«Mi prese subito in simpatia, Johannes, o sotto la sua ala protettrice, per così dire, mi parlò di Natascia, la compagna di viaggi e bevute ed esaltazioni cui aveva dedicato una poesia che avrebbe voluto leggere quella sera»
Riassunto: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella puntata precedente, il protagonista è stato convocato all’albergo Enalc di Ostia e ha conosciuto il primo dei poeti che tradurrà, Johannes Schenk.
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Ma non precorriamo i tempi. La conversazione con lo sconosciuto, che veniva da Berlino e si chiamava Johannes, prese il suo corso, lui volle sapere dei miei studi, io più che altro dei suoi viaggi, perché emerse subito che Johannes era un grande viaggiatore e anzitutto un marinaio, o viaggiatore in quanto marinaio, e questo produceva su di me, uno dei pochi giovani romani che neanche sapevano nuotare e che quindi di fronte al mare si sentivano irrimediabilmente a disagio, un certo fascino, accompagnato dallo stordimento che sempre ci coglie quando non riusciamo a misurare pienamente quello che ci separa davvero dalla vita di un altro, di un estraneo, vita di cui siamo chiamati a ricostruire il percorso in base a qualche limitato elemento, niente di definito, anzi il più delle volte una sensazione assai indeterminata che dovremmo cercare di ricomporre in un’immagine organica, e questo difficilmente riesce, ragion per cui non posso negare che quei lacerti della vita di Johannes, così come me l’andava raccontando in quel pomeriggio assolato, non mancavano di affascinarmi e anche un po’ d’inquietarmi, come sovente succede quando non comprendiamo appieno la portata di quanto ci viene narrato, e Johannes peraltro saltava di palo in frasca, da un continente all’altro, da una donna fatale all’altra, senza premurarsi di seguire un ordine cronologico o semplicemente logico, come se il semplice fatto di essere stato, o di essere tuttora, chissà, un marinaio, lo autorizzasse a prendersi delle libertà poetiche e narrative di cui non doveva render conto né al lettore dei suoi versi né all’interlocutore di un pomeriggio. Io lo ascoltavo, né potevo fare molto di più o di diverso, mi mancava ancora un anno al diploma, e a parte un viaggio a Londra e qualche spostamento in Germania a trovare i parenti – viaggi di rara noia e ripetitività – non potevo opporgli granché sul piano della vita vissuta, mi sembrava anzi già molto che stesse ad ascoltarmi fingendo interesse, ma forse era solo per il sollievo di aver trovato finalmente qualcuno che parlava la sua lingua, qualcuno che non fosse uno dei colleghi, Erich, Gerald o Volker, con cui doveva aver già esaurito gli argomenti da trattare, anche se poi ebbi modo di notare che almeno con l’ultimo, suo coetaneo, esisteva già una certa sintonia o perfino complicità, forse si conoscevano da prima, attivi com’erano entrambi sulla scena berlinese, mentre la stessa cosa non poteva dirsi per l’anziano Erich e soprattutto per Gerald l’austriaco, che in quei tre giorni e notti di follie avrebbe fatto vita a parte, più riservata e introversa. Mi prese subito in simpatia, Johannes, o sotto la sua ala protettrice, per così dire, mi parlò di Natascia, la compagna di viaggi e bevute ed esaltazioni cui aveva dedicato una poesia che avrebbe voluto leggere quella sera, o la sera successiva, a seconda del programma di cui ancora non si sapeva nulla, “Trattoria da Dante”, s’intitolava, e confidava molto, disse, nelle mie doti di traduttore, per rendere al meglio l’atmosfera di Venezia, la liquida umidità che gli sembrava ben rispecchiata in quello pseudoalbergo da quattro soldi, disse ridendo, “Natascia e io abbiamo visitato Dante”, cominciava la poesia, continuò, tirando fuori da una tasca