Lungo la costa del Messico
Mar delle balene
Viaggio a Baja California, dove i ritmi di vita li dettano le balene e dove il conflitto silenzioso tra gli americanos e i pescatori locali si consuma in villaggi dai nomi esotici: Bahia Magdalena, Guerrero negro, Puerto Lopez Mateos...
Il mondo di sopra è il ronzio placido della lancia che fila sull’orizzonte azzurro della Laguna di San Ignacio. Una piccola foca gioca con la corrente prima di sprofondare nel blu profondo, a destra si allontana la linea verde e compatta delle mangrovie, lontano a sinistra si avvicina il frangente delle onde: mare aperto nel riverbero del sole, oltre la spina di sabbia che chiude l’anello delle acque ferme.
Il mondo di sopra è un piccolo emporio di varia umanità: due ciarliere signore americane, una famiglia messicana, una coppia di giovani ciclisti, un biondo solitario. E poi giubbetti salvagente, stivali, cerate, mantelle impermeabili, telecamere e cellulari e macchine fotografiche: merce, superflue attrezzature marinare che nemmeno nella stiva del Pequod, l’antica baleniera di capitan Achab.
Spento il motore, affidata la panga al moto pigro dell’onda, il mondo di sotto si annuncia con uno sbuffo che sembra un sospiro, una colonna di gas e acqua sottile che si alza nell’aria ferma. A dritta e a sinistra – a pochi metri dalla nostra esigua colonia umana – una due tre poderose e leggere masse viventi, riflessi lucidi e scuri contro lo specchio del sole, compagni di viaggio che si mostrano e si inabissano senza fretta: un silenzioso colpo di coda a chiudere lo spettacolo.
Viaggiano in coppia la madre e il piccolo, la grande balena grigia che viene da lontano e la sua prole generata nelle acque placide e sicure della laguna, svezzata in questo porto sicuro finché sia pronta ad affrontare il lungo viaggio di ritorno, migliaia di chilometri da qui al freddo mare di Bering.
In cerchi concentrici, in sbuffi e apparizioni sempre più vicini. Il mondo di sotto arriva infine a scivolare come un brivido lungo il fianco della lancia: il piccolo curioso muove con leggerezza i suoi cinque quintali, concede alle carezze dell’equipaggio – alle urla di meraviglia, al trambusto a bordo, al beccheggio convulso – prima il muso massiccio e la bocca sdentata, poi la schiena scura e scivolosa. Gioca, si nasconde a poppa e appare di nuovo a prua, un’ombra che indovini a filo d’acqua, con un grido di sorpresa, tra il pescaggio della barca e l’abisso nero e senza fondo della laguna.
Ma è la madre, venti tonnellate di amore materno, quel riflesso più chiaro, grigio ferro, che appare sotto la chiglia, e che lentamente si muove verso la superficie. La madre che non lascia mai solo il piccolo, e che ora emerge come un’isola vivente al nostro fianco. Con un colpo di coda può spazzare la coperta, con un brivido della grande massa può rovesciare il nostro guscio, eppure ci sfiora come una smisurata carezza, si offre al tumulto festoso degli umani che fanno a gara a sfiorare e toccare il mostro finalmente disvelato tra il suo e il nostro mondo.
Sotto la mia mano, nel fugace contatto, avverto una superfice liscia compatta e tiepida, incrostata di vecchi gusci, solcata da tagli, cicatrici e antiche ferite. Il corpo gigantesco mosso dalla vita e dal sangue che scorre e animato da una sorta di amore per la specie e per la creatura che in questo momento gli scivola accanto: un istinto che il nostro sparuto equipaggio di umani e ciascuno di noi non comprende ma riconosce oltre gli oceani della diversità biologica. Viventi, abitanti dello stesso universo, la balena e noi.
