Incontro con il sassofonista
Nel mare del ritmo
Parla Filippo Bianchini, uno dei protagonisti del jazz italiano in Europa: «Suonare è come cavalcare una grande onda del mare. Le cose vanno bene e vanno da sole, la musica scorre senza sforzi, non bisogna fare nulla, si sta lì, in equilibrio»
Poche cose come la musica possono esprime i sentimenti che una persona prova o veicolare pensieri e sensazioni. Il jazz è forse una delle espressioni più esplosive della musica. Ne parliamo con il jazzista e sassofonista Filippo Bianchini. Bianchini suona in Italia, Belgio, Paesi Bassi, Francia, Germania, Finlandia, Stati Uniti e Regno Unito. Ha partecipato a tantissimi jazz festival internazionali, tra cui il North Sea Jazz Fest, The Hague Jazz, Umbria Jazz, Terni in Jazz, Duke Jazz Festival e molti altri. Ha pubblicato a suo nome tre dischi, Disorder at the Border (2015), Le Voyage (2017) e Sound of Beauty (2019).
Mi racconti il tuo nuovo disco?
La mia ultima registrazione s’intitola Sounds of Beauty. Si tratta di un album composto da brani tutti originali, eccetto uno di Daniele Tittarelli (L.M) che è uno dei miei musicisti preferiti e uno di Duke Ellington (Single Petal of Rose). Ogni brano parte da un’idea o un pensiero che omaggia qualcuno o qualcosa.
Quando hai capito che il Jazz era la musica che volevi suonare?
Io sono nato a Orvieto, ma ho vissuto a Roma da bambino. Ho iniziato a suonare da piccolo, avevo circa 7 anni. Mio padre mi insegnò i rudimenti del piano, poi, tramite un amico di famiglia, iniziai a prendere le prime lezioni di musica, di solfeggio, di cantati e lettura. A 9 anni ricevetti il mio primo sax (tenore) e quindi iniziai a suonarlo. Molto presto iniziai a suonare con altre persone, con una banda e qualche gruppo di Rock e Blues. Inoltre, ho iniziato a frequentare una scuola comunale di musica dove insegnava Mauro Verrone, un grande sassofonista romano. Lui mi ha fatto scoprire alcuni giganti del jazz e del sax come Lester Young, Coleman Hawkins, Sonny Rollins, Coltrane, Parker.. A quell’epoca, metà anni novanta, quando si investiva forse un po’ di più nei progetti culturali, la scuola di musica, organizzava dei seminari estivi di una decina di giorni con una grande orchestra di ragazzi, tra i 10 e i 16 anni, in un casale in campagna vicino al Lago di Bolsena. Gli insegnanti, oltre che Mauro Verrone, erano altri jazzisti bravi che arrangiavano per noi una serie di brani. Si stava assieme tutta la settimana, si suonava e si provavano i pezzi. Alla fine del corso ci esibivamo in vari posti. Fu un’esperienza fantastica.
Cosa ti ha lasciato?
L’essere immerso con altri miei coetanei, tutti i giorni suonare e ascoltare musica, mettere in pratica quello che avevo imparato e suonare davanti a un pubblico, spesso fatto di nonne, zie e amici, è stato fondamentale perché mi ha mostrato subito l’aspetto sociale della musica. Tra questi miei coetanei c’era un ragazzo un po’ più grande di me di qualche anno, Francesco Satolli. Era un talento del sax alto. Già lo conoscevo perché veniva a lezione di sassofono e sapevo che era bravo. Ma in orchestra mi sbalordiva perché suonava benissimo e io volevo essere come lui. Il momento in cui fui totalmente irretito dalla musica e compresi che era la mia strada, l’ebbi intorno ai 15 anni, quando scoprii la musica di Massimo Urbani. Urbani è stato il miglior sassofonista italiano di tutti i tempi e uno dei migliori sulla scena internazionale. Scomparso prematuramente agli inizi degli anni 90, Urbani è stato insegnante e amico di Verrone, il quale mi ha raccontato molto di lui, facendomene appassionare ancora di più. Quindi fu lì che decisi che volevo spendere molte energie nel sax e che il jazz era quello che amavo.
Cosa Significa il jazz per te?
Il jazz per me è espressione. Espressione di se stessi, ma anche di qualcosa di più grande. In realtà quello che cerco è esprimere il jazz attraverso me stesso come se io fossi un canale per farlo uscire. In pratica è ritmo, energia, melodia che formano storie, viaggi, racconti. Il jazz è allegria, è tristezza, è ironia o profondità, relax. Può essere tutto, ma va continuamente ricercato.
