Pier Mario Fasanotti

I baffi di Erdogan

Witold Szabłowski, un giornalista polacco, ha trascorso un lungo tempo in Turchia per capire se il regime di Erdogan è davvero così popolare. Ne è nato uno strepitoso reportage sulle contraddizioni di un mondo di confine

Il premier turco Recep Tayyp Erdogan ha i baffi. Non è un’annotazione stupida o marginale. I baffi in Turchia hanno un significato politico. I nazionalisti ce l’hanno più lunghi; i socialisti un po’ più corti. Gli islamisti più corti di tutti. Chi conosce questa distinzione si è sorpreso quando ha vinto le elezioni Erdogan. La Turchia è un paese molto bello ma anche molto strano, pieno di contraddizioni. Lo spiega bene Witold Szabłowski, un giornalista i cui reportage sono all’altezza di quelli di Tiziano Terzani e di Ryzard Kapuscinski. Il nostro Witold si è immerso nella Turchia, ha parlato con molta gente: dagli omosessuali alle prostitute, dai giornalisti agli storici, e spesso ha seguito le informazioni dei tassisti. Il suo libro L’assassino dalla città delle albicocche è appena uscito da Keller editore (280 pg., 17,50 euro).

Istanbul ha un ponte che unisce l’Europa all’Asia. Ha scritto Ohran Pamuk, premio Nobel turco per la Letteratura: «Mi sento come se fossi continuamente su un ponte che unisce le due città del Bosforo e, senza appartenere né alla parte asiatica, né a quella europea, le descrivessi entrambe». Tra le piazze più famose del Paese una si chiama Gezi, ed è uno dei parchi della metropoli, con una bellissima fontana: nel maggio del 2013 ci sono stati scontri e manifestazioni perché il governo voleva abbattere la caserma per trasformarla in un centro commerciale. In questo spazio si radunano molti omosessuali, anzi è uno dei luoghi più frequentati. Erdogan li odia. Dice un giovane: «Gezi è famoso in tutta la Turchia per questo, Tayyppino (diminutivo spregiativo di Tayyp Erdogan) lo sa perché è cresciuto a due passi da qui». Un altro testimone: «Da quando ci hanno buttato fuori dal Gezi, tutte le checche stanno nelle stradine laterali: fai un giro, vedrai come sculettano». Ma è anche vero che molti sono tornati in piazza. E aggiunge, divertito, che durante l’irruzione delle forze dell’ordine, «molti si sono divertiti a vedere i “culetti“ dei poliziotti». Sulla moschea nulla hanno da eccepire. C’è però da registrare che durante l’occupazione del parco di Gezi, si svolsero manifestazioni in altre città: sette morti, mentre sei dimostranti e un poliziotto sono “caduti” in un fiume.

Manifestazioni violente ci sono state anche in piazza Taksim, dove sono stati usati per la prima volta i gas lacrimogeni. Le donne oggi possono tranquillamente passeggiare senza il velo. Le statistiche si contraddicono. C’è chi sostiene che le velate siano in aumento. In ogni caso escono di casa. Commenta un anziano: «Meglio così. Se stanno in casa i mariti le picchiano». Le Hostess della Turkish Airlines non possono avere il rossetto.

Racconta un intellettuale: «La Turchia è ancora oggi il Paese che incarcera più giornalisti al mondo. I dirigenti dei grandi gruppi editoriali sono a volte minacciati. Al momento delle proteste più dure la rete televisiva Cnn-Turk ha trasmesso un film documentario sulla vita dei pinguini». Secondo i sondaggi Erdogan continuerebbe ad avere il record delle simpatie.

L’economia non va così bene come una volta, ma è pur sempre in testa nella regione mediorientale. Chi nel 2013 ha comprato le azioni delle aziende turche è andato in perdita. Istanbul ha bisogno di soldi, e questo spiegherebbe il ricatto che in questi giorni fa all’Unione europea aprendo ai profughi i confini, col dramma umanitario spaventoso che si svolge nell’isola greca di Lesbos, dove persino i ragazzini hanno tendenze suicide e si strappano i capelli. Se l’Europa – questa è l’opinione di chi scrive questa nota – non si deciderà ad avere un atteggiamento politico-economico univoco, la situazione è destinata a essere devastante, tenuto contro dei conflitti armati nella regione mediorientale.

