Diario di viaggio del 1960
La luna di Abu Simbel
In treno per Assuan per proseguire verso i magnifici templi di Abu Simbel, prima che siano sommersi dal Lago Nasser... Istantanee da un mondo apparentemente lontano, che dovrà ritrovare un contatto migliore con la storia e la natura
Il treno, il Nilo e i grandi Templi di Abu Simbel. Era il plenilunio del gennaio 1960 ed io, all’epoca venticinquenne, assistente di Scienza delle costruzioni del professor Franco Levi, ebbi l’opportunità di aggregarmi a un viaggio in Egitto programmato da archeologi, professori e ingegneri del Politecnico di Torino. Uno degli scopi del viaggio riguardava l’esame dei progetti per il sollevamento degli imponenti templi di Ramesse II ad Abu Simbel intesi a salvarli dalle acque del Nilo che li avrebbero sommersi con il gran lago Nasser a tergo della nuova diga di Assuan. La diga stava per sorgere e noi volevamo anche visitare l’importante cantiere che era condotto dai russi.
C’era con noi un archeologo ingegnere molto anziano, Luigi M, che aveva partecipato alle campagne di scavo di Ernesto Schiapparelli dal 1904 al 1906 per il Museo Egizio di Torino, scavi entrati nella leggenda.
Oggi, spesso, mi trovo a fantasticare su quell’avventura iniziata con il viaggio su un mitico treno che portava a Luxor, Kòm Ombo e Assuan, dove avremmo preso il battello per Abu Simbel. Era un treno coloniale in legni pregiati, lo “Star of- Egypt”, e i portatori spiccavano coi loro fez rossi: eravamo partiti dalla stazione del Cairo in mezzo a una folla multicolore tra fumi di locomotive, fischi e odori di spezie sotto le grandi tettoie di ferro. Le vetture erano antiche e sferraglianti, dalle connessure entrava un po’ di sabbia, ma erano stupefacenti di legni di teck chiaro e lucidi ottoni; all’esterno le carrozze letto e quelle ristorante erano contraddistinte da una livrea color crema/panna e marrone, all’interno le vetture ristorante erano divise in salottini che, all’ora di pranzo e a cena, come per magia si aprivano a creare dei saloni dove si serviva tè alla menta e vivande esotiche su servizi d’argento con lo stemma della “Compagnie internationale des Wagon lits”; il personale indossava la storica livrea.
Dai finestrini, tra gli sbuffi della locomotiva, scorgevo molto spesso il grande fiume Nilo e sulle rive le poche casette spesso così lavorate dal vento da sembrare dei massi caduti lì per caso: mi ero messo a schizzarle su un taccuino insieme ai pozzi con i buoi o più spesso con asini alla ruota della noria, quegli asinelli bendati che inseguono in un eterno moto circolare le proprie orme nella gracile ombra di mazzi di palme; qualche gruppo di bovini compariva ogni tanto con aspetto che mi ricordava il divino Toro Api che avevo visto all’Egizio di Torino. Più lontano dalle rive del grande fiume compariva solo sabbia con qualche striscia di misero verde e mi stupiva quella aridità sterile anche dove la terra era lambita dall’acqua evidentemente priva del limo fecondatore, quello di Erodoto; poi compariva qualche palma simile a un’erba gigantesca che riusciva, chissà come, a rinnovarsi ogni anno in datteri gialli, rossi, marroni.
* * *
Incredibile quel mitico fiume: dopo le fascinose cateratte, defluisce, avviandosi verso il Mediterraneo, mosso da soli 40 metri di dislivello; sarebbe bastata una valletta profonda 50 metri, una spaccatura di quella landa deserta per farlo girare a fluire nel vicino mar Rosso, e addio alla civiltà per l’Europa così importante imperniata sul Mare Nostrum.
Nel gran salone del treno parlavo, specialmente la sera, meno distratto dal panorama, con l’anziano ing M., sorseggiando bevande nuove. Luigi era di bassa statura, mingherlino, simile ad Ardito Desio, simpatico e gioviale con loquela discreta ma di grande apertura culturale e umana, e così mi diceva del significato simbolico delle piramidi egiziane e del valore del libro dei Funerali e dei Morti per gli antichi Egizi.
Il treno, dopo alcuni giorni di intrigante viaggio tra smaglianti luci solari e incanti di luna piena, ci sbarcò ad Assuan, dove solleciti portatori dalle ampie galabie bianche e il fez rosso ci portarono all’Hotel, l’unico importante: era ancora una struttura dell’epoca coloniale, un po’ decaduta ma piena di fascino. Non c’erano stanze singole per tutti e così avevano deciso di riservare la suite più importante dell’albergo, già frequentata da principi e dal Gran Tour, al signore anziano da condividere con il rispettoso giovane collega.
