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Abitare Kandinsky
Nelle opere di Kandinsky si percepisce fortissimo il rapporto tra “dentro e fuori” nel quale entrano in gioco la musica e la gestione dello spazio. Nel suo “Impressione III” c'è il tratto iniziale, dirompente della sua rivoluzione
Dentro… Fuori. Sembra un viaggio impossibile quello che ci impone questa quarantena forzata. Difficile trovare il fuori che era e sarà in questa città inverosimile e svuotata. Difficile rifugiarsi dentro con il corpo che scalpita adesso e i desideri che s’ingolfano in pensieri di fuga o sbiadiscono in sogni.
Forse potremmo prendere esempio da chi quel viaggio l’ha fatto davvero e pure ”fotografato” in un quadro, mettendosi in posa come nel “c’ero anch’io” di un selfie: Wassily Kandinsky, il padre fondatore dell’arte astratta. È una tela di 77 x 100 cm, intitolata Impressione III che oggi si può ammirare insieme ad altri capolavori dello stesso artista in una sala della Stadische Galerie di Monaco. Condensa come in un istantanea le emozioni di Kandinsky, spettatore insieme ad altri, di un concerto del compositore austriaco Schönberg, geniale innovatore che scardinò le regole tonali della musica classica e il suo tradizionale ancoraggio alla scala in sette note. È un’opera ponte che traccia un fascinoso percorso d’epoca tra il dentro e fuori e viceversa, sigillando il definitivo congedo del suo autore dai canoni dell’arte di figura. È datata 1911.
È passato già un anno da quel primo acquarello, ispirato anch’esso alla libertà espressiva della musica, che segna nei dizionari la nascita ufficiale dell’astrattismo. Ma qui è come se Kandinsky si voltasse commosso per un’ultima volta all’indietro e facesse riapparire nell’impianto della scena i fantasmi di quei riferimenti alla realtà esterna che stava abbandonando. All’impatto in presa diretta dello sguardo ci rimanda quella macchia centrale nera a trapezio, che evoca il pianoforte a coda sul quale Schönberg stava eseguendo il suo pezzo più applaudito. Alla figura umana è dedicata quel tripudio di sagome in primo piano a sinistra che sembrano tratteggiate da un bambino, a simulare una platea che si alza in piedi in un battimani finale.
Rompendo la rigidità di ruoli che Kandinsky rimproverava allo spazio dei teatri: qui il palcoscenico, aldilà il pubblico in poltrona. Una distanza estraniante che contestava, come un vizio concettuale, anche all’impianto prospettico della pittura dal Rinascimento in poi, al movimento bloccato dei gesti, alla verosimiglianza e alla supremazia delle icone umane che popolavano il quadro: gli artifici delle idee sovrapposti come un velo ingannevole al libero fluire delle emozioni. Il dominio del fuori contrapposto al mistero del dentro come fosse una legge di natura. Un limite invalicabile che pesa ancor oggi nella diffusa difficoltà, nelle resistenze di un pubblico non preparato alla comprensione dell’arte astratta.
Non a caso, nel parlare comune il riflessivo «astrarsi» si trascina appresso una connotazione negativa. Sta per distrarsi, chiamarsi fuori, perdersi in universo sfuggente, lontano dal dialogo e dalla comunicazione. Se non ci si libera di questo pregiudizio diventa impossibile valutare e gustare la rivoluzione introdotta da Kandinsky. La rinuncia alla figura come primo passo di un rito iniziatico liberatorio, un pedaggio da pagare per penetrare dentro, più dentro, l’essenza stessa dell’arte e dell’umanità. Per distillarne nuovi modi di esprimersi, registrare le mutazioni del mondo esterno, ampliare concretamento il perimetro e la profondità dei pensieri e delle emozioni.
