Cucina in quarantena
Il sartù iraniano
L'arte della cucina di oggi, spesso, è un miscuglio di tradizioni, convenzioni e sapori che provengono da mondi diversi, anche lontanissimi tra loro. Per esempio, provate far incontrare lo yogurt iraniano con una tipica ricetta napoletana...
La ceramica lucida e colorata trasmette un senso di allegria, i pesci dipinti sul bordo sembrano inseguirsi l’un l’atro in una irrefrenabile corsa circolare, come se la vita di quel particolare universo fosse circolare. Un universo immaginato così da un artista vietrese, che dando un suo tocco alla tradizione iconografica locale, ha creato il suo particolare mondo dentro un piatto di ceramica.
Da sempre ho in cucina qualche piatto di Vietri, è come se sapessi che da qualche parte ne devo sempre avere qualcuno sotto mano. Come se fossero un legame con una storia circolare, che si ripete e si ripete sempre, apparentemente in modo uguale, ma in realtà sempre diversa.
L’origine dei piatti di Vietri è legato alla nonna iraniana Turan, splendida e raffinata donna iraniana appartenente ad un’antica famiglia. Aveva un carattere molto pratico, perché cresciuta seguendo e aiutando i contadini che lavoravano le terre di famiglia vicino ad Hamadan. Aveva anche uno spiccato lato artistico, amava dipingere e scrivere poesie, con una naturale semplicità. Aveva una bellezza raffinata, con un naso aquilino. Per questo era soprannominata Tuti che in iraniano vuol dire pappagallo.
Mia nonna Tuti, sposò mio nonno Enrico, che era diplomatico italiano. In uno dei periodi in cui era in Italia, negli anni Cinquanta, si innamorò di Praiano. Un paese inerpicato sulle ripide montagne, a picco sul mare, della Costiera Amalfitana. Le bianche case con le cupole le ricordavano l’architettura mediorientale e così senza dirlo al nonno, che lo seppe a cose fatte, con i suoi risparmi comprò una casa nel paese. Casa in cui ho sempre passato le mie estati con loro e che erano piene di piatti e ceramiche di Vietri.
Questi piatti sono forse parte di quella catena che mi portò a diciotto anni ad andare in Iran. Paese in cui nonna non era più tornata dopo la rivoluzione e la presa di potere di Khomeini, ma dove viveva ancora sua sorella Mehri e parte della famiglia.
Per me l’Iran da piccolo era la cucina persiana che la nonna preparava a casa sua. Era legato ai sapori di pietanze come il “fesenjan”, riso con melassa di melograno e noci, che nonna cucinava seguendo una ricetta del nord del paese con anatra e melanzane. O come il Masto Khiar, yogurt simile a quello che noi chiamiamo greco con cetrioli, uva passa, noci, menta, petali di rosa e ghiaccio.
L’Iran che immaginavo era anche legato a sua sorella, zia Mehri che viveva lì e che lavorava con i nomadi ed era allevatrice e la maggior esperta di cavalli arabi e persiani del paese. Ogni tanto veniva a trovarci e ci mostrava le foto dei missili in cielo durante la guerra Iran-Iraq.
I servizi di piatti di ceramica di Vietri sono metaforicamente qualcosa che mi lega a una storia, a un luogo scelto perché ricordava a mia nonna l’Iran. La vita poi mi ha portato a frequentare la Persia praticamente ogni anno da quando ho 18 anni. Ho tentato a modo mio di riconnettere i fili di una storia famigliare, fili disastrati da una rivoluzione e dal comparire di Khomeini sulla scena politica iraniana. Certo come in tutte le storie circolari, in cui tutto si ripete apparentemente in modo uguale, ma in realtà sempre con delle differenze, gli amici con cui condivido le cene in cui uso i piatti di Vietri o la cucina persiana, sono diversi da quelli di mia nonna, così anche il mio Iran non è più il suo.
Amo la cultura della cucina iraniana che prevede che si faccia l’aperitivo con l’arak, la fortissima grappa iraniana, oggi illegale ma onnipresente e che poi si mangi senza più bere alcol. Naturalmente a fine pasto si torna a bere grappa. Amo la cultura dei grandi poeti medioevali come Omar Khayyam o Hafez, i cui libri la nonna aveva in giro per casa, che insegnano a trovare il senso della vita abbandonandosi a un bicchiere di vino. Perché Dio c’è, ma a volte è distratto. Un vino mistico e allo stesso tempo molto reale.
La cucina iraniana non è l’unica che ha arricchito la mia infanzia. Mia madre Daria e sua sorella Sandra sono cresciute tra Iran, Francia, Libano, Somalia e Messico e ognuno di questi paesi ha lasciato in cucina una traccia. Così come la cucina della bisnonna americana Katherine, sì strano a dirsi ma anche la cucina americana è buona!
