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La Mela di Hockney
Nel "tuffo" di David Hockney non c'è solo la sospensione del tempo; c'è anche il ritratto concentrato dello spirito di una città, New York. Proprio quella che oggi, ferita come noi, rappresenta un sogno (quasi) impossibile
In questi giorni di reclusione, mi sono trovato ad azzerare il traffico dati disponibile sul webcube prima della fine del mese, bruciato soprattutto dalle videolezioni di mia figlia, che quest’anno ha la maturità. E perciò addio streming, addio Netflix, addio Amazon Prime, addio Raiplay…
Come riempire le serate in famiglia, sfuggendo alle croste da Giletti, ai birignao gruberiani e alle ansie da Ranucci? Come scansare il bombardamento quotidiano di morti- contagiati-tamponi? Ho proposto una maratona dvd de I Soprano, una delle più belle serie televisive dedicate alla mafia che siano mai state prodotte e con un protagonista, Jimmy Gandolfini, sublime.
«E poi – ho detto a mia figlia – è merito tuo se ho scoperto i Soprano: appena nata, riuscivi a dormire solo in braccio a me; così passavo le notti davanti alla televisione a guardare la serie che Canale5 mandava in onda verso mezzanotte» (si mormorava che Berlusconi avesse deciso di farla trasmettere fuori orario perché i giornali americani lo paragonavano al protagonista, Tony Soprano).
Un tuffo nel passato, un tuffo nella piscina di casa Soprano, dove le anatre hanno deciso di allevare la prole: quando le anatre volano via, Tony, che le aveva seguite dalla nascita al decollo, cade preda di attacchi di panico. E così, decide, lui, il capomafia del New Jersey, di andare in psicoterapia. E quando scopre a casa della sua amante russa, la sua goommah, una copia di A bigger splash di David Hockney rimane inebetito a guardarla. Quella piscina celestissima, come l’alcova delle anatre, dove campeggia solo uno spruzzo d’acqua. Con uno di quegli sguardi da stolido idiota per cui era famoso Gandolfini, il boss biascica alla sua goommah: «Cosa ti ricorda questo quadro?». «David Hockey» gli risponde la russa.
Chissà se si sarà sentito storpiare così il cognome l’inglesissimo, raffinatissimo Hockney, quando arrivò nella Los Angeles dei beceri cinematografari a metà degli anni ’60. Una Los Angeles che lui pure amava, con le sue rampe autostradali che svettavano nel cielo arso. «Mio Dio! – aveva pensato – questo posto ha bisogno del suo Piranesi: Los Angeles dovrebbe avere il suo Piranesi, eccomi!».
E a guardare la famosa piscina di Hockney, un’enorme Polaroid di acrilico asciutto, quasi acido, non ci sono dubbi che ci troviamo a Hollywood: case basse, vetrate, acqua artificiale, palme altissime, sedia da regista al termine della linea trasversale e quasi oscena del trampolino; e questa, assieme ai confini del bordo vasca, alle geometrie di piante ed edifici, ai bandoni della cornice, ci rimandano immediatamente a un’inquadratura possibile, al frame di un tuffo incollato nel tempo, alla sparizione del protagonista nel cloro piastrellato.
C’è chi sostiene che A bigger splash rappresenti la fine di un amore del pittore, l’abbandono del suo partner, e che i richiami sessuali siano evidenti nel trampolino e nello spruzzo, nelle «palme falliche con i loro peli pubici sbiaditi dal sole». E chi sostiene che lo spruzzo, meticolosamente realizzato con miriadi di piccole pennellate, con un acrilico che si asciugava immediatamente, sia la risposta beffarda di Hockey agli strati di olio degli astrattisti allora di moda, alle loro eiaculazioni su tela.
Io so soltanto che io e Corinna ne fummo immediatamente catturati, proiettati sott’acqua, quando vedemmo il quadro esposto in un’antologica al Met nel 2017, mentre per le sale del museo impazzavano i festeggiamenti del Capodanno cinese. E di come quel Capodanno fosse foriero di una tempesta di ghiaccio che, di lì a pochi giorni, ci avrebbe bloccato a New York, impedendoci di tornare in Italia.
Dai grattacieli si staccavano uova di gelo che le raffiche di vento proiettavano al suolo, sfondando parabrezza e vetrine, poveri involti di homeless e visiere borchiate di portieri immarsinati a ridosso di Central Park. I segnali stradali grondavano pinnacoli trasparenti, l’incrocio tra la Madison e la Quarantaduesima era un pantano di diamanti grezzi, le lenti di Cohen’s riflettevano lastre di madreperla, variegate dall’amaranto all’indaco. Le spirali di Lloyd Wright erano colme di blocchi di neve marrone e avevano trasformato il Guggenheim nella cacata di un tirannosauro. E quella tempesta di ghiaccio, come nel film di Ang Lee, ci era calata nel cuore, raggelandoci allegrie e sentimenti, spingendoci nell’angoscia lisa di un vecchio albergo di fronte alla Carnegie Hall, a consumare compulsivamente bollettini metereologici e a sprofondarci nell’angoscia di un tempo sospeso. Non sapevamo cosa ci sarebbe accaduto l’indomani, non sapevamo se saremmo riusciti a tornare a casa, alla normalità.
E questa sospensione malata, mi rimanda oggi alla mia Gotham City, cinturata da cordoni sanitari, da muri trumpiani di condanna alla cura di gregge, di decimazione della cultura, di angoscia dell’arte. Mi fa veramente male pensare alla Grande Madre di tutte le arti schiacciata dalla morsa del morbo.
Vorrei che potessimo tornare a vedere quel tuffo liberatorio di Hockney, quel tuffo senza tuffatore, quell’esplosione di gioia raggelata, proprio lì nelle sale del Met, non alla Tate. E vorrei ritrovare una libertà inaspettata e precaria, un giorno in più, non programmato e regalato, un’allegria folle da stemperare in scorribande da Katz’s, in piatti stracolmi di pastrami, brisket e pickles, in zampe di gallina brasate nella salsa di abalone da Tim Ho Wan, in ettolitri di Bloody Mary e Chicago Matchbox da Prune sulla Cinquantaquattresima. E nel viaggio sul traghetto di Staten Island: imbarcarci al suono dei led rossi, che scandiscono i minuti mancanti all’arrivo della prossima nave e il numero di posti disponibili, imbrancati in folle intirizzite e dagli afrori variegati, in attesa vibrante del trasbordo gratis al molo prospiciente il lato sud di Manhattan, a guardare i bar di South Street Seaport, i denti di Battery Park, i lupi del Financial District rimpiccolirsi sempre di più dal ponte del ferry.
Per questo vorrei tornare a vedere A bigger splash, una volta che tutto questo finirà. Questo rappresenta.
O forse invece rappresenta me adesso, in preda a una crisi di panico come Tony Soprano, ghiacciato tra linee rigide di potere in un gel di sviluppo Polaroid, costretto da sciabole malate di filibusta burocratica a tuffarmi dalla passerella in un’acqua artificiale acrilica – una piscina conclusa, forse infetta, non il mio mare – e di me non resti che l’arabesco di uno spruzzo.
Cosa ci sarà sul fondale piastrellato non è dato sapere. Se quel tuffo sarà uno sprofondo da annegato o sarà un carpiato liberatorio, un passaggio di dimensione, un nuotare sommerso verso raccordi segreti di acque, come quelli raccontati da Melville, un immergersi verso altri approdi, verso la fonte Aretusa, giunto d’amore tra una ninfa e il suo dio fiume, verso la fonte dell’eterna giovinezza di Prete Gianni, superando le Terre Oscure d’Abcasia.