Lettera da Città del Messico
Messicovirus
«Qui in Messico viviamo in uno stato di sospensione, come tutti, e scontiamo la flagrante irresponsabilità di coloro che decidono per noi, in attesa di un disastro sanitario che senza dubbio ci colpirà molto presto»
Ho scelto di ricordare il giorno della Liberazione in solitudine, rileggendo qualche pagina degli scrittori che più ho amato e scrivendo questa lettera senza capo né coda indirizzata a un amico italiano immaginario che però in questi anni è venuto a trovarmi in Messico (ne ho ancora tanti, e con loro non si è mai interrotto un legame).
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Abbiamo appena saputo che la notte scorsa è morto il fratello di una delle migliori amiche di Lari, dopo alcuni giorni di terapia intensiva, intubato e privo di coscienza. Era più giovane di me e aveva due figli piccoli. Potrai comprendere la mia ritrosia a partecipare, proprio oggi, alle fantasmatiche commemorazioni del 25 aprile. Quanto tempo è passato dalla grande pioggia del corteo di Milano del 1994, eppure sembra ieri…
Siamo in quarantena da quasi sei settimane, e ci resteremo almeno fino al primo di giugno, anche se il confinamento è lasciato al libero arbitrio dei cittadini di questa nostra «repubblica amorosa», fondata – cito gli slogan dell’attuale presidente – «sugli abbracci, non sugli spari» («abrazos, no balazos»).
Del resto, ad AMLO (acronimo di Andrés Manuel López Obrador) piace presentarsi – nell’immancabile conferenza stampa mattutina, dal lunedì al venerdì; nei comizi e nei discorsi alla nazione, il sabato e la domenica – come una sorta di volontaristico, sciamanico «re taumaturgo». Ancora a fine marzo ci invitava ad andare al bar e al ristorante per appoggiare l’economia nazionale ed esibiva davanti alle telecamere i suoi amuleti – «le mie guardie del corpo [sic!]» – contro il coronavirus: vari santini, soprattutto, oltre a un motto ormai mitologico al di sotto del Río Bravo: «Detente, enemigo, que el corazón de Jesús está conmigo» («Fermati, nemico, ché il cuore di Gesù è con me»).
Nel frattempo continuava a dedicarsi, in giro per il Messico, alla propria campagna elettorale permanente, malgrado l’inquietante lontananza delle prossime elezioni presidenziali, che avranno luogo soltanto nell’estate del 2024. In tali occasioni reiterò l’importanza dei baci e degli abbracci, cogliendo, tra l’altro, l’opportunità di stringere la mano alla madre di Joaquín «El Chapo» Guzmán. Alla fine, il 30 di marzo, è stato decretato lo stato d’emergenza, pur senza sanzioni per chi (individui o imprese rapaci amiche del governo) ne trasgredisce le regole inesistenti.
Il Messico, com’è noto, è il paese dell’Ocse che fa meno test (0.2 ogni mille abitanti), ed è per questo che le sue cifre, apparentemente, non mentono, perché hanno imparato molto bene – così come il virus, ahimè – a nascondersi dietro alle quinte di cartongesso della retorica ufficiale, i cui sommi responsabili ci rassicurano sera dopo sera a reti unificate, affermando, per esempio, che i soggetti asintomatici non possono contagiare nessuno e che le mascherine sono più pericolose che utili, anche per chi ha avuto in sorte di vivere ai margini di questa infinita megalopoli ed è costretto a servirsi dei mezzi pubblici, tuttora affollatissimi.
Che cosa penserai di queste parole, mio caro amico? Tu hai conosciuto la lacerante, luminosa bellezza di questi territori, nei quali, purtroppo, l’inettitudine – o l’improntitudine – più palese può convertirsi da un giorno all’altro in uno straordinario talento teatrale, se non in un assurdo fenomeno mediatico (mi riferisco in particolare all’immagine da garbata rockstar del viceministro della Sanità, il quale negli ultimi tempi è diventato l’oggetto del desiderio di gran parte del pubblico femminile e ha trasformato la conferenza stampa quotidiana sull’andamento epidemiologico del virus in uno show atteso con impazienza dalle sue affascinate ammiratrici).