Sul terrazzo della suite, con le luci specchiate nel Nilo, proseguivamo le chiacchiere ora sui cibi ora sul sociale rifacendoci alla storia e alle nuove esperienze come quelle del viaggio sul treno da cui eravamo appena discesi… Sul treno avevamo incontrato il vescovo copto di Luxor che parlava anche italiano, un uomo alto e decorativo, con la gran barba e il tipico copricapo: ci aveva indirizzato anche a visitare alcune comunità monastiche e così a Denderà, se ben ricordo, parlammo con un frate esorcista. Ci disse che aveva appena scacciato un diavolo da una ragazza e che belzebù era scappato, manco a dirlo, dal sesso della fanciulla… e ci aveva fatto vedere anche le prove: un gradino bruciacchiato, degli anelli contorti dal calore delle fiamme dell’inferno, opera del Demonio…, di certo confinato nell’Alto Egitto.
Ma eccoci alla meta principale del viaggio, Abu Simbel. Ci arrivammo su un battello anch’esso di epoca coloniale, poco più grande di un peschereccio e costruito in Inghilterra. Davanti ai templi-santuario, voluti da Ramesse II nel XIII secolo a.C., guardavamo, seduti sulla barca alla fonda, i disegni, e parlammo a lungo dei progetti per sollevare le opere e preservarle dalle acque via via più alte: le tecniche prese in esame erano diverse e fra di esse c’era quella del taglio della arenaria in blocchi enormi, specialità italiana dei marmisti di Carrara, che sarà poi la tecnica adottata con grande successo. Quel progetto mi stupiva e affascinava e mi pareva impossibile a realizzarsi e temevo che quell’opera rupestre grandiosa potesse essere rovinata.
Riandavo di continuo a quello che stavo vedendo, stupito in una quasi timorosa visione, e mi intrattenevo sulla spiaggetta antistante ai templi, che visitai più volte meditabondo approfittando che il luogo era pressoché deserto: ammiravo da vicino quei due enormi templi scavati in roccia rosa di luce, fascino su fascino, che all’alba e al tramonto restituiva all’acqua e ai nostri volti riflessi colorati. E parlammo nello sciacquio del fiume e, alla gran luce della luna del plenilunio, della geologia della catena Orientale dell’Egitto, ma soprattutto di fatti legati agli antichi scavi nelle atmosfere quasi magiche del sentimento religioso degli antichi Egizi e Luigi riandava a quei momenti, incredibili e sconcertanti vissuti all’apertura della tomba della regina Nefertari, la “Sposa reale” del grande Ramesse II, il cui nome significa “la più bella”, e di quella intatta dell’architetto Kha avvenuta nella necropoli di Tebe ed ora a Torino.
Erano momenti intensi di avventura e carichi di enigmi e i pensieri oscillavano tra ammirazione e timore reverenziale, e ci sorprendevamo a indugiare sui misteri di un aldilà disvelato. L’anziano signore raccontava pianamente, in quella luce che pareva emanare dall’interno del gran tempio, senza enfasi, quasi ancora affascinato e rispettoso di quel passato e si animava ricordando l’avventura dinamica vissuta con quel grande personaggio che era stato Ernesto Schiapparelli, poliedrico umanista filantropo che aveva spaziato nei suoi studi dall’antichità ai problemi del popolo egiziano e delle missioni laggiù, terra dove si era già impegnato anche con incarichi pubblici importanti il suo predecessore, il grande Bernardino Drovetti, torinese, console di Napoleone e mitico collezionista di reperti e grandi statue ora a Torino.
Il confronto con i progetti di sollevamento, aperti sul battello, erano a fronte della facciata del tempio: scavato nella rupe dal Nilo sembrava connaturato ad essa con la sua estensione di 33 metri per 38 e le quattro immense statue del Faraone seduto. Riandavo di continuo col pensiero alle visioni che avevo avuto all’interno nelle grandi sale scavate in roccia, quella d’ingresso con i pilastri-statua di Ramesse, alte 11 metri, poi l’atrio e infine il santuario. Pur essendo gennaio, la luce del tramonto entrava profonda fino al fondo del grande spazio scavato nella roccia dove quattro divinità del Pantheon egiziano insieme a Ramesse sono rivolte, ci faceva notare Luigi, verso il sole: l’ultimo raggio del divino astro illumina direttamente il volto del faraone due volte all’anno, a fine febbraio e a fine ottobre, ricaricando di energia la sua figura, ma io vedevo già quella luce vitale e mi sentivo privilegiato ad essere lì.