Mi racconti la tua esperienza in Olanda?
Appena finito il Conservatorio di Perugia dove ho studiato nella classe di sassofono con Mario Raja, mi sono trasferito all’Aja in Olanda dove ho iniziato la classe di jazz al Royal Conservatory di Den Haag. Era il 2007 e già quando feci l’esame di ammissione, mi accorsi presto che era un mondo avanti diventi anni! Ricordo che dovetti farmi aiutare da un amico per compilare la domanda che era interamente online. All’epoca per me internet era ancora un qualcosa di semisconosciuto, dovetti creare anche un account per la mail! Il Conservatorio era un luogo bellissimo fatto da studenti di tutto il mondo, con aule attrezzate con strumenti, computer, biblioteca e soprattutto ottimi insegnanti. Ho avuto la possibilità di studiare con un grande musicista, John Ruocco, sassofonista e clarinettista americano che vive in Europa da quasi 40 anni. Per 6 anni ho vissuto 14 ore al giorno al conservatorio! Studiavo, facevo lezioni e suonavo sempre! Ho imparato bene l’inglese, cosa che per me non era scontata e soprattutto ho avuto un confronto con ragazzi e persone da tutto il mondo e questo mi ha cambiato la visione di tutto. Ero un migrante e in generale sono stato sempre accolto bene, a parte qualche battuta sull’essere ”italiano pasta pizza e mandolino”. L’Olanda è stato un posto fantastico per approfondire la mia formazione e devo davvero ringraziare questa nazione, ma ho sempre saputo che non era un posto in cui avrei potuto vivere. Così nel 2013 appena finito il conservatorio mi sono trasferito a Bruxelles dove ho vissuto fino al 2018 e dove continuo spessissimo ad andare a suonare.
Anche in Belgio hai avuto un’esperienza importante?
Il Belgio e in particolare Bruxelles, hanno questa parte francofona che ”ingentilisce” tutto e rende molto familiare la realtà. È un po’ il sud del nord se capisci cosa voglio dire! Bruxelles è davvero una città che amo e mi sentirò sempre un po’ Bruxellese. Bruxelles non è una città bella e affascinate come Parigi o Roma, ma ha un suo charme che scopri piano piano. È molto viva culturalmente, ci sono tantissime cose da fare e non mi sono mai sentito straniero. Inoltre, qui ho avuto l’opportunità di suonare con tanti musicisti e sono stato preso sotto contratto da una label belga, la September, un’etichetta storica di jazz che ha prodotto grandi artisti come Joe Lovano o Barry Harris per citarne alcuni. Hans Kuster, che ne è il proprietario, ha interamente prodotto i miei 3 dischi da leader compreso l’ultimo, Sounds Of Beauty. Dal 2018 mi sono trasferito a Roma, ma continuo a tornare spesso e volentieri a Bruxelles e spero di poter continuare a farlo perché è una città che fa parte di me.
Che cosa ti ha insegnato la musica?
La musica mi ha insegnato tante cose. Mi ha fatto capire che se vuoi ottenere qualcosa ci devi lavorare. Mi ha insegnato che se vuoi ottenere qualcosa non basta lavorarci, ma devi capire come lavorarci. È un processo di ricerca continua su se stessi. Studiare Musica è studiare se stessi e anche studiare come studiare. La musica mi ha insegnato la ricerca della bellezza, l’osservazione della bellezza nel mondo, per poterla mettere nella musica. Meno male che c’è la musica!
Quali sono gli artisti con cui hai collaborato che ti hanno insegnato di più?
Premesso che ogni volta che suono con qualcuno posso imparare qualcosa in più, devo molto ai musicisti che suonano nel mio gruppo, Nicola Andriloi, Jean Louis Rassinfosse, Armando Luongo, Igor Spallati e Jean Paul Estievenart. Ogni volta mi fanno capire sempre di più le possibilità infinite che si possono percorrere quando si suona. La ricerca di un dialogo per rendere la musica viva e originale. Devo molto agli insegnanti che ho avuto a partire da Mauro Verrone, Mario Raja, John Ruocco, David Liebman, Max Ionata, Marco Collazzoni, John Ellis e molti altri. Un musicista che di recente mi ha ispirato molto è stato Roberto Gatto. Ho avuto modo di suonare con lui qualche tempo fa e mi ha fatto capire quanto sia fondamentale essere attenti su vari aspetti della musica e non lasciare dettagli al caso, perché spesso è proprio nei dettagli che sta la differenza. Roberto è un musicista che stimo molto. Molti dei dischi che amo lo vedono alla batteria. Un musicista che si mette in discussione musicale, che vive per la musica, che cerca il miglioramento. Apprezzo molto e rispetto tutte le persone che inseguono questa direzione.
