Casteporziano/5
L’Hotel Enalc
«Arrivai al famigerato albergo nel primo pomeriggio, domandandomi come potesse mai un hotel, per scalcinato che fosse, chiamarsi Enalc, prendere cioè come nome la sigla dell’ente che l’aveva fatto edificare»
Riassunto delle puntate precedenti: il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi dei poeti tedeschi presenti al Festival di Castelporziano. Nella sezione precedente il protagonista ha fatto una lunga e istruttiva passeggiata con Erich Fried.
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Ma a ripensarci adesso, a ritroso, non è forse un caso se già all’epoca m’interessavano molto di più i poeti minori di quelli conclamati, e quindi seguivo più le gesta (e le parole) di Fried che quelle di Ginsberg, come non è un caso se virtualmente condivido il compleanno con dei minori, se si fa eccezione forse solo per Max Born e Carlos Gardel sono nati il mio stesso giorno dell’anno tanti minori, appunto, magari di genio ma minori, da Grace Paley a Solzenicyn, da Elliott Carter a De Musset, da Trintignant a Grabbe, da Chester Thompson a Mahfouz, confondendo allegramente tutte le categorie artistiche e professionali, e anche se almeno il sovrano hawaiano Kamehameha V ci consente di montarci un po’ la testa, a noi nati in questo benedetto giorno di dicembre, con pretese prerogative reali, e Fiorello La Guardia con il fascino ambiguo dell’alta politica (e dell’immigrato che a sorpresa s’impone e riscuote oltreoceanici consensi), sta di fatto che almeno come artisti siamo e restiamo dei minori, ottime spalle, in grado magari di illuminare il cammino a intermittenza, non dico di no, come una torcia con le batterie che cominciano a perdere colpi, ma mai di imporci, di avere un vero e proprio seguito, come può capitare ad altri segni più volitivi, più sicuri delle loro potenzialità, meno afflitti dalla benedizione del dubbio, e dico benedizione perché i dubbi che ci attanagliano ci consentono anche di volare raso terra, appunto, e di raccogliere ogni umore del territorio che percorriamo anziché isolarci in una specie di empireo staccato dai mortali, e di questo almeno sono orgoglioso. Se fra i quattro poeti che ero stato chiamato a tradurre e assistere avessi dovuto trovare un elemento in comune, ebbene, avrei indicato senza indugio proprio la vicinanza al prossimo, l’identificazione con l’altro, punto d’approdo di una ricerca che ciascuno aveva condotto su se stesso con modalità e secondo leggi proprie, ma che era poi sfociata in una tale attenzione all’altro, amico o nemico che fosse, da non lasciare dubbi sull’impegno umano prima ancora che ideologico sotteso ai loro versi. Lo so che sto scivolando verso l’esegesi e la critica letteraria, ma era anche questo che affascinava il ragazzo di diciott’anni, scoprire il de te fabula narratur di ogni storia e immedesimarsi nello sforzo compositivo di cui quei quattro, ciascuno a suo modo e fra mille contraddizioni, testimoniavano, tanto che tornando all’hotel il secondo giorno non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che per loro e per me stesso avrei dovuto fare qualcosa di più che tradurne i testi, avrei dovuto cercare di farli conoscere in Italia in tutta la complessità delle loro personalità artistiche così diverse, proprio come un bel dì, fantasticai, sarebbe sicuramente piaciuto anche a me essere noto al di fuori dei confini nazionali, pensiero che lì per lì m’imbaldanzì e m’accompagnò per tutto il tragitto dell’autobus, dal nostro appartamento alle estreme propaggini di Roma Nord fino alla stazione Termini, e poi in metropolitana da Termini a Ostia, nella seconda parte del viaggio però in modo già meno ossessivo, più fluido e adatto al mezzo di trasporto su rotaie che mi stava portando a destinazione, e quindi in competizione con altri pensieri ricorrenti, come la curiosità di venire a sapere cosa fosse successo nel corso della prima serata e come se la fossero cavata, i miei protetti, da soli con Gustavo e senza uno straccio d’interprete.
