Al tempo del coronavirus
La storia di Lara
Lara Garofalo è un'infermiera che, come tante colleghe, rischia il contagio dal virus sul lavoro. Ma è anche una fotografa che ha voluto raccontare per immagini la sua entrata in quarantena. Ecco le sue foto
Lara è piccola.
Lara è un fascio di tatuaggi e muscoli, biondi e verdi.
Si alza che è ancora buio, sono le tre e quaranta del mattino. Ha il turno delle sette e non può perdere il treno delle cinque e venti, se no le tocca arrivare a Tor Pignattara in macchina, spiegare a ogni posto di blocco che è un’infermiera, che va a lavorare, consegnare pile di autocertificazioni.
Lara non lascia nessuno tra le coperte, solo mozziconi intirizziti. Una doccia veloce, si veste, indossa la mascherina, i guanti di lattice.
Lara controlla che nella borsa ci sia tutto: l’abbonamento del treno Ladispoli-Roma, il badge magnetico di Oncologia, le sigarette, l’accendino e la sua Leica IIIf a vite. È una analogica a telemetro, di quelle con la pellicola, non le piace più fotografare in digitale. Le piace sviluppare le foto a casa, vedere le immagini che appaiono nelle vaschette come se le avesse create lei in quel momento. Da un po’ di tempo, quando scatta, non vede l’inquadratura, ma l’immagine come le apparirà nel liquido, quasi una manifestazione fantasmatica, un figlio che viene alla luce nel momento in cui lei decide di dargli vita, sgranato, sfocato, mosso.
Lara si sente particolarmente stanca, saranno i troppi straordinari, sarà che non ce la fa più a sommare le paure dei pazienti alle sue, sarà che si è stufata di sentirsi chiamare eroina e degli applausi a mezzogiorno, che intanto i turni non glieli toglie nessuno dalle spalle, dalla pelle.
Mentre attraversa il sottopassaggio della stazione, un colpo di catarro le esplode nel petto, la costringe ad appoggiarsi alle mattonelle luride.
“A rincojonita, e levete da mezzo” la ragazza la spinge di malagrazia. Lara si vede danzare davanti la sua schiena di pelle, istoriata con la risata di un teschio, del virus irridente. Le piacerebbe sparargli. Fruga nella borsa, gli punta addosso la Leica e scatta.
Le piacerebbe prendere un caffè alla torrefazione a piazza della Marranella, anche se di prima mattina i cinesi non hanno ancora scaldato la macchina a dovere e il caffè sa di sangue freddo. Ma il bar è chiuso da tempo, i cinesi se sono andati a metà febbraio.
Il caffè glielo fa trovare, umido e sporco, la collega di Cardiologia. Escono a fumarsi una sigaretta nel piccolo parco delle Figlie di San Camillo. I rami degli alberi si stagliano spogli nell’alba, sembrano polmoni infetti. Lara tira fuori la Leica e scatta.
Non riesce a finire la sigaretta, i colpi di tosse gliela fanno saltare dalle labbra carnose. La collega le passa materna una mano sulla fronte.
“Tesò, tu te ne torni bella bella a Ladispoli. Anzi prima se famo un tampone coi controcazzi”.
“Ma i miei pazienti?”.
“E che so’ tuoi? Che li hai comprati al supermercato?”.
Per tornare a casa, Lara deve passare davanti all’Eurospin, la fila è molto lunga, uomini, giacche a vento e carrelli. Tutti a distanze rigorose. Lara punta la Leica e scatta.
Non riesce a non pensare ai suoi pazienti fragili, in fila, in attesa, in Oncologia si attende la speranza, ma poi arriva altro.
Pensa a chi ritroverà in reparto quando finirà la lunga quarantena che l’aspetta. La fronte le scotta, ma prima di chiudersi in casa, vuole andare a vedere il mare.
Si ferma di fronte alle palafitte di stabilimenti smontati, in attesa di un’estate bianca e libera da contagi. Le geometrie delle attese sono tutte uguali. Lara scatta e scattando si chiede a che livello arriverà il mare, se travolgerà quei pali anneriti dal limo o si ritirerà placido e condiscendente.
Attraversa la strada e vede un cartello di attenzione, potrebbero passare animali selvatici, le viene da ridere “Qui a Ladispoli?”. Però quel cervo sospeso lo vede già apparire nella vaschetta di sviluppo, sospeso come la sua libertà prossima alla negazione. Le sembra un simbolo della libertà collettiva, inchiodata a un palo di emergenza, a una contingenza che si preannuncia lunghissima.
Scatta, Lara, scatta, e scattando allontana il futuro di notti inquiete, di lenzuola strinate dall’ansia, dall’attesa dell’esito del tampone.
Contrastando il catarro, respira l’aria bagnata di sale e cerca con il volto un sole che non c’è. Sorride, Lara, pensa alle foto da sviluppare dentro alla sua Leica.
Tanto il tempo adesso non le mancherà.
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Le fotografie sono di Lara Garofalo