La madre e il piccolo si nascondono e si rivelano, ci accompagnano fin dove li porta la curiosità, o la tenerezza, o un gioco gregario. La fine è come rispondere a un richiamo silenzioso: quando la grande schiena e la piccola si allontano, una a fianco dell’altra, la vasta laguna diventa all’improvviso un lago deserto. Sul cielo acceso volano in schiera i pellicani, i sospiri e gli sbuffi si perdono, il cerchio si spezza e il motore di nuovo acceso della lancia è come un segno di addio. Il mondo di sopra si ricompone: si stringono le cerate contro la brezza che comincia a soffiare, si calano i berretti, si affacciano le parole, anche noi umani ci riconosciamo viandanti sulla via del ritorno. All’orizzonte, contro le onde che frangono sul limite del mare aperto, una grande coda triangolare si alza e si inabissa senza rumore.
Bahia Magdalena. Di fronte a una tazza di caffè, seduto a un tavolino del ristorante Lore’s House, il capitàn Eduardo accenna a un mesto sorriso: «Hoy no se puede… oggi non si può uscire per balene, c’è troppo vento». Oltre la finestra, nel mattino lattiginoso, si agita una palma piegata da raffiche furiose. Per tutta la notte ci ha accompagnato il rombo della tramontana, un fronte di nuvole fredde che dal nord è arrivato ad offuscare la dolcezza primaverile nella laguna di San Carlos.
Al molo, le pangas sono tirate in secco, le passerelle deserte, la grande distesa dell’acqua color ferro è increspata dal vento. In questa giornata di far niente, il mondo di sopra si scopre inutile e senza scopo. Los americanos, che ieri affollavano i pochi bar, sono scomparsi alla vista. Senza colori, improvvisamente virato in bianco e nero, il paese rivela la sua vera natura: un caos di misere casette a un piano, giardini inselvatichiti, miseri negozi illuminati la sera da deboli lampadine.
Le vie dedicate ai porti messicani – da Puerto Vallarta a Tapachula a Puerto Escondido a Cancùn – sono piste di sabbia che si incrociano confusamente, con poche auto che scivolano in silenzio o arrivano di corsa alzando nuvole di polvere. In questa povera architettura urbana domina l’inconcluso o l’abbandonato, come stato reale e insieme metafora del mondo periferico: non solo Messico, ma la periferia di tutto il pianeta, dall’Africa all’Oriente, all’America Latina.
Nel nostro camminare senza meta incontriamo la casa incompleta: un caos di mattoni calcinati, finestre senza infissi, colonne che non portano a nulla, tondini di ferro che svettano inutili verso un secondo piano che non esiste. Chi ha cominciato il lavoro ha presto perso il denaro o la voglia, lasciando queste vestigia di sé, i sogni delusi di una famiglia, il fallimento di un’impresa o di un semplice desiderio: come siamo, come forse saremo, e come non siamo riusciti ad essere.
Qui il tempo è cristallizzato: può essere stato un anno come dieci anni fa. Può essere solo ieri, può ricominciare domani, con una nuova parete di mattoni, un nuovo sogno presto deluso, un nuovo addio. La casa incompleta si perpetua in decine e decine di case incomplete: un rudere all’angolo tra Puerto Vallarta e Cancun, un sudicio spiazzo senza indirizzo dove si rincorrono magri cani randagi, una camera da letto in cui nessuno ha dormito e nessuno ha fatto l’amore, un patio dove nessuno si è mai seduto in compagnia a far chiacchiere dopo cena.
Più lancinante dell’incompleto è l’abbandonato. Sulla nostra guida vecchia di qualche anno leggiamo la recensione entusiasta del ristorante “Los Arcos”, in calle Puerto La Paz, con «tavoli disposti sotto le palme». Ma le palme sono scomparse, e del ristorante – lo scopriamo stasera – non restano altro che gli archi sbrecciati, i resti di un murale colorato che raffigurava barche e balene, e un lungo corridoio scuro che porta forse alle sale interne, oggi schermate da una barricata di assi di legno. Quando ha chiuso, il «ristorante in cui si mangiano i migliori piatti di pesce di San Carlos»? E quando è andata in rovina la gelateria all’angolo, di cui è rimasta solo l’ingenua insegna dipinta sul muro, un banco sfondato e un pavimento crivellato di cocci e vetri di bottiglie? Quando è stata abbandonata questa lunga teoria di caverne buie che una volta erano negozi e case e uffici allineati per decine di metri lungo calle Puerto Escondido?
