Visite guidate
Gli amici di Philippoteaux
Con i suoi sei uomini ritratti di spalle (una rarità nella storia dell'arte), Henry Félix Philippoteaux, pittore francese del pieno Ottocento, ci rivela la meraviglia di una passeggiata tra amici. Ciò che oggi ci è impedito... salvo distanziamento sociale
La bella proposta suggerita da Succedeoggi di “Visite Guidate” e l’articolo ancor più bello di Nicola Fano che ci ha accompagnato alla scoperta del ritratto dell’Arlecchino Martinelli, mi hanno raggiunto nella mia cattività romana proprio mentre ero visitato, al momento incerto dei risvegli mattutini, dal ricordo assillante di un quadro insolito e bizzarro: un quadro minore, si sarebbe detto un tempo, prima che Eco e la critica del secondo Novecento ci tranquillizzassero sull’ansia di attribuire scale di valore tra la cultura alta e quella, appunto, minore; ma un quadro, comunque, che mi è sempre sembrato affascinante, stranissimo e del quale non sono mai riuscito a spiegare il mistero della scelta compositiva; e che, in questo periodo nel quale i piaceri innocenti come una passeggiata all’aperto, magari con un cane, sono regolamentati severamente o addirittura proibiti, mi si è riaffacciato alla memoria come l’esempio di qualcosa che non ci appartiene più. Adesso e chissà per quanto tempo ancora.
Ma procediamo per gradi, incominciando la nostra visita guidata: il quadro in questione si intitola Les gentilshommes du Duc d’Orléans dans l’habit de St. Cloud ed è stato dipinto da Henry Félix Philippoteaux (1815 – 1884), un importante pittore ottocentesco attento ad adornare i fasti della prima rivoluzione industriale francese con gli ori e gli ermellini della restaurazione prima monarchica e poi imperiale. È un quadro davvero straordinario: prima di tutto perché è il solo che io conosca nella storia dell’arte nel quale le figure umane protagoniste del dipinto (ben sei) sono ritratte di spalle. E non ci è dato di rubare, nonostante gli sforzi che ci viene naturale di fare, neanche un particolare minimo della fisionomia dei volti di quelle sei persone allineate l’una vicinissima all’altra, in una schiera cameratesca e serrata. L’unico personaggio ritratto di faccia, anzi di muso, è il cagnolino minacciato (sembra scherzosamente) dal barone di Tourempé. Perché di questi signori conosciamo i nomi, i cognomi e i predicati nobiliari, si tratta di quattro cavalieri, di un marchese e appunto di un barone appartenenti alle più illustri casate di Francia: il che aggiunge un altro elemento di stranezza alla composizione del dipinto. I ritratti erano per l’aristocrazia uno strumento di autocelebrazione, un surrogato di immortalità: come mai questi illustri cortigiani hanno voluto farsi ritrarre dal lato B? Con l’uniforme rossa di St. Cloud, una delle residenze reali, nel giardino del castello al quale potevano accedere soltanto personalità importanti e all’epoca chi rivestiva funzioni di rappresentanza istituzionale mica poteva indossare felpe di variegata appartenenza, era tenuto ad abbigliarsi come previsto dai protocolli di corte. Quindi, ancor di più, sbalordisce un atteggiamento così disinvolto nei panni di consiglieri del cugino del re. E infine c’è una terza considerazione che rende più complicato l’enigma.
