Visite guidate
La cena del Mistero
Una visita al "Cenacolo Vinciano" di Leonardo è come un salto nel dubbio: tutto quel che appare chiaro, dopo poco si perde nell'opacità della memoria. Resta solo la certezza dei miti, della fede e della nostra inadeguatezza
Quando finirà l’emergenza, finalmente potremo riabbracciare i nostri cari e gli amici lontani. E anche i nostri luoghi. I selciati, i viottoli, i lecci, il grande e secolare platano, i cortili, il saltellio del beccafico. L’attraversare quella piazza, il respirare quella atmosfera. Sono tutte cose a cui prima non si prestava molta attenzione. (Ci pensavano gli smartphone a incollarci sugli schermi liquidi e a procurare solide zuccate contro i lampioni.) Eppure erano il nostro presente, ora sono soltanto una pallida idea di futuro. La prospettiva psicologica per la quale quelle cose ci mancano, coincide con la velata supposizione che non si sia tanto allontanato da noi il quotidiano, quanto il viverlo con docile profondità. Siamo ora in un limbo d’incertezze e preoccupazioni, fermi in un tempo sospeso.
In questi giorni gira su Facebook e Whatsapp un video geniale della compagnia Retropalco: i quadri che parlano della nostra vita ai tempi del coronavirus. L’estate 2020 ovviamente tracciata da Botero (tutti un po’ — un bel po’ — in sovrappeso). Il centro città di De Chirico (deserto). Il panorama di Hopper (da casa e non si vede niente). L’ultima autocertificazione di Jean-Louis David (esanime). Mi ha colpito moltissimo un Autoritratto con cane di Ligabue (passeggiata con sguardo allucinato). Finite queste pratiche, cosa ci toccherà in futuro?
Le previsioni non sono confortanti. Ciò che, però, dovremmo fare di qui in là, è già scritto (da un pezzo): dilige et quod vis fac, diceva Sant’Agostino. Qualsiasi cosa si debba fare, l’importante è che la si faccia con quella concentrazione di tutti i sensi che chiamiamo amore e che Simone Weil definiva appunto «attenzione». Insomma, non possiamo più essere sbadati. Ad esempio: non possiamo chiedere i coronabond se ci dimentichiamo che la Madonna Sistina di Raffaello, poniamo, è alla Gemäldegalerie di Dresda. Dobbiamo ricordarci di chiedere prima la Madonna Sistina. Anche noi italiani abbiamo lavorato, sebbene cinquecento anni fa!
Al di là di queste facezie — ma si spera che Europa significhi sempre di più siamo fratelli —, una volta concluso tale periodo, mi piacerebbe tornare a Milano per visitare L’ultima cena di Leonardo, conosciuta con un nome ancor più suggestivo: il Cenacolo Vinciano. Com’è noto, bisogna prenotare in largo anticipo, arrivare una mezz’ora prima ed entrare con un gruppetto attraverso alcune camere a specchio, in un’attesa pensosa e silente. Sappiamo della tecnica lievemente sbadata di da Vinci (era uno sperimentatore), le crepe e le scrostature ad affresco appena realizzato, i restauri — l’ultimo, imponente di Pinin Brambilla —, il viso femminile di Giovanni (che sia un aver accolto in anticipo la Madonna fra i suoi beni?) e tanti altri particolari. Sappiamo del passo evangelico (Gv 13: 21-26) a cui è riferibile il momento del décor: Gesù dichiara con commozione che qualcuno lo tradirà e gli apostoli «si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse». Nonostante la concitazione, è mirabile l’ordine che si respira. Mt 26,17-35 aggiunge un particolare importante: «Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: “Sono forse io, Signore?”». Gli atteggiamenti degli apostoli si dividono in due correnti: quelli che si guardano cercando di capire di chi stia parlando; quelli che dicono “Sono forse io?”. Quelli che aspettano il colpevole e quelli che si sentono colpevoli. Sappiamo tutto.
Non sappiamo — man mano che cresce l’attesa di incontrare Leonardo — cosa avremo davanti. Il fatto che sia restaurato forse ci esalta, con quell’aria un po’ retrò. Non sappiamo e continueremo a non sapere. Persino dopo averlo visto, dopo aver fissato gli occhi sul secco e sull’intonaco, essere entrati nel microclima che consente la sua conservazione. Dopo che la disposizione dei colori è stata uno shock per il nostro sguardo disabituato alla cromia esorbitante. Dopo aver sentito la campanella suonare. Essere usciti fuori, in strada. Tornati in albergo e il giorno seguente ripartiti per le terre avite. Abbiamo creduto di aver visto Gesù costernato mentre sta per afferrare il pane del suo eterno sacrificio, come dice Ungaretti in una magnifica poesia, «perennemente per riedificare/ umanamente l’uomo». Eravamo certi di non essere in nessun modo Giuda, mentre abbiamo ricevuto il boccone intinto nel piatto. Non avevamo dubbi su quale paesaggio si stagliasse dietro le tre finestre brunite da un crepuscolo crescente. Ma non era Leonardo che si negava a noi: era la nostra incapacità — persino in questi giorni di Pasqua — di fare attenzione, di capire a fondo (così come non abbiamo compreso quel presente oggi negato) che lì c’è, sempre con parole ungarettiane, «la sede appassionata/ dell’amore non vano».