Verso i 700 anni dalla morte
La politica di Dante
Sempre fedele ai suoi principi morali, grande affabulatore, leale ai suoi "protettori". Ritratto di un politico assolutamente inusuale: Dante Alighieri. Ecco perché la sua parabola civile è importante (quasi) quanto quella poetica
Il Consiglio dei Ministri, interessandosi per una volta di Arte, nel presente caso di poesia, ha istituito il “Dantedì” (giorno di Dante), individuandolo nel 25 marzo, giorno che si presuppone nel 1300 (la data non è certa), il poeta abbia dato inizio al cantico dell’inferno della sua “comedia”. Va inoltre rammentato che il prossimo anno – 20 settembre 2021 – ricorreranno i 700 anni dalla morte del sommo poeta e che, da oggi sino al prossimo anno, sarà compito degli esperti (storici e letterati) cimentarsi con la figura di Dante; né dovrebbero mancare (almeno si spera, visto che per Leonardo ci ha surclassato la Francia) delle celebrazioni adeguate all’immensità di un poeta e di un uomo che rappresenta, nel mondo, il più grande degli italiani.
Fatta questa doverosa premessa e non volendo, ci mancherebbe, esprimermi sulla poesia dantesca, è mio desiderio, invece, porre un brevissimo accenno a quella che fu la vera, chiamiamola così, professione di Dante: la politica. Infatti, nel Medio-Evo, la poesia, qualunque fosse la professione perseguita, faceva parte del bagaglio culturale e delle esercitazioni dell’anima di un uomo colto, ottima abitudine coltivata soprattutto fra la gioventù di un certo lignaggio, e che, oggi, verrebbe definita un hobby sia pure di altissimo livello.
Tornando a Dante, egli apparteneva ad una famiglia abbiente, con ascendenze aristocratiche sia pure non di primissimo piano; sull’argomento la sua famiglia amava vantare origini romane ma alla fine, tra gli avi accertati, gli Alighieri disponevano solo di un cavaliere che aveva partecipato alla seconda crociata.
Aristocrazia o meno, in Firenze, dalla famiglia degli Alighieri, come detto, famiglia dell’alta e più che agiata borghesia (il padre era un cambiavalute e pare, ma potrebbe essere un pettegolezzo dei nemici, a volte anche un usuraio), nasceva, tra il maggio e il giugno del 1265, Durante, figlio di Alighiero degli Alighieri, anzi Durante Alagherii de’ Alagheriis che sarà poi, per merito di Boccaccio, anni dopo, chiamato semplicemente Dante Alighieri. Nell’infanzia, Durante, come tutti i pargoli delle famiglie per bene, viene affidato, per l’educazione e lo studio, al solito “Doctor puerorum” (maestro dei fanciulli) per, di seguito, frequentare anche le cosiddette Arti liberali (quadrivio e trivio) assorbendo, visti i risultati, una buona preparazione. A determinare, però, la sua costruzione culturale e politica fu, in anni adolescenziali, il suo incontro con ser Brunetto Latini, uomo di grande spessore culturale e già ambasciatore in Francia, e che, con ogni probabilità, ebbe ad avviarlo anche all’arte della politica.
Giovanissimo, essendo vicini di casa, Dante ha il suo fatale incontro con Beatrice Portinari di appena nove anni (Dante era di pochissimo più grande) e dopo un solo sguardo, il giovane, restando incantato dalla sua grazia e forse dalla sua non usuale bellezza, per la malia che gli ebbe a provocare, rimase, a fortuna dei posteri, segnato per tutta la vita. È probabile che i due non ebbero mai modo di parlarsi e ciò non deve di troppo meravigliare poiché, nel basso Medio-Evo, le donne di un certo lignaggio non potevano essere importunate per la via e nemmeno altrimenti. Infatti, le fanciulle vivevano più o meno una condizione da recluse, in attesa di un matrimonio che, combinato, quasi sempre per interessi di famiglia o quant’altro, le rendesse almeno padrone di una casa, con qualche facoltà di movimento. Prima, invece, non era neppure ipotizzabile che parlassero con degli estranei; solo in prossimità del matrimonio, veniva loro concesso (se pure) di conoscere e parlare con il promesso sposo. Pertanto, vuoi o non vuoi, Dante molte occasioni d’incontrare e parlare con Beatrice, non avrebbe potuto averne… la poteva solo sognare, cosa che fece per tutta la vita.