C’è una storia della città fallita che nessuno racconta e che non interessa né i vecchi né i nuovi abitanti. Né i turisti che attraversano queste vie con gli occhi chiusi, los americanos con lo sguardo verso il molo, verso la laguna, verso i mostri benevoli che danno luce all’abbandonata San Carlos per tre mesi ogni anno: una breve parentesi dentro un profondo sonno letargico.
Quando non accompagna turisti sulla laguna, capitàn Eduardo è pescatore, perché questo è da sempre un paese di pescatori. Ma per incontrare questa storia, i fantasmi di questa storia, bisogna ancora una volta affidarsi alle rovine dell’abbandono. E le rovine ci parlano di un piccolo paese che si aggrappa a questa unica risorsa, di migranti che arrivano da altre regioni, da Sinaloa e da Sonora, e che lasciano la Bahia Magdalena al termine della stagione di pesca, di giovani senza lavoro e redditi familiari al di sotto della linea di povertà.
«Le ricchezze del mare sono dei pescatori e delle loro famiglie, per questo lottiamo uniti», dice un vecchio murale. Ma che fine ha fatto il Comedor comunitario, “la cucina sociale”, che occupava un vecchio edificio del centro? In rovina, in rovina, con il soffitto crollato e le piante del giardino incolto che hanno invaso le stanze e il patio e divelto gli infissi. E la cooperativa dei pescatori di Bahia Magdalena che fine ha fatto? Resta la scritta scrostata su una parete, resta l’ennesimo vecchio murale – un pescatore in piedi sulla barca, con il gesto ampio a lanciare una rete – dipinto su un lato del piccolo zocalo del paese.
Il mondo di sopra è povero, poverissimo. Scandito dal lavoro duro, dall’uscita delle barche, dalle giornate sulla laguna, dai turni nel piccolo stabilimento di trasformazione delle sardine. Così, basta una giornata di vento, una mattina opaca, a strappare il sipario colorato della «grande caccia pacifica alla balena grigia». Il turista che viene dal nord chiede buon pesce, pescado rico nel ristorante all’angolo, ha una stanza prenotata nel resort più elegante, aspetta impaziente l’indomani. Ha pagato per un’avventura di qualche ora sulla laguna senza tempo, e San Carlos è solo una quinta teatrale, uno scorcio pittoresco, qualche foto scattata sul molo, un brindisi serale prima del ritorno a casa.
Guerrero negro. Se Ismael è “la balena”, allora Guerrero Negro è Nantuket, la “porta” delle balene sul Pacifico. Fin dal nome, questo nulla di polvere e sabbia attraversato dal 28 parallelo, racconta una grande storia. La storia vera della baleniera americana Black Warrior che in un infausto pomeriggio del 20 dicembre 1858 fece naufragio sul banco di sabbia detto “spina del diavolo”, a poche miglia dall’approdo. Vittima della sua ingordigia, al rientro da una battuta di caccia il vascello si piantò a terra perché troppo zavorrato da un enorme carico di grasso e olio di balena.
Il relitto rimase anni con la prua infilata nella sabbia e la poppa arrampicata in alto, come un lugubre faro e un memento alla fatale voracità degli umani. Il modesto borgo di pescatori che sorge di fronte e che doveva chiamarsi Venustiano Carranza in onore di un eroe della rivoluzione messicana, adottò subito il nome guerresco del relitto. La vulgata popolare era troppo forte e alla fine burocrazia e toponomastica dovettero arrendersi: il paese fu ribattezzato e rimase negli anni e nella storia come Guerrero negro, da Black Warrior, il nero guerriero.
