Ai tempi del coronavirus
Condominio globale
Non è andato tutto bene: il virus ha scavato un nuovo fossato tra ricchi e poveri del mondo. In Africa come in Amazzonia come a New York la pandemia è una catastrofe senza soluzione soprattutto per chi non ha nulla
Guardate – guardiamo – questa immagine. Il bulldozer ha scavato una lunga trincea, le bare sono allineate, è il momento della preghiera e dei fiori, delle croci di legno senza nome. Siamo da qualche parte alle porte dell’Amazzonia brasiliana, e questa foto è stata scattata da Sebastiao Salgado per accompagnare il suo appello contro lo sterminio e il genocidio per virus delle tribù indigene della selva. “Solo dalle grandi catastrofi sorgono grandi movimenti di solidarietà e preoccupazione per il futuro dell’umanità”, dichiara il fotografo in una intervista al quotidiano O Globo.
È vero: in queste terre il Covid 19 è la versione contemporanea delle tragiche piaghe dei secoli passati, quando il contatto con i bianchi fu sufficiente ad annientare una popolazione con difese immunitarie deboli. Oggi come allora il virus avanza, e l’Amazzonia brasiliana è già una delle regioni più critiche del mondo per la pandemia. Quasi ovunque nella foresta i capi tribù hanno deciso di interrompere i contatti con il mondo esterno, e dove è stato possibile gli indios si sono spostati verso l’interno delle loro aeree protette.
Dove potranno invece nascondersi gli oltre 13 milioni di brasiliani che vivono nelle favelas delle grandi metropoli, nei formicai umani dove si ammassano i cittadini senza lavoro, senza diritti, senza legge, senza giustizia né identità? Per loro, come per i confratelli sconosciuti delle townships africane e delle fetide periferie di Mumbay e Nuova Dehli, il Coronavirus è simile una punizione divina, introdotta negli ambienti urbani dalle èlite bianche abituate a viaggiare e resa poi feroce dalle condizioni ambientali di degrado, miseria e promiscuità.
C’è un significato in tutto questo, ed è una sostanza che smentisce la vulgata consolatoria secondo cui siamo tutti uguali di fronte alla malattia e alla morte. Non è così, ma è vero invece l’esatto contrario: la malattia – questa malattia – e il suo esito ci rendono diversi l’uno dall’altro e approfondiscono di mese in mese il fossato tra popoli e ceti, tra etnie e comunità, tra geografie ed economie, tra gli have e gli have not, per dirla con Ernest Hemingway.
Guardate – guardiamo – questa seconda immagine. La foto è stata scattata in una sconosciuta periferia di Johannesburg, Sudafrica: centinaia di persone in fila composta e lunghissima per ottenere un food parcel, un pacco di prodotti alimentari di base per la famiglia. Mi sia concessa una nota personale: come cronisti abbiamo conosciuto le stesse file, ordinate e pazienti, nel lontano aprile del ’94, quando milioni di cittadini neri si recarono per la prima volta alle urne nel segno di Nelson Mandela. Le immagini di allora erano bandiere di festa e di orgoglio, quelle che vediamo oggi sono al contrario un segno di resa alla malattia e alla miseria.
Cronache della pandemia sudafricana: da alcune settimane il governo ha imposto la quarantena, migliaia di soldati circondano le townships e le persone abituate a uscire per procurarsi il cibo si trovano recluse e senza alcun sostentamento per la famiglia. La gente più povera fugge di casa per cercare il minimo indispensabile a vivere.
Poveri e più poveri, esclusi e più esclusi: il governo di Pretoria non concede aiuti agli immigrati, all’improvviso trasformati in stranieri. Racconta il missionario scalabriniano Pablo Velazquez: “Al mio numero personale ricevo ogni giorno decine di messaggi di disoccupati disperati, senza nulla da mangiare. Alcuni rappresentano l’unica risorsa economica per la famiglia che vive nei Paesi vicini. I mozambicani in particolare, sfruttati in tempi di normalità, oggi sono alla disperazione. Molti mi dicono: meglio morire di virus che di fame…”. ùSudafrica, Kenia, Uganda, Nigeria, Guinea: gli ospedali, qui, praticamente non esistono, come le cavallette le èlite tribali si sono mangiate ogni risorsa e la pandemia avanza al passo con la fame la corruzione e la violenza. Questo ci arriva oggi – poche righe in coda ai notiziari, qualche immagine atroce – da quel continente che da decenni l’Occidente ha cancellato dalle sue mappe.
Ma consoliamoci: tutt’altre sono la nostra storia, la nostra democrazia, le nostre città, le nostre tradizioni. Guardate allora – guardiamo – quest’ultima immagine. Viene da vicino, addirittura dal centro dell’ impero: Crown Heights, piacevole distretto di Brooklyn, poche fermate di metropolitana da Manhattan. Gli striscioni appesi alle finestre dicono: “Non possiamo pagare l’affitto, governatore Cuomo cancella gli affitti”. Ecco, dunque: mentre la disoccupazione cresce a dismisura in tutta l’America, milioni di affittuari si trovano nelle condizioni di non poter pagare la rata mensile del proprio appartamento. La protesta sale, l’hastagh #CancelRent è diventato virale, le manifestazioni si moltiplicano in decine di città. New York in particolare è una metropoli di affittuari: oltre due milioni di abitazioni sono in affitto e il movimento incoraggia gli abitanti a non pagare. I leaders popolari minacciano lo sciopero. La questione è semplice, spiegano: “Gli affittuari non sono più in grado di pagare”.
Ma la protesta ha messo in moto un meccanismo prevedibile e complesso. I landlords, proprietari di case, che nella sola New York sono 25mila, prevedono di bloccare il pagamento delle tasse sulle abitazioni, molti sospendono i lavori di manutenzione e avvertono: “Con lo sciopero degli affitti si rischia una pandemia economica e abitativa.” E la signora Vincia Barber, bambinaia disoccupata, confessa al New York Times: “Non pago l’affitto, ma devo tenere le finestre chiuse per il puzzo che sale dall’immondizia accumulata sotto il mio piano”.
Queste foto, e mille altre foto, queste cronache e mille altre cronache dovrebbero rappresentare un antidoto al virus insopportabile della retorica ai tempi della pandemia. Ma c’è qualcosa che oggi ci rappresenti? Nel nostro Paese ci siamo baloccati sulle canzoni intonate dai terrazzi, ci siamo chiesti fino alla nausea quale sarà “la prima cosa che faremo appena liberi”, ci siamo detti e continuiamo a ripetere che “tutto andrà bene”. Ecco, un po’ di misura, please. Ne usciremo e tutto non sarà andato bene, ne usciremo, e il mondo non sarà migliore. Peggiore – certamente – per i nostri fratelli delle favelas e delle townships e per i nostri fratelli vicini del Pio albergo Trivulzio.
Il nostro pianeta, non puoi prenderlo a pezzi. Al tramonto degli anni Sessanta eravamo giovani entusiasti del mondo e del suo futuro quando un ardito studioso americano ci informò – e ne portò le prove sonanti – che l’umanità viveva ormai in un villaggio globale. Ci parve, allora, una buona notizia, ma nel frattempo qualcosa – forse – è andato storto.
A distanza di mezzo secolo eccolo dunque il nostro pianeta interconnesso, il nostro villaggio globale, il nostro futuro splendente, il nostro condominio che scricchiola dalle cantine al penthouse, e una minacciosa cartolina di auguri che arriva da un’isola che non c’è con il timbro della pandemia.