sformata della giacca un libretto nero pubblicato a Berlino da Wagenbach, l’editore dei poeti alternativi, parlava di un Dante che gestiva, pensa un po’, una trattoria per poveri a Cannaregio, non il sommo poeta, dunque, ma non faceva nulla, anzi al contrario bisognava, leggendo, fare una pausa dopo il primo verso e mantenere l’ambiguità il più a lungo possibile, col pubblico romano avrebbe funzionato, ne era sicuro, e io gli diedi ragione, l’idea che Dante potesse anche essere un altro Dante, un Dante qualsiasi, un oste della malora, mi divertiva, pensavo ai miei amici del classico che ne sarebbero stati moderatamente sconvolti, e poi la poesia continuava parlando di vino torbido e spaghetti arrossati, ma sì, avrebbe funzionato benissimo, adesso ne ero convinto anch’io, senza riserve, e proprio mentre ci scambiavamo le nostre idee sui vari Dante che occupano l’immaginazione, fummo raggiunti da un altro membro della sparuta delegazione, il suo amico Volker, diverso da Johannes come Dante il poeta da Dante l’oste o come l’acqua dal vino, un suo coetaneo leggermente più alto e magro, quasi segaligno, con i capelli biondi corti e curati, l’aria aristocratica, il viso affilato e attento quanto quello di Johannes tendeva invece alla rotondità e alla placida contentezza. “Ecco il nostro poeta politico,” disse Johannes a mo’ di presentazione, e Volker abbozzò un simulacro d’inchino, lui il poeta moderatamente noto e affermato (ma almeno pubblicato) a me, semplice traduttore praticante, e occupò poi uno spicchio di sole accanto a noi, dove Johannes, notai, con la sua mole proiettava l’ombra, il posto migliore da scegliere, quindi, o senz’altro il più protetto. Parlavamo di Dante, disse Johannes, e poi continuò, recitando, “di Dante che ci versa ancora da bere e porta / a quel vecchio là una scodella di minestrone”, lo declamò in tedesco, senza perdere l’occasione di domandarmi come avrei reso l’atmosfera di estrema semplicità con cui sbeffeggiava qualunque tentazione aulica, e mi resi conto che Volker, senza partecipare al nostro dialogo, era però al tempo stesso molto interessato alle mie risposte, mi studiava con attenzione, senza l’immediata e aprioristica simpatia di Johannes, ma come se dovesse valutare quanto fossi in grado di conquistarmela, la sua simpatia, con quale rapidità e prontezza, perché anzitutto di questo si trattava, di un rapporto di lavoro che ai suoi occhi sarebbe durato tre giorni e per il quale bisognava muoversi nella direzione giusta, con il giusto passo, pena un inutile spreco di risorse ed energie. Intanto intorno a noi la scena si animava progressivamente, c’era un certo fermento, qualche giornalista dei grandi quotidiani cominciava ad arrivare, ad avvicinare poeti e organizzatori per assicurarsi dichiarazioni e interviste, qualche volto più o meno noto mi sembrò di riconoscerlo, anche se non avrei saputo accoppiarlo a un nome o cognome ben definito, e anche i miei nuovi amici cominciarono a guardarsi intorno con maggiore interesse, pensando forse che, malgrado le apparenze, erano pur arrivati nel posto giusto, per tre giorni quello sarebbe stato o si sarebbe autoconsiderato il fulcro del mondo letterario, di cui poi anche giornali e riviste di casa loro avrebbero parlato, sebbene il ritorno alla realtà debba essere stato deludente, visto che a parte un articolo dell’eterno Spiegel e un trafiletto sulla conservatrice FAZ, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, la loro presenza sarebbe passata nell’insieme abbastanza inosservata perfino in patria, sono le piccole o grandi disillusioni che fanno parte del mestiere di scrittore, ma tant’è, in quel momento dovettero avere come me l’impressione che qualcosa stesse succedendo, che fossimo al centro di