Storia di una leggenda irripetibile
Riva, Scopigno e…
Sono passati cinquant'anni dalla favola del Cagliari che vinse lo scudetto facendo fuori la concorrenza di tutte le grandi. La stagione di Gigi Riva, di Manlio Scopigno, di Domenighini, Cera e Albertosi sembra lontanissima
Forse non torneranno più quegli “anni ribelli” del calcio che videro il Bologna vincere il campionato nel 1964, la Fiorentina nel 1969 e il Cagliari nel 1970 in linea con il clima di quel decennio di contestazione, eccentricità, novità e modernità. Anni in cui la provincia allegra e bonacciona si prese gioco delle collaudate società del nord.
Quella del Cagliari della stagione 1969–70, è una storia unica e irripetibile, una squadra isolana che beffa le grandi compagini. Il suo eroe si chiama Gigi Riva che così racconta il suo arrivo nell’estate del 1963: 1La prima cosa che vidi dall’aereo furono le palme africane di via Roma». Non gli sembrò una punizione quella destinazione lontana in epoche in cui Boniperti quando minacciava un giovane affermava «Ti mando in Sardegna, al Sorso!». Il suo mancino micidiale divenne invece il simbolo del riscatto di un’isola conosciuta sino a quel momento solo per il banditismo. Gigi Riva ha finito per rimanere a Cagliari dove resta l’eroe numero uno. Un uomo posato e misurato, senza eccessi, per quello che gli aveva destinato la vita: il padre operaio morto schiacciato da una pressa quando lui era un bambino e la madre che non fece in tempo a vedere i suoi successi.
Esattamente cinquant’anni fa, il 12 aprile del 1970, con il 2-0 al Bari, gol di Gori e Riva, i rosso-blu si cucirono sul petto il loro unico scudetto. «Un giorno indimenticabile, abbiamo scritto un bel pezzo di storia» racconta oggi Riva che dal trampolino di lancio del Cagliari raggiunse la nazionale diventando campione d’Europa nel 1968, vicecampione del mondo nel 1970, recordman di marcature con 35 gol in 42 gare. Lui se lo ricorda bene quel giorno: «Rammento il pubblico dell’Amsicora in festa. Noi che siamo arrivati dal ristorante Corallo. Eravamo tranquilli ma nell’aria si percepiva qualcosa. E io come al solito avevo passato la notte insonne. Il giorno dopo siamo ritornati allo stadio e nel silenzio abbiamo capito di aver fatto una cosa bellissima, avevamo vinto lo scudetto, sfiorato l’anno prima. E se non mi fossi fatto male con la Nazionale contro l’Austria, ne avremmo vinti altri».
Era una squadra “corta”, con una rosa ridotta, nessuno poteva permettersi un raffreddore. «Praticavamo un gioco ordinato e i gol arrivavano. Eravamo una famiglia tosta che rappresentava migliaia di emigrati. In trasferta ci urlavano pastori. Per noi era una carica micidiale. Eravamo solidi dietro visto che resiste sempre il record di undici gol subiti. Non abbiamo mai perso in casa e negli scontri diretti, con la Fiorentina campione d’Italia e con la Juve a Torino, non abbiamo avuto distrazioni».
Gigi Riva, Rombo di Tuono per Brera, segnò 21 reti in 28 gare, terza volta capocannoniere e portò la Sardegna in Italia, l’isola considerata sino all’epoca un luogo remoto, arcaico, ancestrale. Chi andava in Sardegna era per scontare qualcosa. Un trasferimento là era una vera e propria punizione, una sorta di Caienna italiana. A cambiare le cose ci pensarono l’Aga Khan che inventò il modello Costa Smeralda, un comprensorio per le vacanze dei ricchi, il nuovo polo industriale della Saras, la raffineria dei Moratti e soprattutto la società calcistica del Cagliari che dal 1964 salì per la prima volta nella massima serie, proprio con una rete decisiva di quel giovane venuto da Leggiuno, sul Lago Maggiore. Impiegarono sei anni a compiere quell’irripetibile miracolo, neppure previsto dalla Madonna di Fatima, che per la prima volta spinse lo scudetto nel sud della penisola. Un evento unico che si basa sull’effige di Gigi Riva, pronto a scagliare uno dei suoi bolidi e sulla faccia triste di Manlio Scopigno, l’allenatore giunto in Sardegna nel 1966, fuggito in America e rientrato nel 1968, capace di giocare all’olandese prima dell’era di Cruijff.