Arrivai al famigerato albergo nel primo pomeriggio, domandandomi come potesse mai un hotel, per scalcinato che fosse, chiamarsi Enalc, prendere cioè come nome la sigla dell’ente – l’ente nazionale dei lavoratori del commercio, niente meno – che l’aveva fatto edificare, mistero questo legato a una pigrizia e di una mancanza di fantasia davvero ministeriali che superavano perfino la leggendaria indolenza dei romani. Vista l’ora e considerata l’insopportabile canicola, ero quasi certo di non trovare nessuno ad aspettarmi, e non fui quindi troppo sorpreso quando m’investì una calda ondata di silenzio e di desolazione, come se tutti fossero impegnati in una sorta di pennichella collettiva, tanto che fuori dell’albergo non si aggirava proprio nessuno, i più attivi e temerari dovevano aver osato avvicinarsi al mare, i più fortunati, quelli dotati di un’automobile, si erano magari spostati in luoghi più freschi e ombreggiati, fatto sta che nella hall trovai solo un ragazzo stravaccato su un divano, sudato e semiaddormentato, con gli occhialetti gramsciani storti sulla faccia, che vedendomi apparire si riscosse, come se avesse visto un fantasma, ma poi non seppe darmi alcuna informazione sugli ospiti dell’albergo e sui loro movimenti, e non sembrava anzi nemmeno capire a chi mi riferissi, nemmeno Johannes con il suo abbigliamento particolare doveva averlo colpito, ammesso che l’avesse incontrato. Mi disse che se ne stava lì a “raccogliere materiale” per un giornaletto che ciclostilavano all’università, se gli andava e si sentiva ispirato avrebbe scritto qualcosa, anche se per il momento era a corto d’idee, anche lui doveva aver sbagliato orario, o addirittura giorno, visto che mi spiegò che si era perso pure l’arrivo dei poeti il giorno prima e adesso nessuno sembrava in grado di dargli qualche delucidazione su quello che era successo nel corso della prima serata, eravamo quindi in due a non sapere, anche se a quel punto mi venne addirittura il dubbio, e lo espressi, che tutto dovesse essere andato male, malissimo, che gli ospiti avessero precipitosamente abbandonato la nave, tornandosene ai paesi d’origine, chissà, non era una possibilità da scartare, in fondo la formula del festival si prestava a qualunque sviluppo e la disorganizzazione di cui avevo avuto sentore il giorno precedente non faceva presagire nulla di buono, ma in ogni caso, comunque fossero andate le cose, mi occorreva una conferma, non avrei certo fatto marcia indietro ritornandomene alla stazione della metropolitana senza saperne di più. Il ragazzo aggiunse di chiamarsi Elio, diminutivo nientemeno che di Eliogabalo, nome inconsueto e da lui detestato, che era al secondo anno di lettere (contava di laurearsi in letteratura italiana moderna e contemporanea) e che la brillante idea di mandarlo a coprire giornalisticamente l’evento, se non proprio a dormicchiare sugli scomodi divanetti della hall, era stata di uno degli assistenti della cattedra in questione, convinto che avvicinarsi a tutti quei poeti potesse rappresentare per lui un’utile esperienza di vita, laddove l’assistente intendeva in particolare i poeti italiani, i vari Bellezza Cucchi Rosselli Buttitta, sull’opera di uno dei quali Elio sarebbe stato prima o poi convinto a scrivere la tesi e laurearsi, mentre agli stranieri non c’era da fare troppo caso, secondo Elio (e il suo assistente) erano stati chiamati solo per dare spettacolo e imprimere una parvenza d’internazionalità all’evento, anche se a lui, mi disse in confidenza strizzando un occhio, Burroughs interessava molto più della Maraini e Ginsberg, tanto per capirci, infinitamente più della Spaziani, in-fi-ni-ta-men-te, ripeté per rimarcare il concetto, quindi avrebbe scritto soprattutto della poetica degli italiani, senza far torto a nessuno, beninteso, ma qualche accenno agli americani non se lo sarebbe lasciato sfuggire, con buona pace dell’ortodossia accademica, ecco quanto ebbe