un girone dantesco dedicato a tutte le vanità del mondo, col suo bel corredo di gazzettieri e scribacchini, e non aumentava solo la gente intorno a noi, aumentavano anche le loro ombre, e con quelle il minimo di frescura che creavano, e pian piano, il pomeriggio avanzando lento, con un venticello sottile proveniente dal largo che l’appoggiava, il fatto di essere lì fuori dall’albergo si faceva stranamente sempre più gradevole. Intanto Johannes mi aveva dato il testo delle sue poesie e io cercavo di raccapezzarmici, ma i miei riferimenti poetico-letterari erano decisamente diversi, non dico che fossi rimasto a Schiller o Goethe, ma di recente avevo letto Celan e ne ero rimasto davvero colpito, in ogni caso da tutti loro mi aspettavo una poesia più sottile e allusiva e anche più difficile da rendere, lo ammetto, mentre i versi di Johannes non consentivano quasi mai doppie interpretazioni, erano semplici come lui, lineari, brani di prosa spezzettati, con una bella alternanza d’ipotassi e paratassi, qualche accostamento inconsueto, ma poco di più, versi pacati, discorsivi, il cui effetto derivava dal non cercarne alcuno, e fra me e me pensavo, beh, se è tutto qui me la posso cavare, e cominciavo ad acquisire scioltezza e magari anche un minimo d’insolenza, come se non avessi fatto altro in tutta la mia breve esistenza che tradurre poesia, ignaro com’ero delle micidiali trappole che può celare agli occhi dell’incauto, ma lì almeno di trappole non mi pareva proprio che ce ne fossero, si sarebbe visto in seguito con Volker, Erich e soprattutto con l’ostico Gerald, di cui mi era stato detto da Gustavo, il mio oscuro mentore, tutto il male possibile, versi incomprensibili, aveva sibilato, privi di qualunque nesso fra significato e significante, sprovvisti di senso, ma poi si sarebbe visto, l’incontro con Johannes per il momento mi dava fiducia nei miei mezzi, l’austriaco, inteso come lingua, poteva avere qualche variante ma in fondo era la stessa cosa, dunque perché preoccuparsi in anticipo, l’avrei domato. Volker ci osservava intanto divertito, il declamante e rubizzo poeta sempre più eccitato e il traduttore curioso che non accennava a fermarne la foga, finché intervenne per sollecitare l’amico a fare una pausa, lasciar respirare il povero ragazzo, lasciar parlare anche lui, fosse pur solo per qualche minuto, perché non era mica giusto che si mettesse in quel modo sotto la luce dei riflettori e non ne uscisse più, i riflettori (presunti) e ancor più la luce da essi prodotta essendo un bene comune, da centellinare e condividere, santo egoismo!, che un poeta possa arrivare a tanto pur di promuoversi, lo rimproverò scherzoso, gli sembrava davvero inconcepibile, o forse era un colpo di quel sole romano e al tempo stesso marittimo che l’aveva già tramortito? Rise Johannes, fece un gesto regale all’amico come a dirgli: accomodati pure, il pubblico è tutto tuo, ritirò la pancia dentro il suo costume da marinaio e si tolse persino il cappello mettendo in mostra i capelli biondicci e lunghi incollati dal sole, mentre Volker commentava soddisfatto che in definitiva avevano lo stesso editore, Wagenbach appunto, avevano pubblicato nella stessa collana e dovevano aver diritto quindi agli stessi privilegi e alla stessa attenzione da parte del traduttore, e io li guardavo incuriosito da quella pantomima, da quella teatrale presa in giro della suscettibilità dei letterati, ma c’era anche qualcosa di realistico nello scherzo, non erano poi troppo lontani dal vero, visto come tanti altri, in quei giorni e soprattutto in quelle serate, si sarebbero presi sul serio e fatti quasi malmenare dalla folla inferocita, che di tutto aveva voglia salvo che di profeti autoproclamati e sacerdoti dell’ortodossia poetica.