Riflettendo sulla “Via Crucis”
Il Cristo di Luzi
Era l’aprile del 1999 quando il poeta toscano scrisse i testi delle meditazioni del Venerdì Santo, affermando la sua consapevolezza che «essere cristiani significa accettare la via di Gesù fino alla Croce». Un Gesù, il suo, innamorato della vita
Il 28 febbraio di quindici anni fa moriva Mario Luzi, poeta fra i massimi del Novecento, che non ha mai rinunciato, attraverso il suo magistero poetico, a testimoniare apertamene e coraggiosamente il suo cristianesimo. Forse la mancata assegnazione del Premio Nobel può spiegare in parte la scarsa attenzione della critica in occasione dell’anniversario. Il 12 aprile del 1999, a pochi giorni dalla Via Crucis per cui aveva scritto i testi delle meditazioni, Luzi, al Teatro Ghione, partecipò allo spettacolo di poesia e musica Una grande anima in una stagione malata con presentazione del sottoscritto e di Elio Fiore. Nell’occasione, alla mia domanda se non pensava che la stesura dei testi per la Via Crucis avrebbe potuto ulteriormente pregiudicare l’assegnazione del Nobel, Luzi, dopo una breve pausa, rispose che nessuna altra considerazione, fosse anche l’assegnazione di un premio prestigioso come il Nobel, avrebbe avuto il potere di impedire la sua testimonianza di cristiano fondata sulla consapevolezza che essere cristiani significa accettare la via di Gesù Cristo fino alla Croce.
L’ottantacinquenne poeta, candidato già sette volte al Nobel, rivendicava così il valore di verità di quei testi, tra sacra rappresentazione e monologo, che, tenendo presente dell’amato Borges (in particolare degli articoli a lui dedicati, apparsi su Il Corriere della Sera e poi raccolti nel volume Cronache dall’altro mondo) la descrizione di un Cristo votato all’umano e al creaturale, ripropongono l’angoscia di un Cristo «dibattuto fra il divino e l’umano, la sua afflizione e la sua soprannaturale certezza».
Quello di Luzi è un Cristo innamorato della sua condizione umana («È bella la terra che tu hai dato all’uomo e alle altre creature del pianeta… Io non sono di questo mondo eppure non potevo se non teneramente amarla» ), un Cristo che non cessa mai, nonostante tutto, di amare, per cui il poeta può concludere: «L’offesa del mondo è stata immane. Infinitamente più grande è stato il tuo amore».
Al centro della vicenda umana di Cristo e insieme dell’intera opera poetica di Luzi è il rifiuto della disperazione e la scommessa sulla vita, la consapevolezza che il cammino mortale è verso la Resurrezione. L’apostolo Giovanni, nella Via Crucis di Luzi, stupito e incredulo alla notizia della Resurrezione, discorre a partire dall’agonia di Gesù, attraverso l’angoscia della Passione e il tentativo di coinvolgere il Padre reclamandolo nel momento in cui più la sua presenza sembrerebbe mancare: «Gesù ha sete, gli portano alle labbra/ una spugna imbevuta d’aceto. – Perché Padre mi hai abbandonato? -/ È il suo ultimo grido umano./ È di uomo infatti l’estremo pensiero/ del Figlio dell’uomo sulla terra».
Nella stagione ermetica Luzi era chiuso nella sua identità personale. Nei testi per la Via Crucis si apre da cristiano al destino, partecipe di uomini, fiumi, piante, animali. I Vangeli lo richiamano all’immensa vitalità che promana dal Verbo. È giusto sottolineare questa dimensione metafisica della poesia di Luzi e, in proposito, non si può fare a meno di citare le celebri pagine di Giacomo Debenedetti. Il grande critico piemontese vi commenta la lirica “Nell’imminenza dei quarant’anni” di Onore del vero: «Il pensiero m’insegue in questo borgo / cupo ove corre un vento d’altipiano / e il tuffo del rondone taglia il filo / sottile in lontananza dei monti…». Scrive Debenedetti: «Potrebbe essere uno di quei paesaggi sintetici, di quei riassunti paesistici che vediamo negli sfondi dei quadri rinascimentali: il borgo cupo, l’altipiano trascorso dal vento, i rondoni, il crinale dei monti ritagliato nel suo sottile profilo».
Poi aggiunge: «Dove si trova il paesaggio che fa da sfondo alla Gioconda o a certe scene d’aria aperta nelle Storie della Croce di Piero della Francesca?» (e appunto si pensa a Piero della Francesca e alla sua sintesi di reale e trascendente in Le storie della Croce, si pensa a La Gioconda di Leonardo – il paesaggio che diventa stato d’animo, che dà un senso di inquietudine e movimento, quella strada tortuosa come un discorso che chiude all’infinito –, ma soprattutto si pensa alla misteriosa deserta cavalcata di Guidoriccio da Fogliano menzionata in Ritorno a Siena). Quindi, dopo aver messo a confronto il “borgo cupo” di Luzi con il “natìo borgo selvaggio” di Leopardi, continua a proposito di quel bilancio esistenziale: «Tutto questo non è stato vano perché è proprio l’opera di ciascuno e di tutti in una storia collettiva degli uomini che accomuna quelli che sono e quelli che sono stati, i vivi e i morti: una storia quindi che può essere fatta del sommarsi successivo delle conquiste nel corso del tempo ma anche risaltare dal destino cumulativo del genere umano al di fuori delle vicissitudini del tempo» (e non a caso è fatto riferimento alle “vicissitudini del tempo” come a una significativa chiave per intendere la poesia di Luzi).
Finalmente conclude che le conseguenze di quella presa d’atto consistono nella sicurezza di potersi incamminare in quello che la sua religiosità gli progetta essere il mondo, compresenza eterna del tutto nella vita e nella morte, e che l’unica cosa che si sente di dire di quella esperienza religiosa è che «si tratta di una visionarietà mistica» se è vero che «il mistico è tipicamente l’uomo che si libera della propria fisionomia individuale, del suo io, che si stacca anche dalla continuità del suo tempo cronologico, vissuto per spiccare il salto nell’eterno, cioè fuori del tempo» (e a questo proposito è giusto richiamare Eliot e «the intersection of time and timeless»).
Ritornando a interrogarci su quei “paesaggi sintetici” di cui parla Debenedetti consideriamo la descrizione della Val d’Orcia nella sua evoluzione. A partire da Sui fondamenti invisibili ecco che i dossi lisciati dal vento divengono dune e compare la metafora del mare a indicare la natura e il senso di quel paesaggio enigmatico che si viene precisando sempre più come un paesaggio originario, terra terrosa e insieme ultraterrena, matria, grembo a cui far ritorno, luogo d’elezione di una simbolica pasqua dove l’anno (o l’anima) è al centro della sua vittoria e che è momento di grazia dentro e fuori del tempo. Nella Via Crucis di Luzi è la certezza del superamento della morte: «La morte ha perduto il duro agone». Non a caso questo illuminante verso di Luzi ne ricorda uno veramente memorabile di Dylan Thomas che non si riferisce alla Pasqua ma alla speranza e al senso stesso della poesia: «E la morte non avrà dominio».
Nell’immagine, la Crocifissione di Antonello da Messina