Da giovane colto, verso i 18 anni, Durante, compone due poemetti e non manca di partecipare vivamente alle appassionate discussioni dei, definiamoli, circoli letterari e poetici che, in quegli anni, si tenevano a Firenze, tutte vertenti su due cosiddette scuole di pensiero: i sostenitori (fonderanno a Firenze una scuola siculo–toscana) della poesia di “scuola siciliana”, con tematiche amorose provenienti dalla lirica provenzale, una poetica professata anni prima alla corte di Federico II (il cosiddetto Stupor mundi) e altri, quali il poeta Guido Cavalcanti, sostenitori, sempre a Firenze, dell’avanzante “stil novo”.
Dante (da questo momento lo chiameremo così), è affascinato dal Cavalcanti, del quale si professa estimatore e amico e, perfezionando le tesi e le rime di questo poeta, diverrà, in seguito, il vero creatore della lingua italiana, allora definita “volgare”. A detta lingua (un latino deteriorato), la denominazione di volgare proveniva da quanto, si dice, venisse primariamente parlato a Capua e dintorni, appunto dal volgo.
A quindici anni, e la cosa non deve aver fatto piacere a Dante, Beatrice viene data in sposa a Simone de’ Bardi, mentre lui, raggiunti i venti, si sposerà con Gemma Donati, matrimonio che, pare, non debba essere troppo riuscito… e c’è da crederci! Come poteva, la povera Gemma, durante tutto il connubio, ritrovarsi sempre innanzi l’ingombrante figura (viva o morta che fosse) di Beatrice? Qualche protesta l’avrà pure avanzata. Comunque, dalle nozze, tra un sonetto e l’altro, ebbero a nascere quattro figli: tre maschi e una femmina. In contemporanea, Dante ritiene d’aver terminato la sua intensa preparazione per accedere alla vita politica, ma prima, come impongono le regole fiorentine, deve assoggettarsi ad una norma fondamentale che così recita: per assumere qualsivoglia impegno istituzionale occorre che si risulti iscritti ad una “Corporazione delle Arti e Mestieri”, ossia, a una specie di sindacato… esattamente il contrario di quanto viene imposto oggi.
A proposito di politica e cariche istituzionali va anche sottolineato come, a prescindere dell’appartenenza ad una corporazione, a Firenze e altrove, quanti desideravano accedere alle forme di governo della città, essendo ritenuta la “res publica” (cosa pubblica o attività politica) un fatto estremamente serio, a somiglianza di quanto avveniva nella società romana (basti pensare a Cesare, Germanico o l’imperatore Claudio), l’aspirante politico doveva dimostrare di possedere un bagaglio culturale notevole e magari anche una levatura morale (ma quella in tutti i tempi è sempre rimasta un optional). Comunque, il buon Dante, scelse d’iscriversi alla Corporazione (in Toscana chiamata “Arti”) dei Medici e Speziali; ovviamente non era né un medico e neppure uno speziale ma, avendo nel trivio studiato fisica e nozioni di chimica, forse ritenne di poter affermare di avere qualche nozione in quest’ultimo mestiere.
Fra un’aspirazione politica e l’altra, Dante porta avanti il componimento de’ la Vita nova (“Vita nuova perché rinnovata dall’amore”), un insieme di poesia e prosa che, iniziato a diciotto anni (avrà termine nel ’93), riassume la sua vita e soprattutto, il suo amore per Beatrice. Famosissimo l’incipit del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand’ella altrui saluta, che molto deve ai cantori provenzali (esiste un canto molto simile composto cento anni prima). Ugualmente, il componimento si esprime rifacendosi ai cosiddetti razos (ragioni iniziali), propri appunto della poesia provenzale, la quale inizia sempre con un’esposizione di quanto si andrà dopo a narrare. Va osservato che Dante, nel suo amore per Beatrice, in certo qual modo, si pone in diretta competizione con le sue già professate idee poetiche. Infatti, egli, seguace del “dolce stil novo”, una poesia che, detta in soldoni, quando parla d’amore lo fa spesso dando anche un senso concreto a questo sentimento; poetando, invece, sul suo amore per Beatrice, egli percorre la via dell’amore sublimato rispondente, in massima parte, alla concezione dell’“amor cortese” (un’amata irraggiungibile), cantato dai “trovatori” della poesia provenzale, lingua che Dante conosceva.