Il dipinto, un olio, ritrae una scena all’aperto settecentesca, abiti, accessori, copricapi e lo sfondo del giardino all’italiana collocano senza dubbio il racconto nel Secolo dei Lumi: ma sappiamo che Philippoteaux lo dipinse nel 1839. E non sembra davvero un’opera romantica. Infatti si tratta di una copia quasi conforme di una gouache del 1770 di Louis Carrogis de Carmontelles, drammaturgo, pittore, architetto, scenografo e disegnatore di uno dei primi esempi di giardino paesaggistico francese, il Parc Monceau di Parigi. Quindi sessantanove anni dopo una rivoluzione del gusto e degli stili artistici epocale, perché Philippoteaux sente il bisogno di copiare minuziosamente una gouache di maniera, testimone di un tempo spazzato via dalla più traumatizzante rivoluzione della storia? Non ho trovato mai spiegazioni. Io l’opera di Carmontelle non l’ho mai vista, apparteneva alla collezione privata del Conte di Parigi, l’ultimo pretendente al trono di Francia, quindi un Orléans: ecco forse perché un documento di vita quotidiana al Castello è rimasto custodito nella stessa famiglia per due secoli e mezzo; poi venduto in un’asta di Sotheby’s nel 2015, per una cifra neanche tanto alta, 531.000 €. Invece, il quadro di Philippoteaux è almeno in Francia abbastanza conosciuto, riprodotto in epoca moderna e contemporanea in stampe, stoffe e cuscini; nel 1985 apparve in parte (solo quattro dei sei gentiluomini) sulla copertina di una rivista che era il massimo del trendy, Vogue.
Ma ecco che in questo tempo di distanziamento sociale, finalmente, il perché di quel quadro e del suo successo attraverso due secoli e mezzo, mi è sembrato spiegabile e ha accompagnato i miei risvegli mattutini. Perché esprime con tale forza un’emozione tra le più antiche dell’umanità civile, quella del piacere dell’amicizia, da diventare emblematico: un racconto di vicinanza e di affettuosa condivisione, qualcuno abbozza un abbraccio, nessuno rispetta il famoso metro di distacco dal vicino, e il risultato è un momento di distensione vissuto da sei amici che si sentono tali per uguale condizione sociale, per antiche consuetudini di attività o semplicemente perché sono amici. L’autore non ha sentito il bisogno di dirci chi erano i sei mascalzoni spensierati che passeggiano alla luce di un pomeriggio in un giardino regale, anzi ci ha suggerito l’idea che era meglio non riconoscerli nemmeno, per suscitarci il desiderio di far parte di quella schiera numerosa e compatta che occuperebbe un intero marciapiede: invadenza sfrontata persino in tempi ordinari; figuriamoci in quelli del distanziamento sociale da Covid 19.
Nota in calce. Una visita guidata prevede comunque di essere completata dalle informazioni fondamentali per poter aver luogo agevolmente. L’opera della quale abbiamo parlato è esposta in un museo parigino bellissimo e affascinante, ancorché piccolo: Il Musée Nissim de Camondo, 63 rue Monceau, 75008 Paris. La rue Monceau, come ci rivela il nome, non è lontana da quel Parc Monceau del quale abbiamo parlato a proposito di Carmontelle. E il museo è ospitato in un hôtel particulier costruito nell’Ottocento dal conte Moïse Nissim de Camondo discendente da una ricchissima famiglia di banchieri ebrei sefarditi: fuggiti dalla Spagna a fine Quattrocento per salvarsi dalle persecuzioni razziali, i Nissim si stabiliscono nella Repubblica di San Marco tanto che il loro secondo cognome sembra alludere, con un’assonanza veneta (ca’ del mondo), al loro destino di cosmopoliti senza patria. Diventati i più ricchi e importanti banchieri d’Oriente, ricevono l’investitura di conti dal primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II per ricompensarli del sostegno finanziario offerto alla causa dell’unificazione italiana, vedete un po’ com’è piccolo il mondo per i cosmopoliti… E con la particule nobiliare finalmente parte del nome, il conte Moïse si stabilisce definitivamente a Parigi diventando un protagonista della vita mondana della Belle Époque. La famiglia si estingue nella prima metà del Novecento, prima con la morte dell’unico erede maschio nella Grande Guerra e poi con la morte dell’ultima discendente Béatrice assassinata ad Auschwitz con i suoi due figli nel 1945. Ma prima di questo epilogo tragico, il conte Moïse stabilì che dopo la sua morte la casa di famiglia diventasse la sede di un museo per ospitare le ricche collezioni di arazzi del Rinascimento e di arte (in particolare del Settecento): e in quel museo, inaugurato nel 1931 con crescente successo di visitatori, troverete al primo piano Les gentilshommes du Duc d’Orléans dans l’habit de St. Cloud. Naturalmente quando potrete di nuovo programmare un viaggio a Parigi…