Racconta Witold Szabłowski che «quando sul Bosforo cala la sera e migliaia di muezzin iniziano ad annunciare che Allah è grande, le conversazioni tacciono e le persone piombano in un umore melanconico e metafisico». Riferisce un poeta: «Ogni turco si sposta mille volte al giorno fra la tradizione e la modernità. L’Unione europea e l’ostilità verso l’Unione europea». Nella parte orientale ci sono bandiere europee vicino alle moschee. Molte le donne che frequentano negozi di intimo femminile: di giorno sono tradizionaliste, di sera vogliono essere sexy. Anche perché la media dei mariti che tradiscono le mogli è impressionante. La Turchia non vieta la prostituzione.

Dice uno storico: «Essere al confine ha i suoi vantaggi. I turchi sono creativi, imparano le lingue velocemente, in un attimo uniscono persone di ogni latitudine; anche se hanno la posizione geografica peggiore che si possa immaginare dato che confinano con stati “irrequieti” come Siria, Iran e Iraq, sono in grado di mettersi d’accordo con tutti. Ma essere al confine ha anche un prezzo. L’Occidente li considera dei fanatici. L’Oriente dei leccapiedi dell’Occidente».

Il più indiscusso eroe della Turchia è il poeta Nazim Hikmet Borzecki (Salonicco 1902 – Mosca 1963), molto conosciuto e apprezzato anche in Italia. Lo chiamavano “il comunista romantico”. È stato dieci anni in prigione per il credo politico. Voleva incontrare il suo idolo Stalin, ma una volta nell’Urss capisce immediatamente che aria tira, sente l’odore nauseabondo dei leccapiedi e avverte falsità a un chilometro di distanza. Durante una riunione di intellettuali a Mosca non ha peli sulla lingua: «Fratelli, ho passato anni in prigione sognando i teatri di Mosca… Mosca era una rivoluzione di strada che si è trasformata in una rivoluzione di scena. E cosa vedo oggi? Uno spettacolo privo di gusto a cui è stato dato il nome di socialismo reale. Vedo una quantità incredibile di ruffianeria. Come può essere rivoluzionaria la ruffianeria?». Stalin fa sapere di essere molto occupato e disdice l’incontro. I suoi intellettuali gli vanno dietro: le poesie di Hikmet non sono poi granché, dicono. Il poeta viene poi a sapere che l’autista che gli era stato assegnato aveva il compito di farlo fuori. Ci vogliono dieci anni dalla sua morte perché il governo turco lo tolga dall’indice e gli restituisce la cittadinanza. A Istanbul è sorto un piccolo museo in suo onore.

Una questione storicamente molto delicata è quella degli armeni. Oggi se ne parla in certi convegni, ma guai a gridare al massacro, che pure ci fu. Un ricercatore storico ha avuto molte difficoltà a ricostruire la vicenda ed è stato fatto oggetto di insulti e minacce. Il genocidio armeno è stato perpetuato dall’impero ottomano tra il 1915 e il ’16. Un milione e mezzo di morti. Ci sono, ovviamente, negazionisti, tra cui l’inglese Bernard Lewis, secondo il quale non ci sarebbero prove del massacro organizzato e finanziato dal governo. Sarebbero stati i polacchi a formulare la parola genocidio. La realtà è drammaticamente diversa a sentire gli storici più preparati. Già alla fine dell’Ottocento gli armeni volevano staccarsi dalla Turchia. In risposta, il sultano Abdul Hamid incitò turchi e curdi a organizzare dei pogrom anti-armeni. Questi ultimi risposero coi massacri della popolazione turca, anche a Creta. Soltanto l’Anatolia sembrava non essere a rischio. Ma sarebbe stato ingenuo pensare che gli armeni aiutassero i turchi nelle deportazioni (gli armeni dovevano lasciare le loro case nel giro di 24 ora). Di qui gli scontri e le violenze. Acuta osservazione di un altro storico: «Non c’era nessun altro motivo per la deportazione, se non che fossero armeni. Già questo sarebbe un elemento sufficiente per parlare di genocidio».

Ultima annotazione. Il titolo di questo brillante reportage allude alle albicocche (che sono buonissime e molto profumate in Turchia) e a un assassinio ad esse legate. Rimandiamo alle pagine del libro.

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