Vivere in quarantena
Penelope e il virus
Due dipinti ispirati a questi giorni di cattività. Giorni nei quali ciascuno di noi può solo aspettare, tessere e disfare continuamente la tela della sua vita, come Penelope aspettando Ulisse
Da tempo penso che il mestiere di vivere, come ogni attività d’incertezza e creazione, si risolva in un incessante, prezioso ma quasi sempre rimosso, lavoro di costruzione, demolizione, ricostruzione. In un interminabile fabbricare, disfare, tornare a fabbricare il guscio delle nostre prigioni. Interrotto da cadute, agnizioni, balzi in avanti, pause, regressioni, ripensamenti, pause, evasioni. Un tragitto lastricato di fantasmi che sento riaffiorare ora che quest’isolamento forzato sempre più rigido imposto dall’epidemia sigilla la vita di tutti in una gabbia oggettiva di isolamento e divieti. Un carcere, che coincide, quasi una beffa, con il rifugio della nostra casa, la tana apparentemente protettiva dei ricordi, degli affetti e dei desideri, lo spazio che raccoglie le tracce degli infiniti modi con cui ci siamo impossessati e spossessati del tempo di esistere.
Un recinto blu, un balcone di incubi e sogni – così almeno lo immagino – che fa da controcanto alle zone rosse o arancioni con cui è stato mappato il diffondersi del contagio. Alle danze d’impazienza e speranza che si improvvisano sulle terrazze. La notte opposta ai bagliori inquieti del giorno. Un tempo d’attesa che evoca uno slittamento nel mito. E mi trasporta ad Itaca, approdo di infinite partenze e infiniti ritorni. A quella tela, così simile a un quadro (a questi quadri?) sulla quale Penelope tesseva al sole ricami che poi disfaceva ogni notte, mimando senza saperlo con gli andirivieni dei suoi fili gli sbarchi e i naufragi, le tentazioni e i tradimenti del suo Ulisse lontano.
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I due dipinti qui riprodotti sono, ovviamente, di Danilo Maestosi dal titolo “In casa. Con i fantasmi”.