Considerate ora Guerrero Negro, un agglomerato di oltre diecimila anime cresciuto su una spianata arida, una chiesa in cemento modernista di singolare bruttezza, una scacchiera di quadras dove le larghe strade sono piste di sabbia senza nome, che muoiono su crocevia oltre i quali si spalanca il nulla. Il giorno, un lento passaggio di pedoni e auto, la notte silenzio e buio, la luce fioca di qualche taqueria. Da queste casette anonime, da questi aridi cortili non si indovina la laguna, che pure è a pochi chilometri, immensa e tortuosa, chiusa al mare aperto da sbarramenti di mangrovie e basse cordigliere di sabbia.
Eppure qui tutto parla di mare e di balene. I marinai dell’Ottocento chiamarono “mal’arrimo” l’accesso dal Pacifico alla costa, e mal’arrimo significa “approdo pericoloso”. Oggi Malarrimo è il nome di un bar ristorante, albergo colorato e modesto, negozio di souvenir, sala da biliardo, rifugio per appassionati di balene, ufficio turistico. Non puoi sostare a Guerrero negro senza conoscere Malarrimo. Nel vasto spiazzo davanti all’ingresso i visitatori posteggiano i loro possenti van, gli alti pick up, i mostri da quattro ruote motrici, i caravan giganteschi. Vengono dalla California americana, dal Texas, dal Nevada, dal lontano Stato di Washington, vogliono tutti provare l’ebbrezza di scorgere, sfiorare, accarezzare le balene della laguna. Come i loro antenati vollero provare l’ebbrezza di arpionare, dissanguare, sventrare, smembrare bollire, sgrassare, massacrare i grandi mostri indifesi che popolano le placide acque della laguna Ojo de Liebre.
Così, quando la massa lenta e pacifica nuota a fianco della lancia, quando i piccoli ti accompagnano sfiorando la prua e si ripete la magia di un disarmato incontro tra specie viventi, non puoi far a meno di immaginare – solo immaginare – questo immenso specchio d’acqua rosso di sangue, lo schiumare delle bestie agonizzanti, il richiamo dei ramponieri, la lama che taglia il grasso, i grandi bracieri che distillano l’olio, la coperta del vascello lorda e scivolosa di sangue e umori, la carcassa spolpata abbandonata fuori bordo.
Ma pace, ormai. Dopo la scorribanda nella laguna, dopo la doccia che lava il sale della giornata, nel ristorante del Malarrimo, di fronte a una zuppa di pesce. Alla tavola accanto si tiene la mano una tenera coppia di hippies settantenni, arrivati direttamente dall’antica Woodstock delle nostre nostalgie, nell’angolo vicino alla porta un’allegra brigata di bevitori di birra come reduci dalle gradinate del Super Bowl. Todos americanos: non parlano una parola di spagnolo, ma hanno con sé – come no – la forza di persuasione e la magia del dollaro di Trump. Sono i discendenti pentiti del capitano Robert Brown, quello che centocinquant’anni fa mandò a sbattere il Black Warrior contro le secche della spina del diavolo.
Puerto Lopez Mateos. Quest’anno come regina della festa è stata scelta la ragazza Ximena, una bellezza locale che sorride dai manifesti già sgualciti dal vento e dal sole. Così raccontano le ultime cronache del Festival internazionale della Balena grigia a Puerto Lopez Mateos. Il piccolo borgo di pescatori – uno straordinario punto di avvistamento di fronte alle isole Santa Margarita e Santa Magdalena – si anima ogni anno nei primi giorni di febbraio, quando la grande migrazione è compiuta e nelle placide acque della laguna il popolo delle balene si prepara alla traversata di ritorno verso l’Alaska e il freddo mare di Bering.
