Lidia Lombardi
Cucina in quarantena

Casatiello dei miracoli

Il casatiello, come dice Giambattista Basile, è tutta una questione di uova: si mettono dentro o fuori? Una questione nominale, perfino. Perché se stanno dentro, avremo il “tortano”, se stanno fuori, poggiate crude sopra, sarà appunto “casatiello”

Devo andare a comprare il lievito. Quello fresco, di birra, nei panetti da 25 grammi ciascuno. Al supermercato è terminato, speriamo che riforniscano lo scaffale. Perché il casatiello non può non dare il via al mio pranzo di Pasqua, come da sempre, da quando ero bambina. Non so se riuscirò a condividerlo con mia figlia, che non vive con me. Non so chi potrà esserci attorno al tavolo con la tovaglia bianca. Non so se ci sentiremo troppo soli. Però senza casatiello sarebbe azzerare perfino la carezza dei ricordi, cancellare ogni affetto, e alla fine consapevolezza di me.

Mia madre era napoletana, ha fatto la fame durante la guerra, come tutti nella città di Eduardo. Il rito del casatiello e della pastiera – quando “passò ‘a nuttata” – mi viene da lei, come a lei lo avevano inculcato la madre e la nonna, e tutti i parenti, e tutto il vicinato dell’Arenella. Be’, sulla pastiera non mi azzardo, me la fa (quest’anno chissà?) un’amica doc. Ma il casatiello è alla mia portata.

“Si chiama casatiello perché la farina si impasta co’  ‘o caso grattugiato, il cacio, il pecorino insomma. E sapite perché? Perché la primavera è la stagione delle pecore e degli agnelli, che tornano a ruzzolare nei campi”, diceva a noi ragazzini zio Elvio, nato a Giugliano, il paese degli aquiloni alle porte di Napoli ma poi, diventato medico militare, una vita passata al Nord, Milano soprattutto. Lui era il gran cerimoniere del pranzo della Resurrezione, nessun altro era capace di suddividere casatiello e pastiera in fette precise al millimetro, capaci di bastare per tutta la compagnia riunita dopo l’inverno.

Ciambella rustica da mettere in imbarazzo chi ha il colesterolo, questa dei ricordi. La farina si impastava aggiungendo al pecorino lo strutto (la chiamavano sugna, parola greve come l’oggetto cui si riferisce). Poi sale, tanto pepe, e, appunto, il lievito disciolto nell’acqua tiepida. Io da anni adotto la versione soft, per rispetto alle coronarie di tutti noi contemporanei. E dunque, dentro alla farina metto un giovincello capace di piroettare – l’olio extravergine d’oliva – al posto della sugna, che mi immagino come una cicciosissima tipo Ave Ninchi.

Allora, ecco il primo atto: mezzo chilo di farina, 25 grammi di lievito di birra sciolto nell’acqua tiepida, 50 di olio sopraffino, 10 grammi di sale, 10 o poco più di pepe, 50 grammi di pecorino grattugiato. Pluf, tutto nella “fontana” candida della farina, impastando piano piano per non far debordare gli ingredienti e poi con vigore, a massaggiare la pasta. Ci vuole sensibilità e amore, occhio fino e calma nell’aggiungere a poco a poco tanta acqua quanta ne serve all’alchemico amalgama.

La palla morbida color avorio è ora pronta per la magia, la trasfigurazione. La metto delicatamente in una bastardella di alluminio, la copro con un telo inumidito, poi avvolgo tutto in una coperta e sistemo il fagotto ai raggi di sole, magari sul davanzale della finestra. O accanto a un calorifero, se è nuvolo. Ci vogliono venticinque gradi di temperatura, quella di un mezzogiorno di piena primavera. A crescere, per tre ore almeno. E mentre aspetto il “portento”, mi torna in mente la bisnonna Concetta (de Alcubierre il cognome, memore di antenati blasonati e spagnoli) che veniva in missione a casa mia per prepararmi  il casatiello e mi lasciava di stucco, nonché divertita quando il “ruoto” con dentro la pasta lo sistemava nel lettone dei miei genitori, tra il materasso e le coperte, a creare alla buona un habitat caldo umido per l’”essere” che cambiava aspetto e dimensione, il doppio del volume di partenza e tante bollicine dentro, invece della primitiva massa compatta.

Tre ore di attesa, tanto di questi tempi non abbiamo fretta, non abbiamo impegni.

Mentre aspetto preparerò il ripieno. Duecento grammi di prolovone piccante ridotto in cubetti, altrettanti di salamella napoletana. Per ulteriore rispetto alle arterie niente ciccioli come da ricetta autentica (diventati peraltro merce rara, a Roma li trovavamo solo in una norcineria-boutique in via della Scrofa…). Ma state sicuri, il risultato sarà appagante lo stesso.

C’è chi per il ripieno prepara anche delle uova sode, due in questo caso, che vengono tagliate a spicchi. Però qui sorge una disputa di non poco conto, da far sorridere perfino Giambattista Basile, che dà cittadinanza a questo ghiotto rustico pasquale nel suo Lo cunto de li cunti: le uova si mettono dentro o fuori? Una questione nominale, perfino. Perché se stanno dentro, avremo il “tortano”, se stanno fuori, poggiate crude sopra, sarà appunto “casatiello”.

Ma tant’è: stendo la pasta lievitata a forma di lungo rettangolo, tanto largo da poter contenere i cubetti di provolone e salame, che vi getterò a pioggia, e da poter essere sigillato per bene. Avrà l’aspetto di quei salsicciotti di stoffa che si sistemano sul pavimento, davanti a una porta, per frenare gli spifferi. Poi lo chiudo a ciambella e lo adagio in uno stampo col buco in mezzo. Ancora pazienza: serve un’altra ora, a farlo riposare con i suoi congiunti cacio e salame, al calduccio, perché possano tutti crescere insieme felici e contenti. Infine, il decoro con le uova: due, tre al massimo, a distanza regolare l’una dall’altra sulla ciambella, fissate ciascuna con due striscioline di pasta che mi devo ricordare di mettere da parte. Hanno una doppia funzione: fermano l’uovo crudo (state tranquilli, non si romperà durante la cottura) e, messe così in croce, alludono al martirio di Cristo sul Golgota.

Nel forno, a 180 gradi per trenta minuti, il compimento del “miracolo”. Ma non fatevi tentare dall’assaggio. Io non mi permetterei mai di addentare il casatiello, tenero, profumato e tiepido, prima del pranzo di Pasqua. Dopo sì, nella scampagnata del lunedì dell’Angelo, o la domenica in Albis, l’Ottava di Pasqua.

Quest’anno niente pranzi allargati e scampagnata, temo. Ma lasciatemi almeno questo sapore consolatorio dell’infanzia.

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Le immagini sono di Roberto Cavallini

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