“Tu io e Montale a cena” di Gabriella Sica
Amico Zeichen
La metafora del nutrimento, il significato profondo e poetico dell’amicizia, il sentimento di una presenza che accompagna il sentimento dell’esistenza. Nelle 40 poesie dedicate al poeta di Fiume scomparso nel 2016, alla sua dolce alterità
Sono occorse quaranta settimane per comporre le quaranta poesie di questo libello, come si legge nella nota dell’autore in chiusura del libro. E le quaranta settimane vanno contate a partire da un giorno preciso, il 17 aprile del 2016, che coincide con un giorno significativo per la segreta trama del volume: il giorno in cui si è a suo modo annunciato il destino del poeta Valentino Zeichen, cui le poesie sono dedicate. Per i poeti le date e i numeri non sono mai casuali, e per singolare coincidenza (o forse neanche in questo caso si tratta di coincidenza) anche la data di scrittura di questa recensione è proprio il 17 aprile, quasi a dimostrare che chiunque si accosti a queste poesie debba soggiacere a un destino delle date, cui si legano dei significati simbolici o allegorici, forse per alcuni aspetti anche premonitori dei difficili tempi della nostra quarantena.
Tu io e Montale a cena di Gabriella Sica (Interno Poesia, 104 pagine, 10 euro) è lo spazio poetico di una ricapitolazione, del ritorno degli sparsi frammenti di senso che ricompongono una memoria e una idea dell’amicizia poetica. La poetessa, come una Grande Madre, ricuce gli strappi del destino e nutre i suoi lettori con i suoi miti che si incarnano in parole. Non uso casualmente la metafora del nutrimento. Essa non solo è giustificata dall’immagine che intitola il libro e dalla evocazione delle cene a casa di Zeichen. Il convivio di memoria platonica è la sostanza più profonda di questa raccolta poetica, nella quale il nutrimento dispensato dalla poetessa ai suoi commensali mi sembra intrattenere un legame fortissimo con una idea di amore, quella della filosofa Simone Weil. Per lei si può amare solo ciò che si può mangiare: tuttavia non si amano gli esseri umani per fame, ma in quanto nutrimento. Quasi come cannibali, gli uomini che si amano vivono questa singolare situazione: gli esseri amati, con la loro presenza, le loro parole, le loro lettere, ci apportano un’energia, un conforto del tutto simile all’effetto che ha su di noi un buon pasto dopo una giornata spossante di lavoro.
L’intensa immagine dell’antropofagia amorosa weiliana suggerisce l’importanza del nutrimento che la poetessa offre. Come i cannibali di Weil, anche noi lettori, dopo aver assaporato le parole di Sica, ci sentiamo come rinfrancati da un buon pasto. Ma la poetessa nutre perché si è a sua volta nutrita di una presenza amata, prima fra tutti quella del suo amico poeta Zeichen e di tutti gli altri amici poeti e non poeti, vicini e lontani. Non solo la metafora del nutrimento, ma anche il significato profondo e poetico dell’amicizia scorre costantemente nella mitologia poetica del libro. E quando penso all’amicizia mi torna alla mente l’idea aristotelica della stessa, la quale, come ha fatto notare Giorgio Agamben, non presuppone, come per il bestiame che condivide il pascolo, l’idea del condividere, quanto piuttosto l’idea del convivere, dell’avere da sempre in comune lo stesso sentimento dell’esistenza. Per tale ragione, il poeta Zeichen, nelle parole poetiche di Sica, è l’amico: non un altro io della poetessa, ma una alterità che convive con la poetessa, con il suo stesso dolce sentimento dell’esistenza.
Il conforto del nutrimento e l’amicizia convivono in questo universo poetico all’insegna della leggerezza e dell’ironia, cifre preziosissime di questi versi: «Si sarebbe chiamato Hermes un tempo / versatile e leggero / il suo equipaggiamento per la vita / belle scarpe confortevoli / […] per andare veloce come il vento / con le ali alle caviglie» (p. 29). L’evocazione del dio minore ermetico-ironico richiama alla mente l’importanza per il verso di essere «versatile e leggero / per riuscire infine sobrio e naturale» (p. 30). In simbiosi con la poesia di Zeichen, l’amicizia fra i due poeti si esprime anche nella convivenza degli stili.
Nell’universo mitico-poetico creato ad arte da Sica (nella foto, @Dino Ignani), persino il glicine dell’Arcadia di via Flaminia, dove il poeta abitava, è «indice sacro di leggerezza / e grazia sensuale» (p. 87). L’amicizia fra gli uomini dialoga amabilmente con la natura e questa diventa madre che abbraccia quando il poeta muore: «S’inchinano da Villa Strohl Fern i pini / alla logora dimora» (p. 23). In assenza della pasta al sugo di pomodoro passato di Zeichen, il giardino antistante la sua baracca nutre i convenuti: «il suo fico generoso / che si protende contorto su in alto / ha offerto a ognuno squisiti fichi / dolci in gola estivi / come un foglioso cesto capovolto» (p. 27).
L’aura mitologica della poetessa si stende sulla città di Roma, anch’essa affranta per la perdita del suo Enea, «dall’est in fiamme sceso / dall’Adriatico agitato / al Tirreno che gli scogli stanca / dal vecchio Oriente / al periglioso Occidente / per la pianura in là verso il Lazio» (p. 50). «Verso l’amato mare / il suo essere si estenderà ancora» (p. 25) e la sua patria di elezione, Roma, lo piange: «risuonano di te i travertini di Roma / il sarcofago di Piazza del Popolo / ansima prosciugato / si sentono i ruggiti dei leoni immoti» (p. 23).
In questa intensa raccolta il poeta, «solo sulla porta dell’Ade» (p. 56), trova la memoria amichevole della poetessa che nutre la sua voce con l’eco della tradizione mitica. Come Omero, Virgilio e Dante, prova ad abbracciare le ombre dell’oltretomba «nella grigia sotterranea nube»: per tre volte apre le sue larghe braccia, ma stringe solo fumo e vento. Quando si sveglia ricorda il sogno e il vento e ritrova le sue mani vuote sul petto: «non altri che me abbraccio / non altro rimane di quanto è stato / se non il radioso ordito di un sogno / affollato di volti fatti d’aria» (p. 70). E noi siamo grati alla poetessa per il suo ordito, per la sua tela favolosa, per il suo ago rovente.