Nella terra delle contraddizioni
Viaggiare da fermi
La cattività cui ci costringe in queste settimane l'emergenza sanitaria spesso ci porta a vagare con la mente in luoghi che sembravano dimenticati e che invece sono la quintessenza della vitalità. Come il campo rom di Scampia
I raggi di sole attraversano la finestra, piccoli granelli di polvere appaiono in trasparenza, come una misteriosa costellazione. Nel silenzio più totale, confinati in poche mura, l’immaginazione corre. Ogni tanto qualche ricordo del passato affiora, a volte di persone care, amici, cene o viaggi in giro per il mondo. Per un viaggiatore e un iperattivo poter viaggiare solamente nella propria casa crea sensazioni strane e obbliga a tuffarsi in viaggi letterari o immaginari.
Una delle cose buffe, che accadono in questi strani viaggi, è come ripensando al passato si scoprono momenti felici o pieni di allegria nei luoghi in cui uno meno se lo aspetterebbe.
Nel silenzio della casa ritornano in mente le fragorose risate dei rom serbo-napoletani del campo di Scampia in cui ho lavorato per due anni. Risate che scaturivano in momenti imprevedibili. Spesso mentre discutevamo di problemi apparentemente irrisolvibili, ecco che il mio interlocutore, in molti casi donna, dopo un silenzio pensieroso, scoppiava in una contagiosa risata e mi offriva un caffè. Senza rendersene conto, si finiva per affrontare il problema con altra ottica.
I rom serbi, ma forse tutti rom, hanno in molti casi la capacità di capire che di fronte a qualcosa che in quel momento non si sa come risolvere, una risata spesso aiuta e sdrammatizza. Forse questo è il segreto della loro millenaria resilienza. Fattore che ha permesso a un popolo senza patria di sopravvivere nella loro secolare diaspora in giro per l’Asia, l’Europa, l’Africa e l’America.
Il luogo stesso in cui si trova il campo sembra aver fatto propria questa filosofia. Pur essendo quello di Scampia un campo comunale, non tra i più poveri, l’impatto visivo è potente.
Il villaggio è diviso in due campi chiamati uno A e uno B e sorgono in un terreno di proprietà del carcere di Secondigliano, tra le reti di recinzione della prigione e la circonvallazione esterna di Napoli. La strada è a raso, senza marciapiedi. All’entrata del campo vi è persino una lapide per ricordare una donna scomparsa prematuramente. Gli abitanti del campo vi lasciano delle birre, del cibo e dei fiori perché la persona nell’aldilà possa trovare ristoro.
Nonostante questo impatto visivo così potente, quello che colpisce del campo quando lo si frequenta è in realtà l’allegria che vi si scopre.
Non colpiscono i problemi, che ovviamente ci si aspetta in un quartiere complesso come quello di Scampia, ma la gioia di vivere che qui si incontra. Una gioia che non è felicità per la propria condizione, spesso vissuta anche in modo sofferto, ma una gioia che nasce perché semplicemente in alcuni momenti la voglia di ridere diventa irrefrenabile, contagiosa e non la si può reprimere.
Durante le centinaia di caffè che mi sono stati offerti nelle case del villaggio, una cosa mi ha sempre colpito tra tutte. In ogni abitazione, ricca o povera che sia, non mancano alcune cose.
Ogni casa ha un’immagine della madonna, rappresentata alla maniera degli ortodossi e quasi sempre la foto di un famoso guaritore tradizionale croato.
Ma quello che non manca proprio, ma proprio mai, che sia incorniciato in un quadro alla parete, stampato su una tovaglia o su una sedia, è il volto di Marilyn Monroe dipinto da Andy Warhol.
Marilyn appariva sempre e nei momenti più insospettabili, rendendo il tutto a volte misterioso e surreale. Ho chiesto spesso il perché di quell’attaccamento per Marilyn, ma nessuno mi mai ha saputo dare una risposta. Semplicemente è così.