Certo per non cadere nell’abbaglio opposto, altrettanto importante, oltre un secolo dopo, inquadrare nei fermenti del suo tempo la personalità di Kandinsky e cercare di distinguere il suo contributo di teorico dai suoi risultati d’artista. Insomma rileggere con attenzione la sua biografia, dove questi aspetti sono legati in modo quasi inestricabile. E riflettere su un dato che balza subito agli occhi. Il fatto che Wassily Kandinsky (1866-1944), russo di famiglia benestante approda al traguardo dell’astrattismo in età matura. Nel 1910: i quarant’anni superati da un pezzo. Dopo un complesso di andirivieni e soggiorni in vari paesi. E di studi e pratiche di diverse discipline: musica, legge, Belle arti, teosofia.
In empatia con la svolta culturale e sociale che ha investito l’Europa: il positivismo eroso dall’irruzione dell’inconscio freudiano e dalle profezie nihiliste di Nietzsche, l’Occidente che sta per precipitare nel baratro della prima guerra mondiale. E poi la catena di mutazioni della pittura. La vocazione al realismo travolta dalla sperimentazione delle avanguardie e da un vertiginoso succedersi di esperienze: l’avvento e la concorrenza della fotografia, la velocità di sguardo dell’impressionismo, l’uso emotivo del colore praticato dagli espressionisti e dai fauves, la scomposizione plastica e modulare dello spazio introdotta da Cezanne, la moltiplicazione e la simultanea decostruzione sfaccettata dei piani del cubismo, il culto contagioso del movimento predicato dai futuristi.
Sono tre i tracciati intuitivi e teorici che Kandinsky segue. Il primo è l’elaborazione personale di un obiettivo che da sempre è segno distintivo e ambizione dell’arte, la sua essenza qualitativa: tradurre in visibile l’invisibile. La seconda spinta viene dalla sua vocazione esoterica, motivo conduttore dei suoi saggi, e soprattutto di quel testo, datato 1911, Lo spirituale nell’arte, che è il suo lavoro più compiuto e ammirato. La terza, infine, dalla sua formazione musicale e dalla passione, condivisa con molti compagni di strada dell’epoca, per le innovazioni di Schönberg e altri compositori della sua madre patria, come Scriabin. La musica come linguaggio svincolato da una definita aderenza alla realtà che penetra dentro e muove fantasia e condivisione attraverso le emozioni. Le note, le linee melodiche, i contrappunti, come simboli dello stesso processo di penetrazione sensoriale , immedesimazione e trasfigurazione che operano i colori e i segni.
Un alfabeto di corrispondenze emotive che si rispecchia nella tavolozza cui Kandinsky fa ricorso nel suo dipinto sul concerto di Schönberg. A destra una campitura di un giallo acceso e sfrangiato che traduce in materia visibile la vitalità che quella composizione ridesta nell’animo di chi ascolta. E poi i colori che infiammano e precipitano nel vortice dello spettacolo le silhouette degli spettatori. Il blu, il rosso, l’arancione. A ognuno una sua tonalità, perché le emozioni e le vibrazioni cromatiche che la musica porta alla vista e diffonde in circolo, come un sangue che irrora le vene, cambiano da soggetto a soggetto.
A questa tela, e a tutti gli altri capolavori che Kandinsky ci ha regalato, proseguendo e cambiando strada, devo due insegnamenti preziosi, che continuano a guidarmi nei labirinti della pittura. Ogni tipo di pittura, perché il solco che divide l’universo delle icone e quello dei puri segni appare oggi molto meno profondo e mai, a mio avviso, lo è stato. Due regole che chiamano ancora in causa quell’irrinunciabile viaggio tra il dentro e il fuori da cui sono partito.
La prima è che di fronte ad un quadro bisogna, prima di ogni altra valutazione, predisporsi ad ascoltarne la musica che emana. Armonica o disarmonica che sia. Quella scia di voci nascoste che accompagnano il prendere e il perdere forma, prolungano gli echi delle emozioni che attraverso i colori si avvicinano e si allontanano da noi. Scavalcando persino i recinti delle intenzioni.
La seconda regola è che un quadro, ogni quadro, parla solo se ci adattiamo ad abitarlo. A entrarci appunto dentro come si fa con una casa che si visita per la prima volta. Anche se all’inizio sembra scomoda, respingente.