L’ottantenne Luigi spesso si appoggiava al mio braccio e mi diceva di come il sito di Abu Simbel fosse stato riscoperto nel marzo 1813 dallo Svizzero Buckhard ma solo parzialmente, fino al ginocchio delle statue di facciata, mentre l’interno fu rivelato al mondo il primo agosto 1817 dall’italiano Belzoni che aveva osservato, dall’alto della rupe dove il tempio è scavato, delle lucertole che inopinatamente sparivano infilandosi sottoterra.
Anch’io decisi di salire sulla cima della gran roccia rossa (che verrà ricostruita più in alto di 65 metri e costituita da una ossatura in cemento armato) per vedere lungo la salita i volti colossali delle statue. Al tramonto con la guida di un ragazzino vivacissimo dalla galabìa svolazzante e il caratteristico copricapo a zuccotto, salii di corsa sulla cima del colorato torrione dove, all’interno, sotto, sono scavati i templi: mi arrampicavo all’inseguimento del sole per cogliere il tramonto nelle lontananze del deserto e nel succedersi dei suoi colori. Il vento soffiava e una sabbia finissima scendeva come rivoletti d’acqua tra le rughe della roccia e ripensavo alle lucertole di Belzoni e di come quella sabbia avesse nei secoli cancellato i templi seppellendoli. Vidi in visione inaspettata le 14 statue di babbuini che sorgono sul frontone del tempio che, mi dirà l’antico amico, guardano verso est, aspettando ogni giorno la nascita del sole, il dio RA, per adorarlo.
Le grandi Regine-Faraone Nefertari e Hatshepsut. Il tempio che sorge vicino a quello di Ramesse con pressoché pari dignità è dedicato all’adorata regina Nefertari, “Gran sposa reale”, per virtù politiche uguale a un faraone. Mi ritorna ora in mente con insistenza una pittura murale all’interno del tempio dove, in alto, come cornice a gran fascia di una sala quadrata, era raffigurata una figura femminile sdraiata su un lato, dal cui sesso esce un fascio di luce o raggio di sole giallo-arancio brillante che gira sugli altri tre lati … liberazione della potenza femminile da tutte le forme e vincoli fino a manifestarsi nella divina sintesi della creazione.
Ritornammo al Cairo non più col treno ma su battelli in legno ricchi di ottone britannico: navigammo più giorni dormendo la notte in auliche cabine: sul fiume antico comparivano vele bianche e, ad Assuan, una rossa, una sola, quella della Begun, la moglie dell’Aga Khan a quei tempi famosissimo in tutte le cronache mondane.
Il Nilo scorreva nella sua eternità e io riandavo al limo dei miei studi scolastici, quel fango fecondatore che ora è bloccato dalla diga che dona energia al paese, ma fa sì che l’acqua, derivata artificialmente, non riesca più a fecondare l’aridità delle sabbie e mi viene in mente di come cinque anni dopo il mio viaggio in Egitto, ancora alla luna piena di Gennaio, mi fossi trovato a Khartoum sul ponte sul Nilo in costruzione da parte di una impresa torinese e di come nei cassoni ad aria compressa delle fondazioni in approfondimento avessi visto e toccato, un po’ assorto, il limo profondo del letto del fiume. Quel limo era arrivato laggiù soprattutto dagli altipiani, quelli delle ambe etiopi, tramite il Nilo Azzurro, quel gran fiume che ben avrei conosciuto dirigendo il cantiere della strada in Etiopia cui ero diretto nel 1965 da Khartoum.
La prima sosta sul gran fiume fu al Nilometro dell’isola Elefantina vicino ad Assuan e all’antica Syene, nome da cui è derivato quello della sienite, una sorta di granito protagonista di templi, poi chiese e palazzi. il Nilometro è fatto di scale e pozzi studiati per misurare l’altezza delle piene del Nilo e poter così prevedere gli andamenti dei raccolti e… regolarsi per le tasse in base all’entità delle piene. Poi ci fermammo in più tappe per vedere la valle dei Re e quella delle Regine con le camere delle tombe, un po’ soffocanti per l’afa e la presenza della storia con il mito severo dell’aldilà. Poi a Karnak il tempio gigantesco alle cui proporzioni nuoce la trama delle colonne: il passo, l’intercolumnio, è corto rispetto alla grandiosità delle colonne immense perché il passo, la luce, sono quelli consentiti dalla resistenza degli architravi monolitici di pietra tra colonna e colonna. Poi ammirammo i colossi di Memnon sensibili al vento cui danno voce e le grandi statue sbrecciate tra seduzione e sortilegio del Dio Amon “Signore di ciò che è, permanente in tutte le cose” a Tebe ora Luxor.
