchio delirante, accusa proveniente da vari pulpiti digitali, che appartiene a un livello infimo della discussione, eppure significativo perché rivela la violenza di chi attacca senza avere argomentazioni, pratica molto comune non solo sui social, ma su tutti i mezzi di comunicazione di massa, intrinsecamente autoritari. E di tale attacco mi colpiva anche la coincidenza con la difesa degli anziani che la retorica comune ha imposto rispetto al virus: gli anziani vanno protetti dalla morte, ma vanno invitati al silenzio se sono dei filosofi ritenuti ormai al tramonto. A questo ordine infimo della discussione appartiene anche l’invito alla casa editrice Quodlibet, che accoglie sul suo sito una rubrica di Agamben, a non lasciargli più spazio di parola, insomma a censurare il filosofo che in qualche modo ne ha ispirato il progetto culturale.
Lasciando tali abissi, è degno di attenzione un altro fenomeno a cui i brevi articoli di Agamben sono andati incontro, soprattutto il primo di questi, uscito sul quotidiano Il Manifesto il 26 febbraio 2020. La forma breve degli stessi li ha fatti assimilare ad articoli di opinione e come tali sono stati trattati da chi cercava di confrontare la propria opinione con la presunta opinione dell’autore. Agamben è sempre stato lontano dai mezzi di comunicazione di massa e si è da sempre affidato alla scrittura e alle sue non frequenti e non regolari presenze nei luoghi della cultura. Che in un momento molto particolare egli sentisse il bisogno di sviluppare un pensiero, anche nella forma necessariamente breve di un articolo, era non solo del tutto auspicabile, ma anzi quasi un dovere. Evidentemente, però, chi ha fatto polemiche sterili riducendo i suoi scritti a opinione sullo stato attuale della situazione, non sapeva o fingeva di non sapere che quelle brevi riflessioni rimandavano a ben altri scritti che si aveva il dovere di conoscere approfonditamente, prima di polemizzare, per evitare di fare spettacolo della propria insipienza. Di tali altri scritti richiamavano una terminologia per interrogare una situazione presente, che può essere compresa solo se si possiedono dei metodi di studio consolidati e delle prospettive. L’esperienza dello studio insegna appunto a guardare il presente in una prospettiva satura di tempo, cioè offre uno sguardo complesso sulla realtà. Mi si dirà, con Ariosto, «chi mette il piè sull’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale». Per cui, fuor di metafora, Agamben avrebbe dovuto ben sapere la trappola nella quale avrebbe potuto rimanere invischiato scrivendo degli articoli di emergenza, a caldo. E proprio perciò continuo a ritenere che sia stato un bene che lui abbia messo il piede sulla (non) amorosa pania, anche per le polemiche che ne sono derivate, dato che ognuno di noi, scrivendo, fa emergere quanto sa e quanto non sa.
Non si è persa l’occasione per mettere in discussione un intero impianto filosofico, accusato curiosamente di astrattezza, intendendo con questo termine ciò che della complessità dello stesso non si riesce a cogliere. Non si tratta di difendere Agamben, che non ha bisogno di alcuna difesa, ma di capire che lo studio e l’opinione in alcune persone di cultura non sono più distinti. Nella polemica si è scorta la totale messa in ombra dell’importanza dello studio, vilmente svalutato, dato che anche quando si è trattato di mettere a confronto delle idee, lo si è fatto spesso in chiave pregiudiziale, con l’obiettivo di strumentalizzare la polemica, di assimilare il pensiero complesso alla miseria del cosiddetto “complottismo”, al fine di ottenere visibilità legando il proprio nome a quello di un nome molto noto.
L’altra preoccupazione emersa è stata quella di classificare il pensiero del filosofo in categorie ideologiche riconoscibili: estrema sinistra, conservatore, reazionario, liberale e via dicendo. Ognuno è libero di interpretare un pensiero partendo dalle proprie categorie ideologiche, ma è evidente il fine dell’operazione di inquadrare una riflessione che da sempre è, per dirla con Simone Weil (nella foto), «radicata nel suo sradicamento». Il fine è quello di neutralizzare, semplificare e rendere meno radicale un pensiero ricco, non rasserenante rispetto alla lettura del presente, e per nulla inquadrabile nelle categorie ideologiche usate per la modernità. In generale, in alcuni casi in cui a confronto sembravano esserci le idee, si criticavano alcuni concetti senza che fosse stata compresa la stratificazione di significati assunta da certi termini nella filosofia agambeniana (pensiamo ad esempio al rapporto fra nuda vita e forma di vita, per non parlare di tutte le riflessioni che non rientrano nel progetto Homo sacer – edito da Quodlibet, 1392 pagine, 70 euro, ndr – e che con questo intrattengono un rapporto strettissimo), nonostante ci siano molti studi che hanno anche contribuito a spiegarli.