La musica è contaminazione. Può essere un modo per insegnare la curiosità verso la vita e la diversità?
Il jazz nasce come contaminazione tra diverse culture. Noi italiani che amiamo il jazz siamo per forza attratti da qualcosa di diverso e di lontano, visto che questa musica non è nata qui. Anche se un grosso contributo al jazz viene dagli afro americani, tutti hanno contribuito e contribuiscono al suo sviluppo. Molti jazzisti tra i più forti avevano o hanno origini italiane. Tutta l’evoluzione della musica si è sviluppata perché i compositori sono venuti a contatto con culture differenti. Per esempio Napoli, che è da sempre una città meticcia culturalmente parlando, ha una musica ricchissima dal punto di vista delle contaminazioni. Se sento Pino Daniele posso ascoltare, oltre alla cultura italiana e napoletana, anche quella araba, spagnola, africana e tante altre. La diversità apporta novità, modifiche, ricchezza. In fondo la musica è un po’ come il cibo, si contamina. Ci sono regioni italiane come la Sicilia dove i piatti tipici sono molto vari, ricercati e ricchi di sapori differenti, molto di più che in altre regioni. Perché in Sicilia ci sono state storicamente tante culture diverse che sono passate, ognuna ha lasciato un segno, si sono mescolate. Le culture che hanno avuto modo di mescolarsi con altre sono diventate più forti, più ricche, varie ed interessanti, così la musica. Io sono convinto che siamo solo persone, non italiani, francesi, americani o indiani. Tutti noi veniamo al mondo e ci ritroviamo qui incapaci di sapere cosa ci aspetta ”dopo”. Da questo punto di vista siamo davvero uguali, pur essendo tutti originali e allora quello che possiamo fare è impiegare la nostra vita nel miglior modo possibile per rendere la nostra e quella degli altri migliore. Accettare il diverso è accettare noi stessi. E non dobbiamo mai dimenticarci che tutti noi possiamo essere diversi agli occhi di altri.
Che progetti hai per il futuro?
Quello di migliorare sempre, di non smettere mai la mia ricerca musicale! C’è sempre da imparare e studiare.
Che cosa consiglieresti a qualcuno che sogna di diventare un musicista?
Di seguire la passione, studiare e se possibile, andare a studiare e a vivere in altri posti per avere riferimenti differenti.
E a qualcuno che vuole imparare ad ascoltare il jazz?
Intanto credo che se ci avviciniamo a un genere è perché ne siamo affascinati, incuriositi. È perché ascoltando un brano qualcosa in noi si muove. E quindi presi da questo sentimento se vuoi inconscio, ci spingiamo ad approfondire. Il termine jazz è vasto. È come un oceano sterminato ed è difficile sapere dove andare. Ci sono tanti brani che si definiscono jazz ma sono molto diversi l’un dall’altro. Quindi non bisogna fermarsi al primo ascolto. Mi verrebbe da dire di ascoltare molto in generale, capire cosa più ci piace e andare in quella direzione. Poi, visto che spesso le cose sono collegate, arriveremo partendo da una cosa ad ascoltare altro presi dalla curiosità. Ci sono molti musicisti che dieci anni fa non mi affascinavano, pur se ne riconoscevo le capacità. Oggi li ascolto perché ho capito meglio il loro messaggio. Quindi bisogna forse seguire il proprio istinto e avere la curiosità di seguire quello che ci emoziona. A volte anche leggere informazioni su un musicista e sulla musica che faceva, sapere il contesto storico e culturale in cui quella musica, quei brani si sono sviluppati, ci aiuta a comprendere meglio il significato ed il senso musicale.
Che cosa provi quando suoni?
Quando si suona è come cavalcare una grande onda del mare. Ci sono dei momenti, in cui le cose vanno bene e vanno da sole, la musica scorre senza sforzi, non bisogna fare nulla, si sta lì, in equilibrio. Purtroppo è un equilibro precario a cui non tutte le volte che si suona si riesce ad arrivare e da cui si cade facilmente. Ma quando succede è fantastico ed è per quello che impegno la mia vita a soffiare nel “tubo”, per stare in quell’equilibrio, sempre di più!
Disorder at the Border (2015)
https://www.youtube.com/watch?v=JtjaBbqwPpA&t=41s
Le Voyage (2017)
https://www.youtube.com/watch?v=nmIxJimOT6Y
Sound of Beauty (2019)
https://www.youtube.com/watch?v=uv3XgehHg5Q