Il legame tra la cucina e mio padre Alessandro era invece un legame molto diverso. La sua passione per la cucina nacque, in modo scherzoso, dalla fame. Non una fame per assenza di mezzi, ma per il fatto che sua madre Maruzza fosse un po’ tra le nuvole. Era una bellissima donna, che dipingeva, amava i salotti che un tempo le vecchie famiglie frequentavano. Aveva amici intellettuali, economisti, artisti, attori, era amata da tutti. Però aveva uno strano rapporto con il cibo, mangiava pochissimo. La sera, quando non era fuori invitata da amici, prendeva solamente un cappuccino. La barca di famiglia era soprannominata in modo scherzoso “l’Affamata”. La nonna non lo faceva apposta, semplicemente non ci pensava, come se mangiare fosse un’attività terrena che non la riguardasse. Tutti l’amavano e sapendolo si portavano la pizza.
Il nonno Sergio, milanese, manager dell’Iri e uomo molto schivo, pur amando molto la moglie e i figli, preferiva il lavoro alla vita sociale e ai fornelli. Amava mangiare, ma non sapeva cucinare. Se non ci fosse stata Lina, la tata pugliese, mio padre sarebbe probabilmente morto di fame. Infatti nei giorni liberi della Lina era solito bussare alla porta di amici che vivevano nello stesso palazzo per auto invitarsi a pranzo. Ricordo mia nonna Maruzza cucinare solamente in Toscana d’estate, quando preparava i fagiolini che lei stessa piantava in terrazzo. Il risultato di questa fame atavica fu che mio padre, oltre che essere ingegnere, divenne un appassionato di cucina ed entrò nel Centro Studi dell’Accademia Italiana della Cucina.
Aveva migliaia di libri di gastronomia, dal Seicento in poi, in maggioranza italiani e francesi. All’epoca era la seconda o terza collezione di libri di cucina in Italia. Mio padre, che scriveva moltissimo nelle pubblicazioni dell’Accademia della Cucina, scrisse anche un libro su tutti i riferimenti alla gastronomia presenti nelle memorie di Giacomo Casanova. Il volume, scritto con la storica della cucina, Maria Attilia Fabbri Dall’Oglio, intitolato “Il gastronomo errante Giacomo Casanova: tra gamberi e pernici”, pubblicato da Ricciardi e Associati, è un continuo inseguirsi tra letteratura e cibo. Un viaggio tra i gusti a tavola del più grande avventuriero del Settecento e delle corti europee, come delle stamberghe, dell’epoca.
Mio padre era anche un gran cuoco, o forse un grande direttore della cucina, in cui schiavizzava mia madre Daria, che mentre eseguiva minacciava il divorzio. Anche se sotto sotto si divertiva molto anche lei.
Una delle ricette che cucinavano sempre insieme e che mia madre ancora, dopo svariate minacce mie e di mio fratello Andrea, fa, è il sartù di riso napoletano. Ha sempre preso la ricetta dal volume “La cucina napoletana” di Jeanne Carola Francesconi, ma essendo io diventato vegetariano da anni, è stata costretta ad alcuni cambiamenti. Sicuramente mio padre mi guarderà dall’alto con una certa disapprovazione, lui che adorava le frattaglie e fegatini vari. Ma si sa, qualche dispiacere ai genitori va pur dato, se no, non c’è divertimento.
La ricetta base del sartù rimane quindi quella classica, che si può trovare, se non si possiede il libro citato prima, anche su internet. Ma invece della sugna, dei fegatini di pollo e del salame, mia madre Daria, mette delle polpettine di melanzane, mollica e menta. Simile a quelle del Meridione, ma con l’aggiunta della menta, seguendo la tradizione siriana e libanese. Nel sugo poi mette funghi porcini secchi, cucinati come per un sugo, zucchine ripassate in padella e uova sode. Ovviamente tutto condito con abbondante salsa di pomodoro. La parte più difficile è spalmare il riso sulle pareti dello stampo, riempirlo con i vari strati e poi una volta cotto al forno il tutto, rigirarlo senza che si rompa. Questa era una delle ricette preferite di mio padre che purtroppo scomparve prematuramente nell’anno in cui stava scrivendo un libro sulla cucina presente nei testi di Joyce.
Una delle mie poesie preferite di Khayyam recita:
«Quando l’ebbro Usignolo trovò la via del Giardino
e ridente trovò il bocciolo di Rosa e la coppa del Vino,
venne, e in misterioso bisbiglio mi disse all’orecchio:
Considera bene: la vita trascorsa mai più, mai più non ritorna».
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Le immagini sono di Roberto Cavallini