Della polemica, quindi, il problema non sono le accuse ad Agamben, nemmeno quelle più volgari, perché credo che i libri di un autore stiano lì come torre ferma a difenderlo, ma la sottovalutazione dell’idea dello studio che ne emerge, non solo presso alcuni giornalisti o presso alcune persone di cultura, ma anche presso alcune persone di studio. In un momento nel quale è in atto una caccia all’untore, a questa caccia abbiamo visto aggiungersi, come spesso è avvenuto in questi frangenti storici, anche quella all’intellettuale, assimilato, da parte di un giornalista, con insinuante disinvoltura, a vani personaggi dello spettacolo, rendendo chiara l’idea che non è importante la cultura di chi parla, ma quello che sembra dire. Che questa mescolanza di alto e basso allo scopo di uniformare tutto e di far perdere valore alla cultura avvenga sulla stampa del potere non desta nessuna sorpresa. Diverso è invece quando qualcosa di simile avviene in luoghi in cui dovrebbe diffondersi la cultura umanistica. Appiattire ad esempio la riflessione politica di Agamben immediatamente sui programmi politici in atto è grave da un punto di vista culturale, dato che fa perdere di vista che la riflessione filosofica si articola su vari livelli della conoscenza che non possono essere sovrapposti e confusi, se non a rischio di strumentalizzazioni. Come per Weil, anche per Agamben, la risposta all’interrogativo leninista del “Che fare?” è stata in questi anni la seguente: «fare l’inventario della civiltà che ci schiaccia».
La mia idea di umanesimo è quella per cui, se non ci si sente a proprio agio in un sistema filosofico, è sempre possibile rivolgersi ad altri sistemi ai quali ci sentiamo più affini o, se si è in grado di costruirne altri, contrari e sullo stesso livello di quelli criticati, è bene che lo si faccia e la comunità se ne gioverà. Lo stesso Agamben ha richiamato la nostra attenzione in più occasioni sul legame intrinseco fra filosofia e amicizia (nel senso greco di philia) e sull’amicizia come convivenza dello stesso sentimento dell’esistenza. Ci si rivolga, quindi, alla lettura dei nostri filosofi “amici” invece di inquadrare o svilire quelli con i quali non siamo a nostro agio e che quindi, in alcuni casi, proprio perché non ci sono congeniali, non comprendiamo in profondità. Come sostiene sempre Weil, le idee non sono fatte per lottare, ma per convivere, e ogni civiltà, come ogni uomo, ha a sua disposizione la totalità delle nozioni morali e le sceglie. Quando a vincere è stata un’idea sulle altre è perché le spade di coloro che l’hanno sostenuta sono state vittoriose. L’impero della forza si estende ovunque e l’idea che i valori spirituali non possano essere distrutti dalla forza è per lei un luogo comune che uccide una seconda volta ciò che già è stato ucciso.
Non si tratta di essere pro o contro Agamben, come nel famoso dibattito Pro o contro la bomba atomica. Gli umanisti dovrebbero riscoprire il grande privilegio dell’amicizia con gli autori che si leggono, al di là dei secoli e dei confini, in questo nostro tempo di continue e sboccate polemiche. Se ciò non avviene, significa che abbiamo perso davvero su tutti i fronti il nostro tentativo di resistenza nei confronti della cangiante macchina del potere, che fa degli umanisti una formica da schiacciare. Questa occasione di attacco ai danni di una delle menti più lucide della contemporaneità, ma fuori da ogni luogo del potere, ha di certo confermato l’idea per cui quando non si parla a partire da una posizione di autorità politica non si hanno già assicurati i propri ascoltatori. Ed è quest’ultima una gran fortuna perché si può affermare la propria verità lasciando che essa venga trasversalmente e inaspettatamente raccolta, come avverrà forse anche in questa occasione.
Della polemica di questi mesi contro Agamben probabilmente non rimarrà nulla, se non l’evidenza del suo non essere allineato con un pensiero diffuso e dominante e ci auguriamo, invece, che in un prossimo futuro si realizzi almeno ciò che Leopardi nel Parini ovvero della gloria ritiene avvenga alle idee profonde che nel proprio tempo appaiono stravaganti elucubrazioni. Leopardi scrive che quando qualcuno allarga lo spazio delle conoscenze dei suoi contemporanei, procedendo di “dieci passi” più avanti, gli altri uomini non solo non lo seguono, ma addirittura, per tacere del peggio, lo deridono. Quando tanti “ingegni mediocri”, sfruttando in parte le acquisizioni di chi hanno deriso, fanno “un passo”, per la poca novità delle idee, in poco tempo ottengono ampio seguito. Così, a poco a poco, gli uomini arrivano a compiere, uno dopo l’altro, “il decimo passo”.