la forza di raccontarmi in una ventina di minuti, riemerso dal suo torpore, mentre io continuavo a guardarmi intorno in cerca di altre, più utili fonti d’informazione. Che lì per lì non trovai, ragion per cui mi misi comodo anch’io, scaraventandomi sul divanetto di fronte al suo e rassegnandomi a una lunga attesa, mentre mi accendevo una delle poche Gitanes rigorosamente senza filtro che mi portavo dietro, avendo deciso infatti di autolimitarmi a non più di sette-otto al giorno, e intanto pensavo con un briciolo di malriposto ottimismo che forse ero troppo negativo, che magari nell’arco della mattinata gli organizzatori erano riusciti a risolvere i problemi più macroscopici del casermone che ospitava i poeti, dalla carenza d’acqua al mancato funzionamento di cucina e bar, in caso contrario ci sarebbe stata una rivolta, prima o poi, o almeno qualche defezione, anche se il cachet previsto per gli stranieri – da cinquecento a mille dollari, si vociferava – avrebbe dovuto funzionare da deterrente e contribuire a farli restare fino alla fine dei giochi, fino alla terza e ultima serata, ma che figura da peracottari avremmo fatto con la stampa straniera, figuriamoci quanto saremmo stati presi per il didietro in seguito, magari proprio dagli stessi poeti partecipanti, che tornati a casa non avrebbero esitato a sputtanare l’intera impresa su giornali e riviste di casa loro, non era una profezia troppo ardua da formulare, convenne il mio nuovo amico, a cominciare dal casino che avevano fatto con l’ipotetica venuta di Patti Smith, prima negata, poi rilanciata, poi di nuovo, e forse definitivamente, smentita, gli organizzatori avevano infilato una figuraccia dopo l’altra, tanto che, come avviene sempre nel nostro paese, cominciava a sorgere il dubbio fondato che dietro ci fosse una regia occulta, il solito complotto, che in realtà tutto fosse stato insomma organizzato proprio per dar vita a un sontuoso fallimento, per dimostrare l’impossibilità di un’impresa del genere e soprattutto l’inesistenza di un pubblico a essa adatto, ma adesso sto indulgendo nuovamente al vecchio vizio di precorrere i tempi, in quel momento il sentimento dominante era invece la sorpresa, lo stupore attonito e un po’ imbecille di chi sbarca in un mondo nuovo di cui non conosce ancora leggi e consuetudini, così mi sentivo, e così doveva sentirsi anche Elio o Eliogabalo, nonostante i suoi due o tre anni di vita e d’esperienza in più, eravamo solo due pivelli alle prese con una specie di sogno (o incubo) che non avevamo sognato noi, in cui ci ritrovavamo semplicemente catapultati.
Trascorse forse una mezz’ora o poco più d’illanguidita conversazione, il caldo non dava davvero scampo, quando scorsi in lontananza una sagoma che emergeva dalle tenebre in fondo all’albergo parendomi al tempo stesso vagamente familiare, una figura magra e scattante che ci si avvicinò lesta. Riconobbi davvero Volker solo quando fu a pochi metri da noi, anche perché rispetto al giorno precedente sembrava aver subìto un’inattesa trasformazione, adesso portava una maglietta abbastanza sbrindellata e per il resto era in calzoncini corti, o forse addirittura in costume, brandendo un vecchio asciugamano reperito chissà dove, in ogni caso pronto per un’uscita in spiaggia, dove secondo lui la calura sarebbe stata più sopportabile grazie a quel minimo di brezza che al mare non manca mai. Non mi sognai nemmeno di contraddirlo; salutai Elio, convinto che ci saremmo incrociati nuovamente (cosa che invece non avvenne), e accompagnai Volker fuori, incuriosito non tanto dal desiderio del tutto umano di uscire e sdraiarmi in spiaggia anch’io, quanto dalle inevitabili indiscrezioni di cui sarei stato reso partecipe, dal racconto della serata cui non avevo assistito e che mi anticipò con un ironico “non sai cosa ti sei perso”. Malgrado il promettente incipit la sua narrazione fu, devo dire, abbastanza confusa, anche se in