Friulano di nascita, laziale d’adozione, soprannominato “il filosofo” perché iscritto a quella facoltà all’Università di Roma, mantenne il suo stile di pensiero sottile per il modo di lanciare sentenze con voce flebile. Quando una notte ricevette un biglietto del presidente del Bologna, Goldoni, che lo licenziava, lui così commentò: «Ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato». Amante delle sigarette e del whisky, che spesso condivideva con i suoi calciatori, studiò bene il clima dell’isola e quindi spostò gli allenamenti al pomeriggio e aumentò di molto il riposo degli atleti. Freddo e caustico, controcorrente e anarchico, amante dell’utopia, il 24 dicembre 1969 venne squalificato per cinque mesi per alcune frasi offensive rivolte a un guardalinee nella partita col Palermo di nove giorni prima. Lui non si scompose e passò a seguire le partite dalla tribuna. Persino nel magico match della vittoria finale era in mezzo al pubblico, come un normale spettatore dello stadio guerriero dell’Amsicora. Il segreto del pedagogo Scopigno? Aver raccattato atleti scartati dai grandi club, considerati non più adatti alle platee nobili del pallone. Insomma, gente mandata al “confino” in Sardegna, come si usava al tempo del regno savoiardo. Gente maledetta, guascona, libertaria, vogliosa solo di dimostrare che non era sul viale del tramonto.
In tutto sedici calciatori presenti nella stagione! Ricky Albertosi, portiere dalle prime maglie colorate, a cominciare dalla casacca rossa, era un reduce della grande Fiorentina, spedito via per problemi di compatibilità nello spogliatoio. Abbagliando gli attaccanti con i suoi colori sgargianti, subì solo undici gol, stabilendo un record. Infortunato Tomasini, il mister inventò Cera libero che divenne poi il pilastro della difesa azzurra di Valcareggi. Aveva con lui l’arcigno Comunardo Niccolai, figlio della Toscana rossa, principe degli autogol, più il barese Mario Martiradonna e Giulio Zignoli, atletici duri e concreti, senza troppi fronzoli. Il corposo centrocampo ruotava attorno a un’altra invenzione di Scopigno, Nenè “falso 9”, stile Bobby Charlton. Claudio Olinto de Carvalho, noto anche con lo pseudonimo di Nenè, era stato dirottato a Cagliari dalla Juventus. I dirigenti della Signora non potevano capire che, al sole isolano, Nenè avrebbe tirato fuori quella alegria do povo ereditata da Garrincha: suonava la chitarra nei ritiri, ballava la samba sulla spiaggia del Poetto, giocava a pallone con i ragazzini dei quartieri poveri della città. Accanto a lui lavorava l’operaio Ricciotti Greatti, detto Riccio, il numero dieci oscurato da Rivera e Mazzola, che scese in campo perfino il giorno del funerale della madre. A destra scorrazzava lungo la linea laterale Angelo Domenghini detto Domingo, scarto dell’Inter. Giocò 19 partite anche Mario Brugnera, anche lui scaricato dalla Fiorentina. Al centro dell’attacco giostrava Bobo Gori, mandato in esilio dall’Inter che poi andò alla Juve al posto di Riva. Ogni partita era uno sforzo per raggiungere il paradiso. E quando Riva si avvicinava alla panchina chiedeva a Scopigno: «Mister, quanto manca?». E il filosofo rispondeva «A cosa?».