* * *
Ma fra tutti i ricordi di architettura ricompare con mio stupore, insieme all’immagine di un Luigi pensoso e commosso, il gran tempio funerario della Regina Faraone Hatshepsut che lo eresse a Dein el Bahari di fronte a Tebe e all’ingresso della Valle dei Re. Proprio l’anziano archeologo aveva insistito molto perché ci soffermassimo su quel monumento ed aveva ragione: ero rimasto affascinato dalla classicità della costruzione che pare anticipare di un millennio le architetture classiche della Grecia. Quel tempio, già indicato come “Meraviglia delle meraviglie”, colpisce e incanta per il colonnato grandioso di perfetta armonia che conclude una serie di terrazze che un tempo ospitavano giardini lussureggianti; sono ricavate sul fianco di un alto rilievo roccioso che delimita la valle del Nilo e incombe a strapiombo su tutto il complesso. In quel gennaio la giornata era splendida e ancora oggi ho negli occhi quella meraviglia in un cielo amplissimo di un grande azzurro, indimenticabile, interiore.
Ad Assuan era stata concordata dal Politecnico una visita ai lavori della diga, ma i russi quasi quasi ci scacciarono e ci lasciarono vedere pochissimo. Il cantiere, pieno di militari armati, sembrava un campo militare in guerra.
Discendendo la corrente ci fermammo alla fonda a Philae e, sceso in una barca a remi, remai fino a sedermi su un affiorante capitello di un tempio, chino a guardare: infatti a quell’epoca era possibile osservare attraverso l’acqua trasparente del fiume (a gennaio non ci sono le grandi piogge degli altopiani etiopi) e vedere i cortili e le colonne sommerse a causa del primo innalzarsi delle acque per la diga di Assuan dell’inizio del ’900. Ma la nuova grande diga di Assuan appena iniziata sarebbe poi cresciuta e per evitare la sommersione definitiva i templi in quegli anni sessanta verranno smontati blocco per blocco, i tamburi delle colonne sollevati uno per uno e ricostruiti, rimontati, al disopra del livello delle acque sulla vicina isola di Agilkia, rimodellata per assomigliare il più possibile all’isola sommersa di Philae. (per il salvataggio furono cinti da una diga e i templi riemersero dalle acque con progetto eseguito dall’impresa italiana Condotte-Mazzi e finanziato del governo italiano).
Parlare del Cairo è troppo consueto: è storia complessa per il suo gran Museo e per le molte civiltà succedutesi e allora vive e vitali, che coesistevano in simbiosi: quella copta, la ebraica e quella araba con chiese frequentate e grandi importanti moschee. Dal mio albergo, alto e moderno per allora, prospiciente sul Nilo, dal roof garden, il panorama era aperto e chiaro, senza smog.
Un cenno non posso non riservare alla visita delle Piramidi: partendo dal Mena House Hotel, all’epoca lontano almeno cinquecento metri dalle piramidi, già nel deserto, isolate. Salii alle sei del mattino, veloce, sulla cima di quella di Cheope sfuggendo all’inseguimento dei ragazzini che volevano il bakshish in tutte le lingue, ma li lasciai contraddetti dicendo che ero “russian”.
All’insegna della danza. Non mi soffermo oltre sui giorni al Cairo ma non posso dimenticare una gita notturna di un’ora di auto nel deserto, oltre le piramidi, per vedere sotto una grande tenda la danza del ventre. A fine performance la giovane danzatrice improvvisamente si era seduta sulle mie ginocchia… certo ero il più giovane ed evidentemente il più imbarazzato.
Sì, e queste visioni sono un bel fantasticare sui ricordi che si allacciano ora, con un po’ di sorridente nostalgia, all’immagine di una mia flessuosa amica danzatrice, Alessandra, sicuramente imparentata coi gatti, quegli animaletti filoni, morbidi, accattivanti, a modo loro danzatori, ma pronti a graffiare.
Ora nel mio rifugio di Torino nella “Nivola”, la mansarda sui tetti, penso a lei e a quella danza antica dei sette veli nel deserto di sabbia, infinito, con sullo sfondo le Piramidi e la Sfinge e rivado con visione nitida al tempio della grande regina Nefertari, là, nel plenilunio di gennaio 1960 sulle rive ancora per poco incontaminate del padre Nilo, e rifletto su quella grande luce colorata nella stanza rupestre della regina che parla dell’eleganza e del sesso coniugati fra loro.
—–
Le immagini si riferiscono ai lavori per lo spostamento dei templi di Abu Simbel tra il 1964 e il 1968.