seguito, combinando quello che mi aveva detto lui con informazioni ricavate da altre fonti, sarei stato in grado di ricostruire più o meno gli eventi, il problema adesso essendo come sempre quello di scindere, nella mia rievocazione, le prime nozioni ottenute in quel momento dalle successive stratificazioni, per non parlare delle impressioni che avrei ricavato di prima mano partecipando alle serate successive, un bel dilemma davvero, a posteriori e anzi oltre trent’anni dopo, ma credo comunque che più di ogni altra cosa Volker mi abbia trasmesso quel pomeriggio il suo sbigottimento, il fatto, in parole povere, che non conoscendo una parola d’italiano non aveva compreso quasi niente di quanto era successo, o meglio l’aveva capito per somme linee, ma perdendosi tutti i divertenti e salaci dettagli ripresi invece impietosamente dalla troupe televisiva che da quella e dalle successive serate avrebbe tratto un lungo documentario, poi trasmesso dalla RAI e oggi facilmente scaricabile, insomma nel complesso lui e gli altri avevano capito che c’erano state delle contestazioni piuttosto vibranti contro gli organizzatori e contro i poeti italiani, i primi messi sul rogo per la prevedibile defezione di Patti Smith, star che aveva convinto molti giovani a muoversi macinando chilometri e chilometri di macchina bus treno o sandali, i secondi fischiati e sbeffeggiati per la loro assoluta ed endemica incapacità di avvicinarsi a un pubblico e di comunicare, uscendo per qualche minuto dalla torre d’avorio in cui si erano per anni o decenni autoreclusi, mentre non aveva potuto cogliere (né lui né gli altri colleghi stranieri) certe sfumature, come ad esempio il fatto che il pubblico stesso si era rapidamente suddiviso in diverse correnti d’opinione, con i contestatori presto attaccati a loro volta per l’uso improprio e villano fatto del palco e del microfono, o la presenza insistente di svitati in pieno delirio più o meno creativo, ai quali non si riusciva a sottrarre il microfono se non a forza, ma il cui irrinunciabile contributo, spesso con due b, lasciava trasparire inavvertitamente sprazzi di lirico umorismo, e in tutto questo bailamme i presentatori ufficiali – che esistevano, altro che, perché erano stati ufficialmente nominati dagli organizzatori, pagati (poco, temo) e incaricati di “condurre” la kermesse – venivano esautorati di ogni funzione, presi a parolacce e ridotti al rango di semplici passatori di microfono.
In quella prima serata la poesia che destò la maggiore impressione fu senza dubbio un poema a quanto pare abbastanza spontaneo dedicato agli intellettuali, un’invettiva dall’evocativo titolo di “Affanculo”, che trionfò con grande e giustificato scorno dei vari Bellezza, Spaziani e compagnia poetante contestati dalla plebe, e benché Volker non avesse potuto seguire né le parole né il senso complessivo di un simile capolavoro, ammesso che un senso vi fosse, fu però abbastanza acuto da capire che in quella parola, esortazione, invito o preghiera che fosse, era condensato lo spirito dell’intera serata, una maledizione tonica e senza sconti nei confronti di tutto e tutti, l’infastidita negazione dell’alterità, un’autistica delegittimazione dell’evento che finiva tuttavia per fare da contraltare alla tendenza dei poeti italiani a contemplarsi l’ombelico, e questo avveniva proprio quando, per una volta, questi ultimi, volenti o nolenti, avevano invece deciso di uscire allo scoperto, di mettersi in gioco non davanti al pubblico dei piccoli teatri off dove tenevano le loro letture poetiche semiprivate, ma davanti a una moltitudine innervosita dal fatale abisso fra realtà e aspettative, tanto che la goffaggine di Bellezza, che avrei poi rivisto cento volte nel famoso documentario, la sua umile sollecitazione alla folla imbestialita affinché con un minimo applauso gli facesse coraggio, quel coraggio che sentiva di non avere, diventa non solo patetica, ma quasi tenera, e se