E allora? Dante era un seguace dell’amore sublimato dei provenzali o delle rime, in fatto di amore, a volte intime e dolorose, del dolce “stil novo” del Cavalcanti? Mah! Importanti restano le sue rime.
Nel frattempo, ad appena 24 anni, fra il 1290 o ‘91, muore Beatrice e il disperato Dante sente il bisogno, per filosofeggiare sul mistero della vita e della morte, di andare a frequentare lezioni di filosofia presso i Domenicani di Santa Maria Novella.
Poesia a parte, nel 1290, Dante inizia pienamente l’attività di politico assumendo varie cariche, da quelle militari alla partecipazione ai vari Consigli cittadini, sino ad essere eletto nel consiglio dei Cento (specie di Parlamento), con l’incarico, essendo si presuppone un ottimo affabulatore, di far parte delle varie ambascerie inviate da Firenze in altre città. Nel 1300 diviene, carica importantissima, uno dei sette priori di Firenze.
Purtroppo, in merito alla sua attività politica, occorre subito dire che, per sua sventura, non fu un opportunista, anzi fece il grande affare di mettersi dalla parte sbagliata. Infatti, fra le due fazioni di Guelfi (seguaci del papa) e i Ghibellini (seguaci dell’imperatore), Dante aveva scelto, sì, di stare dalla parte del papa, ossia era un guelfo, ma, essendosi, costoro, divisi in due parti: guelfi neri (sostenitori dell’aristocrazia) e guelfi bianchi (di chiara matrice popolare), Dante parteggiò per quest’ultimi, scontrandosi, subito, con Papa Bonifacio VIII (nella foto), che poi, per vendetta postuma, scaraventerà all’inferno. Detto Bonifacio VIII, rappresentava per Dante il massimo esempio dell’imperante malcostume della Chiesa e del quale, vizi a parte, non condivideva neppure la politica. Le cose peggiorarono ulteriormente allorché, in Firenze, le fazioni dei bianchi e dei neri, decisero d’azzuffarsi violentemente e il papa, con la scusa di voler sedare i tumulti cittadini, inviò a Firenze il cardinale Matteo d’Acquasparta, cosa ritenuta da Dante una pesante e illecita ingerenza. Per ridimensionare il papa e il suo inviato, Dante e gli altri sei priori decidono, onde a parer loro dare una lezione esemplare, di firmare un provvedimento di esilio per i capi delle due fazioni: otto esponenti dei guelfi neri e sette dei bianchi, fra i quali proprio l’amico poeta, Guido Cavalcanti.
In sintesi, provvedimento più deleterio Dante e gli altri priori non potevano firmare, in quanto, così facendo, ebbero, è il caso di dire, il genio di mettersi contro bianchi e neri. La cosa finì per irritare tutti e Bonifacio VIII, filo angioino, prese subito l’occasione, scatenando le ire soprattutto dei guelfi bianchi, di chiamare il conte Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV, detto il bello, affinché entrasse in Firenze per sedare, con l’esercito, i tumulti, o meglio, per… conquistare Firenze.
Giunti in quel punto, la Repubblica fiorentina, cercando di bloccare il papa e trovare magari un accomodamento, per fare cosa opportuna, invia subito a Roma un’ambasceria della quale fa parte anche Dante. Ma, proprio come da lui previsto, il Valois, prendendo a pretesto uno dei soliti tumulti, decide di mettere a ferro e fuoco la città e con un colpo di mano impone, nella carica di potestà, Cante Gabrielli da Gubbio che, come voleasi dimostrare in fatto d’imparzialità del francese, apparteneva alla fazione più violenta dei guelfi neri. Purtroppo, sbaragliati i guelfi bianchi, la città è ora completamente alla mercé dei guelfi neri che, senza perdere tempo, trascinano a processo i rivali politici, fra i quali Dante degli Alighieri. Con una serie impressionante di accuse, compresa la pederastia, che pare Dante non abbia mai praticato, l’Alighieri viene condannato all’esproprio di tutti i beni e al rogo; trovandosi, però, a Roma, la condanna è in contumacia e il poeta, fortunosamente, riesce a scampare alla morte.