La festa di benvenuto degli umani ai cetacei si celebra nella piazza del paese, tra il minuscolo Zocalo e la chiesa colorata di rosso e ocra. Un palco con gli altoparlanti, una banda che suona, le autorità in giacca e cravatta, manipoli di turisti americani entusiasti e un po’ spaesati, fuochi d’artificio nella notte stellata.
Altro non c’è, a Puerto Mateos, se non quattro viali dritti e polverosi, un minuscolo supermercato, due remoti ristoranti e qualche spartano alloggiamento. Eppure, per queste strade aleggia il senso avventuroso di un Far West del sud, un estremo avamposto di rocce sabbie e mangrovie dove l’impronta dell’uomo si arresta di fronte al regno dei possenti mammiferi dell’oceano.
Piccole e grandi leggende: sulla parete di fondo del ristorante “Las Brisas” due antiche foto si dividono il posto d’onore: una balena grigia che salta fuori dalle acque spumeggianti della laguna e il comandante della rivoluzione messicana, Emiliano Zapata, con sombrero calato, fucile in pugno e bandoliera incrociata sul petto.
Non ti aspetti davvero di trovare la storia – e che storia – in questo remoto angolo del Messico. Eppure: l’orgoglio della grande avventura patria cammina insieme all’ orgoglio delle piccole avventure quotidiane. Come quella del proprietario del ristorante – un afro-messicano ingrigito dagli anni – che tanto tempo fa ebbe la ventura di catturare un pesce enorme: un mero rojo di oltre duecento chili di peso. Quel pesce, ricreato in una fedele ricostruzione di cartapesta troneggia da sempre all’ingresso de “Las Brisas”, e non puoi uscire dal ristorante senza una foto con il mostro.
In mare, a trovare le balene, ci vai con i pangueros, i pescatori locali che hanno formato una cooperativa e che imbarcano sul piccolo molo appena fuori del borgo. Oggi, giornata benedetta di sole e nemmeno un alito di vento, la laguna è piccola e stretta, l’acqua azzurra e blu. Oggi avremo la ventura di vedere, accarezzare toccare ancora una volta le compagne del nostro viaggio: “las amistosas”, le amichevoli, come le chiamano qui.
Ma non sempre – ahimè – il mondo di sopra fa i conti con il mondo di sotto. Spento il motore, piantata la lancia in mezzo alla laguna, le grandi balene si tengono lontane, girano in circolo, sbuffano, sfiatano, e si inabissano: vedi una grande schiena emergere con leggerezza e subito dopo la perdi nel gorgo. «Hoy las ballenas son perezosas… oggi le balene sono pigre», si giustifica il nostro capitàn. I piccoli non ci sono, o almeno si tengono sul fondo, le madri appaiono lontane, lente e pronte a nascondersi. Sulla scialuppa, dopo l’iniziale delusione, i turisti sono presi da una piacevole sonnolenza. Il sole trionfa, nel cielo senza nuvole trascorrono bande di gabbiani e flotte indolenti di pellicani. «El aire ausente, un cielo azul, la tierra calida», direbbe con la sua voce profonda Pablo Neruda.
Forse è troppo caldo e preferiscono stare sul fondo. Forse si rifugiano più a sud, dove intravedi una strettoia, quasi un corridoio di acque davanti alla barriera dell’isola Santa Margarita. È marzo avanzato, forse le grandi balene si preparano al ritorno, e non hanno davvero tempo per giocare con noi umani. Forse – infine – la spiegazione è più elementare: sono loro che comandano e decidono, da centinaia di anni. C’erano prima di noi, sono sopravvissute alla grande mattanza, ci saranno dopo di noi, in una selvaggia Bahia Magdalena vuota del genere umano. Quando tutto questo non ci sarà più, quando tutto questo sarà triturato dalla storia, e addirittura la storia come la intendiamo sarà triturata dal tempo senza tempo delle balene.
Va bene così, anche questa assenza. Il motore si riavvia, la lancia prende lentamente velocità, il mondo di sopra è silenzioso. Metto la mano in acqua, sento la corrente placida, una vibrazione tiepida. Saluto…