a distanza di tanti anni è ovvio che avessero torto tanto il pubblico cialtrone quanto il poeta inadatto alla circostanza, tendo sempre più a pensare che tutti quanti si fossero infilati dritti dritti in una trappola infernale, senza vie d’uscita, se non quella classica, cioè mettere la testa sotto la sabbia e aspettare che la tempesta passasse, ma secondo Volker era stato un mezzo miracolo che nessuno ne fosse uscito con la testa rotta, invece, e che alla fine avesse prevalso non la calma, ma forse piuttosto la noia, fra gavettoni di sabbia, bucce di cocomero e altri oggetti imprecisati che volavano nel buio in cerca di obiettivi facili da colpire. Loro quattro, i miei protetti, come ormai tendevo a considerarli, neanche di tutti quanti l’unico adulto fossi io, se l’erano eroicamente e voluttuosamente squagliata, in ogni caso, ritenendo con un certo acume che non poteva certo toccare a loro, in grado oltretutto di capire a stento la metà di quanto stava succedendo, togliere le castagne dal fuoco agli organizzatori, per il resto quindi Volker aveva saputo solo che la discussione con le varie frange di pubblico era durata a lungo, per una buona metà della notte, e che alla fine dovevano aver raggiunto una specie di compromesso per non far naufragare anche le restanti serate e il festival nel suo insieme, ma questo poi si sarebbe visto, per il momento tutto era stato rinviato, compresi gli slot che sarebbero stati dedicati ai poeti per così dire spontanei, quelli che nessuno aveva invitato, ma che erano venuti lo stesso. Perché in un paese di eroi navigatori santi ma soprattutto poeti nessuno avesse previsto una massiccia partecipazione di gente che non aspettava altro che l’occasione di potersi finalmente esibire davanti a un pubblico, un pubblico qualsiasi, era un mistero, uno dei tanti di quegli anni, ma sarebbe stato difficile spiegare a un poeta straniero lo strano rapporto che gli italiani hanno con una forma espressiva odiata e bistrattata, soprattutto sui banchi di scuola, ma che poi metà della popolazione coltiva in segreto, e l’altra metà apertamente, quasi fosse l’ultima sfida nei confronti del mondo esterno, o forse solo l’ultima sfida e affronto fatto all’odiato professore di lettere del liceo.
Effettivamente Volker aveva ragione, in riva al mare era abbastanza ventilato e si stava molto meglio, anche se non disponevamo di un ombrellone e il sole picchiava, per fortuna all’epoca lo sopportavo molto meglio di adesso, adesso che mi rendo conto di essere diventato, dopo vent’anni di vita in un paese dell’Europa settentrionale, ancora più sensibile all’effetto dei raggi solari, tanto per la cute quanto per gli occhi, che infatti devo proteggere costantemente, in ogni caso non sarei mai stato tanto pazzo, nemmeno allora, da togliermi la camicia e i pantaloni, ero anzi probabilmente l’unico mentecatto in spiaggia che indossava dei bei blue-jeans pesanti, ma devo riconoscere anche che ero talmente eccitato da tutto quello che stava capitando da non rendermene quasi conto, è in questo la superiorità della giovinezza, nel non lasciarsi turbare troppo dall’eccesso di riflessione, nell’essere capaci di godersi una giornata splendida come quella senza chiedersi necessariamente cosa le farà seguito e dove ci condurrà l’inevitabile nottata. Anche Volker fu abbastanza prudente, ricordo, si lasciò addosso la maglietta e si sdraiò sull’asciugamano, coprendosi gli occhi con la mano, mentre passava seguendo libere associazioni dalla descrizione della serata precedente a una vaga reminiscenza degli anni di scuola, forse richiamati alla memoria dal fatto che io dovevo ancora diplomarmi e dalla sua curiosità riguardo al funzionamento di una scuola tedesca all’estero, qual era quella che io, appunto, frequentavo, per i suoi gusti con troppo successo. Mi disse infatti subito, a fugare ogni dubbio, che come scolaro nei lontani anni Cinquanta era stato, se non