A proposito de “La gloria della lingua”
La doppia lingua
Una raccolta di saggi di Daniele Piccini indaga la continuità della parola poetica seguendo due direttrici: la potenza dell'ispirazione e la semplicità del servizio “comunicativo". Da Dante fino alla poesia del Novecento
La gloria della lingua. Sulla sorte dei poeti e della poesia di Daniele Piccini (Scholé, Morcelliana, pp. 128, € 12,50) è un collected di saggi assai denso ed efficace. A partire dal titolo: in quale maniera la lingua potrebbe ambire a un suo status glorifico? È chiaro: attraverso la poesia. Ma, beninteso, non in senso tronfio o — peggio — trionfalistico. Il linguaggio raggiunge il vertice del dictum, ossia la sua estrema potenzialità espressiva ed esistenziale, in virtù dell’operare concreto e trasparente della lirica, ma «in un modo dimesso e insieme accorato». La forza di resistenza della parola si coniuga alla claustralità dell’artista-testimone (pagine meravigliose del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini illustrano in concreto questa condicio essendi), assai lontano dal modello del bon vivant legato all’affermazione di sé.
Piccini propone, dunque, una dicotomia essenziale (di matrice dantesca, appunto): la superbia dell’onore versus la semplicità del servizio. In questi tempi di compulsivo utilizzo dell’autopromozione, chiara è la strada — alternativa — che deve perseguire l’arte. «L’ordine dei problemi — scrive Piccini nella premessa — che il libro affronta nasce con il tema della “gloria de la lingua”, con il suo passare di mano in mano, fino ad epoche più o meno “grosse” (Purgatorio XI). L’idea dantesca di una gloria incatenata alla rivelazione del poema sacro, dunque a un’idea non superba né egotica del fatto poetico, ma piuttosto di servizio, umile (pur nella sua altissima pretesa), è il punto di partenza di tutte le osservazioni successive».
Il testo è diviso in sette parti che attraversano la letteratura italiana dalle origini con importanti affondi nel Novecento. Il primo capitolo, omonimo, funge da cornice alla riflessione dello studioso: nel canto di Oderisi da Gubbio (XI, Purgatorio) Dante confronta i due modelli d’essere per l’artista, l’uno evidente, l’altro implicito. Commenta Piccini: «Si direbbe dunque che Dante proponga qui un difficile nesso tra eccellenza e umiltà: tra ambizione e valentia, da una parte, e sentimento del limite dall’altra; o, per usare i termini di un grande poeta fiorentino del Novecento, Mario Luzi, tra scienza e innocenza (Luzi ne parlò a Ravenna nel 1965, in un saggio, Dante scienza e innocenza, da ultimo raccolto in Naturalezza del poeta). Basti citare un brano del saggio luziano sul prodigio da cui sembra fiorire la Commedia: “Ricordiamo ancora che codesto prodigio consiste in una impensabile associazione di scienza, consapevolezza e innocenza che ha vigore su tutti i piani, intellettuale, morale e artistico”».
Il secondo capitolo è dedicato al destinatario della poesia e prende le mosse da un passo dello Zibaldone (in cui Leopardi denuncia un atteggiamento sociale egocentrato: tutti scrivono e nessuno legge!), fino ad arrivare all’“istituto” del tu montaliano, screziato ed eterodosso. Una cosa è certa: il tu di Leopardi e di tanti altri autori è «il punto di germinazione di un’idea religiosa del colloquio poetico, al tempo stesso intimamente singolare e corale, cioè di tutti».
Nelle pagine seguenti si parla della sinuosa zigrinatura verbale di Ungaretti, dell’alto magistero di Turoldo, della lezione di Luzi e Sereni, delle linee contrastive di Fortini e Caproni: tutto sembra contrassegnare un passaggio d’epoca nel ruolo civile e — anche — metafisico del poeta. Anzi, «si può dire che il poeta moderno sia da un certo punto in poi immerso in una sorta di indifferenza, se non di ostilità, da parte del suo tempo. Rovesciato il tradizionale blasone di nobiltà e autorevolezza della sua funzione, egli è come respinto ai margini del discorso della polis. Una parte significativa del negativo registrato dalla poesia moderna deriva probabilmente da tale dislocazione periferica e isolata del poeta. Egli sembra non parlare più a nome di nessuno, sembra essere misconosciuto». Ed è, però, nel punto più abissale del misconoscimento della sua funzione che emerge una sorta di “aura” (benjaminiana) del calvario e della tribolazione, assai prossima a quella “santificazione della poesia” avviata da Hölderlin e proseguita nel Novecento da molti poeti europei (Heaney, ad esempio). «Al posto del mito della gloria, l’assillo della testimonianza; in luogo della riprova sancita dal riconoscimento, la prova insuperabile, e in sé dotata di senso, del martirio-offerta». È questa l’orlatura finale, decisiva per un’attualissima poetica dell’oggi: dalla gloria al martirio per un mistero glorioso di luce più vera.