Nicola Fano
Visite guidate

Il teatro e la paura

Parte una nuova serie di riflessioni di Succedeoggi: un quadro per raccontare il nostro difficile presente (e un futuro incerto). Per esempio, il ritratto dell'Arlecchino Tristano Martinelli ha qualcosa da dirci sul domani del teatro

Quando leggo sui giornali esperti-un-tanto-al-chilo che predicano di «pensare positivo» mi prende l’orticaria. Io non penso positivo: penso le cose come stanno. E le cose stanno messe maluccio. Non soltanto qui e ora, ma soprattutto domani e dopodomani. L’avrete capito: non sono nemmeno tra quelli che dicono che «da tutto questo usciremo migliori». Ne usciremo uguali. Fate che i contagi si riducano a zero, fate che riaprano le porte di negozi e uffici e torneremo ad essere razzisti e autoreferenziali, cercheremo di fregare il prossimo in tutte le maniere. E la crisi economica che s’impossesserà dell’Occidente sarà sfruttata ad arte dai soliti profittatori a danno dei più deboli: le disparità sociali diventeranno ancora più profonde e ingiuste. Punto.

Ma, per il momento, la buona notizia è che ci sarà un domani: la vita si rimetterà in moto e questo, sempre per dir le cose come stanno, è un fatto positivo. In un modo o nell’altro, il destino ci darà un’altra opportunità: forse impiegheremo un po’ di tempo per buttarla al vento. E, proprio in onore di questa opportunità, noi di Succedeoggi – come già altre volte in questa quarantena – abbiamo deciso di proporvi suggestioni di riflessione, ma da un’ottica particolare. Ogni articolo della serie che prende avvio con questo (e che abbiamo chiamato Visite guidate, ora capirete perché) vuole unire due spunti: si parlerà di un quadro, un’opera d’arte che suggerisce pensieri specifici sull’oggi, e poi si parlerà della città (e del museo) che lo ospita, ossia la mèta del primo viaggio che vorremmo fare appena usciremo dalla quarantena. Insomma, un auspicio di ripartenza.

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Quando mi sentirò di nuovo in condizione di viaggiare su un treno, andrò a Venezia (pagherei per vederla dal vivo com’è oggi, una scenografia magnifica e spettrale, ma devo accontentarmi dei filmati di chi la abita). Tornerò, in particolare, alle Gallerie dell’Accademia per vedere un quadro apparentemente minore, il ritratto di Tristano Martinelli (il primo Arlecchino della storia) dipinto da Domenico Fetti nel 1621. Per essere più precisi, quello di Venezia è una copia coeva, l’originale è all’Ermitage di San Pietroburgo: ma non sono mai stato in Russia e non credo mi capiterà mai di andarci.

Tristano Martinelli, stando ai documenti dell’epoca e soprattutto alle lettere dei suoi colleghi, è stato il più grande attore della Commedia dell’Arte. Vissuto a cavallo del 1600, formalizzò la maschera di Arlecchino (il ritratto ce lo propone in abiti “civili” ma con la celeberrima maschera di cuoio in mano) e, forse proprio in quanto tale, fu un perfetto italiano. Nel senso che nella sua vita unì genio e ribalderia, arte e corruttela. Riuscì ad avere solidi rapporti con i Gonzaga e con i Medici, sennonché ottenne il monopolio delle rappresentazioni teatrali a Mantova (Vincenzo Gonzaga fece da padrino di battesimo di suo figlio) e quella delle compagnie italiane a Parigi (grazie a Maria de’ Medici). Alle compagnie chiedeva (e otteneva) tangenti, in virtù di queste sue posizioni di privilegio. Ma il più delle volte non voleva soldi, bensì una parte in commedia: stando, appunto, alle corrispondenze dei grandi della Commedia dell’Arte (Francesco, Isabella e Giovan Battista Andreini, Pier Maria Cecchini, Flaminio Scala, ecc.) nessuno ebbe mai da ridire su questo tipo di tangente: Martinelli era effettivamente un attore portentoso. Semmai qualcuno protestava per l’esosità della sua paga. Quando si trattò di incensare se stesso di fronte alla corte di Parigi, anziché farsi stampare raccolte di poesie e commedie improbabili (le compagnie recitavano canovacci, non c’erano copioni con tutte le battute definite) come fecero tutti i suoi colleghi, confezionò un libro che intitolò pomposamente Compositions de rhétorique: un volume sontuoso di ottanta pagine gran parte delle quali bianche. Una geniale parodia, insomma. Era un italiano.

Perché andrò a rendere omaggio a Tristano Martinelli? Perché potrà capirmi quando gli dirò che i nostri connazionali non sono cambiati, ma è cambiato, e in modo radicale, il loro immaginario. Cambiato il loro rapporto con la paura: fino a ieri, il nostro immaginario attribuiva sentimenti di terrore a figure identificabili, in carne e ossa. Mostri, diversi, carnefici, killer: la cultura del secondo Novecento (vieppiù quella dell’inizio del nuovo Millennio) ha prosperato sulla creazione di nemici con un volto e una faccia. A parte le orribili invenzioni del cinema, lo sono stati nella realtà i fascisti e i comunisti, ora lo sono gli immigrati. Entità precise, da scacciare con un colpo di pistola o chiudendo porti. Viceversa, la paura che stiamo vivendo ora non s’aggrappa a qualcosa di identificabile: il nostro nemico non ha volto, non ha colore, non ha voce. Per nome ha una sigla anonima: per cercare di identificarlo gli abbiamo dato un nome un po’ più rotondo, da fumetto, coronavirus. Ma non è bastato a farne un soggetto con una sua identità fisica. Il passaggio dal nemico certo al nemico non identificabile segna una trasformazione profonda dell’immaginario. E, come è noto, il teatro vive di immaginario condiviso: come si fa a tener conto di questa trasformazione?

Ma c’è di più; e di peggio (questo non so se riuscirò a dirlo al povero Tristano Martinelli, forse non potrebbe capirlo). Il teatro è incontro fra gli individui: il contagio prescrive l’allontanamento gli uni dagli altri. Anzi, l’altro da noi è l’unica incarnazione possibile del nostro nemico d’oggi: è colui che potrebbe infettarci. E, quindi, se per il teatro incontrarsi è vivere, per il virus incontrarsi è morire. Ne consegue che la paura (ossia quella che spinge disperatamente a sfuggire ciò che ci nega la sopravvivenza) è diventata più forte del teatro. Quando torneremo a fare spettacolo, dovremo tener presente che i nostri spettatori avranno introiettato questo immaginario e non troveranno giovamento emotivo immediato dallo stare appiccicati uno all’altro in platea: forse si sentiranno contenti, in superficie, per la normalità recuperata, ma nel profondo proveranno terrore per la possibilità misteriosa, irrazionale, del contagio.

Nel 1576, a Milano, durante una delle più terribili epidemie di peste del secolo, l’Arcivescovo Carlo Borromeo organizzò una processione (la prima processione del Santo Chiodo) per chiedere perdono al Dio vendicativo che aveva mandato la peste a punite gli uomini per i loro peccati. Quella volta, e per la prima volta, in coda alla processione, la Chiesa consentì la partecipazione dei comici dell’Arte (erano molto popolari, in loro assenza, difficilmente i milanesi sarebbero usciti di casa a sfidare la peste), sennonché la storia ci dice che proprio a un’epidemia si dovette lo sviluppo del teatro. Stavolta è tutto diverso. E non vorrei che fosse il contrario.

Ecco, questo chiederò al Tristano Martinelli serioso lì, nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia: Arlecchino, la distanza sociale sarà la nostra rovina?

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