pessimo, piuttosto modesto, tanto che a metà della penultima classe del liceo era stato praticamente costretto a cambiare scuola e località, da Seesen a Gandersheim, in Bassa Sassonia, il che però, precisò, non faceva di lui né un martire né un esempio da seguire, era stato semmai una specie di banale fallimento, visto che neanche come contestatore del sistema aveva dimostrato di valere granché. Stava parlando dell’ottobre del 1952 – mi rendevo conto delle potenzialità della memoria? –, e nel 1979 ancora gli bruciava un’esperienza di ventisette anni prima che avrebbe dovuto ritenersi superata e assorbita, e invece no, mi disse, non si supera e non si assorbe mai nulla, se non il senso d’inadeguatezza che ci accompagna sempre, nei fallimenti come nei parziali successi, e questa breve interruzione degli studi si era rivelata per lui una specie di modello involontario da seguire anche in seguito, una sorta di condanna, per esempio all’università, quando avrebbe frequentato per qualche anno la facoltà di scienze sociali e politiche e non avrebbe concluso niente, quello che gli era piaciuto di più di quegli anni essendo stata semmai l’attività di agitatore e redattore del giornale studentesco “zoon politikon”, tanto che avrebbe lasciato gli studi a metà e si sarebbe poi messo a lavorare, malgrado avesse un fisico apparentemente gracile, prima come spaccapietre poi come operaio edile, perché la vita è così, puoi passare da un mestiere all’altro senza mai impararne uno per davvero, soprattutto se sei irrequieto e non vuoi lasciarti incasellare, e insomma tutto era fuorché un classico intellettuale, concluse, dovevo essermene accorto anche dalle sue poesie, in fondo gli autori ai quali faceva riferimento non erano così numerosi, ed erano sempre gli stessi, da Kraus a Tucholsky, passando certamente per Brecht. Parlammo ancora un po’ di lui e della sua vita, gli dissi che quella località, Gandersheim, mi ricordava qualcosa, qualcosa che non riuscivo a focalizzare, e lui si fece una risata, dovresti arrivarci per antinomia, disse, pensare a quanto c’è di più distante dal mio modo di fare poesia e dal contenuto dei miei versi, poi vide la mia faccia perplessa e spiegò l’arcano, Roswitha, disse, Roswitha, la poetessa monaca o monaca poetessa, fa un po’ tu, veniva da Gandersheim, ecco perché ti si è accesa una lampadina, sia pure a intermittenza, ma ti dirò di più, dal posto in cui sono nato, Quedlinburg, proveniva invece il grande Klopstock, non so se mi spiego, l’autore del Messia, quindi tra Quedlinburg e Gandersheim vedi bene che ero destinato fin dalla nascita a ricoprire un ruolo nelle patrie lettere, non ti pare? Non è, questo, che un esempio della sua conversazione, sempre autoironica e spigliata, ma anche capace di saltare di palo in frasca, come se i momenti della vita fossero interconnessi in modo misterioso e una cosa portasse indefettibilmente a un’altra, ma senza seguire leggi di causa ed effetto, semmai per altre vie, più occulte e inaccessibili, tanto che Roswitha e Klopstock lo indussero poi chissà perché a raccontarmi del padre partito in guerra con e per Hitler e rimasto sprofondato nella neve a Leningrado, della loro casa di famiglia distrutta pochi mesi dopo da un incendio, dell’esigenza, quindi, di trovare una nuova abitazione provvisoria, che li aveva indotti a un disperato pellegrinaggio, mentre la madre si arrangiava con piccoli lavori di cucito per arrotondare la pensione di guerra, e io lo ascoltavo assorto, colpito in particolare dall’incongruità di quella narrazione con l’esperienza che stavamo vivendo in quel preciso istante, come se tra passato e presente ci fosse davvero un abisso e l’uno e l’altro non trovassero un terreno comune, ma non era così, rispose alla mia obiezione, c’è sempre un luogo dove passato e presente s’incontrano, ma il più delle volte per rintracciarlo occorrerebbe essere al corrente di certe leggi misteriose, che invece