Si è parlato spesso del «carattere dei messicani», che abitualmente viene definito «surrealista», però mi chiedo e ti chiedo: fino a che punto è lecito accettare il tragico inveramento di un luogo comune?
Qualche settimana fa un amico medico mi ha reso partecipe dell’unica prognosi di cui, malauguratamente, si sentiva capace: «Spero davvero che l’esposizione a così tanti escrementi, batteri, parassiti e virus abbia preparato la popolazione messicana, e che rappresenti un fattore di protezione. Altrimenti, credo che qui andrà molto peggio che in Spagna, in Italia e negli Stati Uniti». Ecco, i medici e gli infermieri… In Messico, invece di essere applauditi e ringraziati per il loro fondamentale impegno, vengono scacciati, assaliti e insultati: nella nostra sinistra normalità – altro che «repubblica amorosa» – sono soliti buttargli addosso bevande bollenti e cloro, quando non passano a più drastiche vie di fatto.
D’altro canto, nonostante l’epidemia, marzo è stato il secondo mese più violento di cui si abbia notizia, almeno da quando esistono rilevazioni di statistica giudiziaria, con 3158 omicidi. Non so se il penultimo capitolo – «La parte dei crimini» – del grandissimo romanzo postumo di Roberto Bolaño possa essere considerato alla stregua di una profezia; in ogni caso, la fredda, anodina contabilità della morte ci ha permesso ancora una volta di varcare quella macabra soglia, 2666, alla ricerca di inedite quote di orrore.
Devo confessarti che sono stanco di tutto ciò, della mia esistenza reale e della mia esistenza virtuale, per non parlare di quelle dei miei simili e dei miei dissimili. Qui tutti organizzano laboratori letterari on-line e fanno lezione su Facebook, mentre progettano convegni, letture di poesia e aperitivi non so dove.
Frattanto il presidente ci comunica con inesorabile costanza e pose da viceré che la presente crisi è capitata «come il cacio sui maccheroni», dato che «l’umanesimo» della sua «Quarta Trasformazione» (dopo l’Indipendenza, la Riforma e la Rivoluzione) non potrà che sconfiggere l’odiato neoliberalismo.
Francamente, non sopporto l’iperattività di coloro che si ostinano a credere che la pandemia rappresenti una preziosa occasione creativa, e nemmeno il presuntuoso compiacimento degli «apocalittici giulivi» – uso la tua pertinente e persuasiva definizione –, che gioiscono dell’incubo piranesiano delle città deserte; sopporto ancor meno la balbuziente futurologia – povero Bertrand de Jouvenel! – dei discepoli dei filosofi pop, che diffondono sui social media le loro pretenziose congetture.
La mia lettera trasuda atrabile, ne sono cosciente e me ne dispiace. Ma oramai conosci il mio temperamento accidioso, e immaginerai facilmente che in tali circostanze mi riesce difficile persino scribacchiare qualche frase.
Nel mio quartiere, la Condesa, le jacarande sono in fiore, come sempre.
Iskra e Pozzo sono profondamente irrequieti, com’è naturale, una golden retriever e un labrador non possono accontentarsi di una brevissima passeggiata attorno all’isolato. Ma sono allegri, perché finalmente siamo tutti e due a casa. Questo fatto, in apparenza così banale, mi ha obbligato a riflettere: molti scrivono che «prima eravamo felici senza saperlo». Non ne sono convinto. Eravamo semplicemente più liberi, secondo me, di essere felici o di essere infelici.
Ora viviamo in uno stato di sospensione, come tutti, e scontiamo la flagrante irresponsabilità di coloro che decidono per noi, in attesa di un disastro sanitario che senza dubbio ci colpirà molto presto (gli ospedali di Città del Messico sono già prossimi al collasso) e di una catastrofe economica le cui conseguenze saranno devastanti.
Per il momento stiamo bene, comunque, e speriamo altrettanto di voi.
Ti mando un affettuosissimo abbraccio,
Fabrizio