Visite guidate
La casa di Vermeer
Con Ungaretti come guida, addentriamoci nella quiete di Jan Vermeer e di quei suoi interni animati che sembrano le nostre case di oggi, in questa cattività che ci impone di entrare in contatto con le nostre cose quotidiane
Sto attraversando questo tempo sospeso da persona fortunata. Amo la casalinghitudine, la mia casa dove, da quando è scoccata l’età della pensione, trascorro molto del mio tempo intrattenendomi con varie attività che sono diventate ora vere risorse per affrontare, e auspicabilmente presto superare, la clausura forzata. In famiglia viviamo in armonia, ricavandoci ognuno il proprio spazio, accedendo in autonomia al personale kit di sopravvivenza. Premessa obbligatoria, questa, per spiegare il percorso della mia visita guidata. Che vuole essere un elogio dell’intimità domestica!
Ecco, vorrei proprio esaltare i meriti delle calde dimore che si sono offerte con tutte le loro virtù, spesso dimenticate o distrattamente trattate, a noi fortunati abitanti che se le sono trovate a disposizione, arrivando a proporsi come vero intrattenimento. Immaginate un cartone animato di Walt Disney, uno di quelli memorabili (La spada nella roccia, La bella e la bestia?), in cui gli oggetti si animano. Anche questo capita nella relazione che si può stabilire col dimorare: la percezione netta che ogni oggetto che ci circonda sia disposto ad aprire con noi un dialogo, a catturare la nostra attenzione in un momento o in un altro della giornata, anche a seconda della luce che filtra e lo colpisce, a suggerirci un ricordo, un luogo, una persona, una sensazione. Le stanze che ci contengono e nelle quali ci aggiriamo custodiscono archiviati i nostri anni trascorsi, e sono pronte a inventarsi con noi cambiamenti che ci parlano di futuro. Si rivela così una inedita possibilità: ascoltare la casa, entrare in silenziosa relazione con essa, che poi non è altro che essere in relazione con se stessi.
Maestro dell’ascolto silenzioso colto nella condizione del dimorare è Jan Vermeer. Pittore amatissimo al punto che una copia di una sua opera, Donna con la collana di perle, realizzata con perizia pittorica da Gianni Carino, adorna una parete del mio salotto. Vermeer è un artista che sin dalla sua biografia incarna quella semplicità, quella modestia essenziali alla percezione dell’intimità domestica. Nato e vissuto a Delft (1632-1675), dal poco che si sa di lui fu un rispettabile cittadino e un buon padre di numerosa prole. Cattolico in un’Olanda con tutt’altre preferenze religiose (si convertì prima di sposarsi con Catherina Bolnes), fu tuttavia eletto a capo della Gilda di San Luca, la corporazione di artisti e artigiani attiva nell’età d’oro nelle Fiandre e nei Paesi Bassi. Fu il critico d’arte francese Théophile Thoré-Burger a fine Ottocento il primo ad accorgersi della sua grandezza e a decretarne la fortuna critica che da lì in poi avrebbe sempre accompagnato la sua opera. Per Marcel Proust, che la vide all’Aja nel 1902, La veduta di Delft divenne «il quadro più bello del mondo», tanto che Bergotte, personaggio della Recherche, concluse la sua permanenza terrena aspirando alla perfezione di «quel piccolo lembo di muro giallo» che stava osservando in quell’opera.
Ma quale meta scegliere, quale quadro di Vermeer tra tutti e più di tutti si vorrebbe rivedere? Scelta impegnativa. Scarto a malincuore l’ipotesi di un viaggio oltreoceano, a Washington o a New York, dove sono custodite tele meravigliose. Vincere allora la resistenza da imputare alla poco amorevole disponibilità dimostrata dall’Olanda di Mark Rutte nei nostri confronti, e puntare su Amsterdam per recarsi al Rijksmuseum? Lì, dopo una sosta emozionata davanti alla Ronda di notte e alla Lezione di anatomia di Rembrandt, mi aspetterebbero, di Vermeer, la Lattaia, la Stradina di Delft, la Lettera d’amore, la Donna in azzurro che legge una lettera. Capolavori in un tripudio di interni, rappresentati o lasciati intuire: pareti sbreccate o piene di quadri o con imponenti carte geografiche; lucidi pavimenti, quelle lastre di marmo bianche e nere di cui osservare – come suggerisce Giuseppe Ungaretti – «l’assolutezza del colore… l’andirivieni, l’annuvolarsi, l’abbuiarsi», o quegli scorci di battiscopa in maioliche di Delft, un tocco di grazia nascosta. Donne intente, ognuna a tu per tu coi propri pensieri, con il suono della vita interiore. Ma potrei rinunciare alla visione della Ragazza con l’orecchino di perla conservata al Mauritshuis dell’Aja, a ricambiare il suo sguardo che accarezza il mio? E perché non la mia adorata Donna con la collana di perle che mi porterebbe alla Gemäldegalerie di Berlino?
Alla fine, un quadro si impone come sintesi dell’elogio che ho tentato di comporre. È ancora Ungaretti a orientarmi, attraverso le pagine bellissime dedicate al pittore di Delft e pubblicate sul n. 38 de L’Approdo letterario, in uno dei capitoli di Un anno di lavoro. Sarà La merlettaia a condurmi, quando riaprirà, al Museo del Louvre di Parigi. Sintesi del silenzio esterno che ci avvolge e di quanto ci risuona dentro. Simbolo «d’un raccoglimento al colmo del silenzio». «La Merlettaia – scrive Ungaretti – è china sul suo lavoro. È sguardo che si concentra, è assenza da tutto il rimanente che non sia quel lavoro, quel moto di dita che i fili annodano in trame leggiadre? Dita e sguardo non cesseranno mai di muoversi, di quel loro moto che si muove fermo per sempre. L’idea dell’infinità, d’una familiarità con il silenzio, solita, indissolubile e infrangibile; l’idea di un’esistenza immutabile, felicemente quotidiana, semplicemente semplice; l’idea di una solitudine tutta sola, e tutto il resto muto, questa è l’idea».
Eccoci, nelle nostre stanze, consegnati a un moto fermo, in un silenzio che risuona nelle nostre esistenze quotidiane…