ci sfuggono irrimediabilmente, c’è una storia, aggiunse, magari non c’entra niente ma mi viene in mente proprio adesso a proposito di leggi il cui senso ci sfugge, una storia che prima o poi devo decidermi a raccontare, non so ancora sotto quale forma, magari ne farò una poesia in prosa, chissà, e insomma si tratta di questo, c’è un uomo, un tizio qualunque – e guarda che è una storia vera, è successa l’anno scorso –, uno che sta a Chicago e a un certo punto si mette in testa che vuole assolutamente vedere Dio, pensa che sia possibile e che basti salire molto, molto in alto per vederlo, non è mica impossibile, in fondo, e allora cosa fa, tu in una città come Chicago cosa faresti?, ebbene lui sale sul più alto dei grattacieli di Chicago, non mi chiedere quale, in ogni caso non è essenziale, sale sale sale sale fino al ventitreesimo piano, forse più in là non si poteva andare, non mi chiedere la ragione neanche di questo, non lo so, e si lancia, un po’ come il sarto di Ulm di Brecht, te la ricordi la poesia?, quella del sarto convinto che l’uomo potesse e dovesse volare, e che si fabbrica un attrezzo con cui si butta dal campanile della chiesa e si sfracella con grande soddisfazione del vescovo locale, il quale può concludere davanti ai fedeli che infatti l’uomo non potrà mai volare, ma qui nella mia storia la chiesa e la sua cecità e ignoranza non c’entrano niente, però forse c’entra la fede, in qualche modo, non lo so neanch’io, fatto sta che questo tizio sale fino al ventitreesimo piano del grattacielo e salta giù, o meglio salta e basta, forse convinto di riuscire a spostarsi invece in su, più in alto, davvero fino a un’altitudine che gli consenta di vedere, sia pur solo per un attimo, il volto di Dio, inutile dire che invece finisce dritto dritto in strada, eppure non gli succede niente di grave, tu non ci crederai, arriva giù sano, con qualche frattura, d’accordo, ma atterra vivo e vegeto, un miracolo, certo, i cattolici ne farebbero un racconto edificante, il miracolo del fedele salvato da Dio, io vorrei interpretarlo invece in un altro senso, più contorto, magari, ma più vicino a un mistero che a un miracolo, cioè che Dio è un essere o ente troppo serio per permettere a qualcuno, sia pure un credente, e quindi una delle sue creature, di prendersi gioco di lui, forse non qui a Roma o nella vostra beneamata Città del Vaticano, ma almeno a Chicago, che ne dici?, e non può forse funzionare da apologo anche in quest’altro senso, nel senso che il desiderio o la nostalgia di Dio sono condannati da Dio stesso, dal modo un po’ rigido in cui ce lo siamo plasmati, questo Dio, a restare insoddisfatti?, ma sì, un giorno o l’altro lo scrivo, il mio apologo, poche righe, il massimo della sintesi, lo scrivo per te, in omaggio alla nostra chiacchierata a ruota libera, per ricordarmi di questo bel pomeriggio in spiaggia. Gli dissi che era matto e mi misi a ridere, ma in qualche modo la promessa la mantenne, perché la descrizione di quell’episodio figura effettivamente fra le opere rimaste, e considerato che sarebbe morto appena un anno e mezzo dopo, l’appunto deve averlo preso in quei giorni, poco dopo che ne avevamo parlato, a volte basta un nonnulla, lo scatto di una sinapsi, un’associazione illogica che si rivela sorprendentemente produttiva, o solo il fatto di avere accanto per qualche ora un ascoltatore attento e partecipe, uno che ti consente di raccontare a ruota libera, come che sia passammo un paio d’ore piacevoli a conversare di sciocchezze come appunto la religione, la pace nel mondo, la storia del Novecento e la letteratura, prima che gli altri tre ci scovassero e ci raggiungessero in spiaggia, un po’ eccitati dalla prospettiva di dover intervenire, se il vacillante programma fosse stato confermato, nel corso della seconda serata, e al contempo stremati dall’ondata d’afa cui certo non erano abituati.
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