Un altro elemento fondamentale nella cultura rom serbo-napoletana è la musica. Una musica allegra, ritmica, piena di irrefrenabile voglia di vivere, ma anche con punte di malinconia. Per questo in quasi tutte le case, ricche o povere che siano accanto al volto della Madonna, del guaritore tradizionale e di Marilyn, vi è quasi sempre un impianto per la musica con grandi casse. In alcuni casi, veniva facile la battuta: “un vero impianto della Madonna”.
Nella cultura rom serba il cibo e la rakia, la grappa balcanica e mediorientale, hanno un ruolo fondamentale. Anche il più povero offre di condividere il suo cibo e la sua rakia, che spesso sono ottimi. La cucina rom serba è una classica cucina balcanica con tante influenze ottomane e orientali, non tanto diverse da quelle greca e turca. Una cucina allegra, colorata e molto buona.
Una delle visioni più sorprendenti del campo sono spesso i mobili delle case. Molti rom sono ambulanti e robivecchi nei mercati e dentro le loro abitazioni si trovano spesso i mobili delle nostre nonne o vere chicche anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Una delle apparizioni più surreali sono gli animali da cortile che girano tra le case. In una società non più abituata ad avere gli animali che girano tra le abitazioni, era impossibile non affezionarsi all’enorme maiale nero che gironzolava in giro.
È noto che i rom riciclano di tutto ed ecco che nel campo si può trovare un furgoncino per la pizza fritta diventato un salottino per l’esterno, vecchi macchinari da palestra che diventano un luogo per lo sport all’aperto, grandi pubblicità di agenzie immobiliari che vendono belle case appese fuori dalle abitazioni, con una punta di ironia.
L’economia del campo è poi aperta al mondo esterno, ogni tanto passano ambulanti napoletani e non, che vendono di tutto. Dai tradizionali burek mediorientali e balcanici, alle pizze fritte napoletane. Esiste anche un estetista “gagè”, come i rom chiamano i non rom, che viene a casa.
Ecco che nella solitudine di una casa silenziosa e borghese, durante una quarantena, in un’epoca tragica, è facile riflettere su quanto i rapporti non siano mai univoci.
Ho lavorato in quel campo, dalle tante e complesse problematicità per due anni e in fondo oggi nel silenzio di casa, per combattere la malinconia, penso alle donne rom che a un certo punto, quando non sapevano più che fare o che “pesci pigliare” scoppiavano in una salvifica risata.
La vita non è mai univoca, anche quando si fissano dei ruoli come quello dell’operatore sociale e l’utente. Ruoli che nel lavoro è fondamentale mantenere sempre separati, sapendo però nel profondo che spesso tutto è più sfumato e nulla mai unilaterale.
Questo non vale solo nei rapporti interpersonali, ma anche in quelli interculturali e il campo lo mostra bene.
Le persone che vi vivono sono rom, sono serbe e sono napoletane. Ecco perché il termine rom serbo-napoletani riesce a racchiudere tutto questo. Le culture si sono intrecciate a tal punto da non poter più essere separate. Un piatto di pasta è importante quanto lo sono le foglie di vite ripiene di riso e carne, la moka italiana o le macchinette da caffè hanno quasi sostituito l’ottimo caffè turco. La musica neomelodica si è ormai mischiata alla tradizionale musica rom serba.
Il serbo, il romanì, il dialetto napoletano e l’italiano vivono stratificandosi l’un l’altro. Questa allegra vitalità che nasce in un contesto complesso è stata fotografata magistralmente da Martina Esposito, per un progetto che ha portato la fotografa a esporre questo autunno alcune delle foto in una collettiva per la quarta edizione di “Intrecci” il Festival del Welfare e dell’Intercultura che si è tenuto al Mann, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli in autunno. L’iniziativa è stata promossa dalla cooperativa Less, coinvolgendo il Mann, il complesso monumentale di Sant’Anna dei Lombardi e l’Università di Napoli Federico II.
L’integrazione, l’universo romanì, l’importanza del welfare e dei servizi di protezione sociale, i carceri e la violenza di genere sono le tematiche che sono state toccate dal festival patrocinato dal Comune di Napoli.
La resilienza, anche attraverso il saper ridere, quando non si sa più che fare, è forse la lezione più profonda che il popolo rom può dare ai “gagè” con cui condividono la vita.
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Le foto sono di Martina Esposito.