Da qui, si deduce l’“obiettività” dei processi politici in ogni tempo e luogo!
Per il poeta, dolorosamente, si apre la via di un lungo esilio che, nonostante alcuni tentativi, non gli consentirà di più rivedere Firenze. Nel corso di un soggiorno presso i Conti Guidi, il 25 marzo del 1300 (la data non è certa), Dante, avendo forse molto tempo a disposizione, inizia il primo cantico dell’inferno per la sua “comedia” (allegoria del viaggio degli umani verso la salvezza). Sempre esule, nel 1310, pur non essendo Ghibellino, con la speranza di rientrare in Firenze, si schiera con l’imperatore Arrigo VII che, sceso in Italia, il poeta incontrerà personalmente. Per disgrazia nel 1313, a Buonconvento, muore improvvisamente l’imperatore e Dante, per forza di cose, abbandonate le speranze, deve riprendere il suo peregrinare. In ogni caso, per merito della conquistata solida fama di politico, è un esiliato di lusso, sempre ben accolto fra i grandi signori del tempo, ad iniziare dai Della Scala di Verona che spesso lo invieranno quale ambasciatore nelle vicine corti.
Nel 1318, Dante, per motivi non del tutto noti, lascia Verona, per trasferirsi con due dei suoi figli maschi (la femmina era entrata in convento), presso Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna, appassionato delle Arti e lui stesso poeta. In questa città, Dante apre un cenacolo letterario, frequentato anche dai figli e, come dire, riesce a godere di una certa pace. Purtroppo per lui, apertosi un conflitto fra Ravenna e la Repubblica di Venezia, che vede l’Ordelaffi, signore di Forlì alleato dei veneziani, il da Polenta, memore dell’amicizia di Dante proprio con l’Ordelaffi, lo invia, in qualità d’ambasciatore, a trattare la pace con Venezia.
Dante non è più giovanissimo (ha 55 anni, tanti per il tempo), ma è ancora un abile politico e ottiene, nonostante che il torto fosse dei ravennati che insidiavano le navi della Serenissima, la pace. Al ritorno, il poeta o meglio il politico, presso le paludi di Comacchio, trova ad attenderlo l’ultimo appuntamento della sua travagliata esistenza; contrae la malaria e, subito dopo il suo rientro a Ravenna, nel settembre del 1321 muore. Il compianto dell’intera città è grande e Ravenna, quando i fiorentini rivendicheranno i resti del poeta, gelosamente risponderanno che, non avendolo, essi, amato in vita, non lo meritano in morte.
Fatale, dunque, al sommo poeta, fu la sua “professione” di politico ma possiamo anche ipotizzare (solo ipotizzare) che, senza l’ingiusta condanna, se fosse rimasto a Firenze, continuando, per così dire a tempo pieno, la carriera politica, forse non avrebbe mai avuto il tempo di scrivere la Comedia, poi definita “divina” da Boccaccio (nella foto). Fattosi è che, per Dante, fare il politico fu una gran disgrazia ma, se poi il dolore dell’esilio divenne, per lui, motivo anche d’ispirazione, noi posteri non possiamo che benedire le sue sventure, avendoci, esse, donato di godere i frutti del più grande miracolo dell’ingegno poetico di tutti i tempi.
Infine, ci piace pensare che, essendoci, come da lui descritto, inferno, purgatorio e paradiso, a sollevarlo dalle pene e, ancora una volta, ad accompagnarlo nel suo estremo e non più solo poetico viaggio, alle porte del paradiso ci sia stata la sua Beatrice, poiché, di qualunque peccato si fosse, in terra, reso responsabile il politico e l’uomo Dante, avendolo meravigliosamente cantato questo paradiso, il buon Dio, nella sua pietà, non gli avrebbe mai potuto negare il dono di compiutamente farne parte.