Manuela D'Aguanno
Cronache dall'Italia sospesa

L’importante è parlare

«Non vedo nessuno neppure dai balconi, che di questo periodo sono sempre pieni di fiori. Non ci sono neppure quelli. Il silenzio è talmente forte che con i finestrini abbassati e la radio spenta, ho sentito la musica provenire da una di queste case»

Immagini di Roberto Cavallini

Sono in fila fuori dal supermercato. Mascherina e distanza di sicurezza. La scena mi ricorda quando all’asilo la maestra ci diceva di metterci uno dietro l’altro e di stare in silenzio. Lo facevamo controvoglia eppure lo facevamo. Come adesso.

Molti hanno le mani in tasca e guardano per aria. La maggior parte traffica con le dita sul cellulare e tiene la testa bassa. Poi però il momento in cui ci si guarda arriva sempre.

‘Ma che sul serio? È così? Sta accadendo davvero?’. Questo ci diciamo senza parlare. E poi, anche se in molti casi ci guardiamo con sospetto o rassegnazione, alla fine ci sorridiamo. Quasi sempre. E te ne accorgi dagli occhi che è un sorriso. Le labbra, quelle, non c’è bisogno di vederle per saperlo.

Le strade sono semi deserte. Di tanto in tanto vedi qualcuno che cammina veloce con le buste della spesa e tutto imbacuccato, maschera e guanti in lattice compresi, poi poco distante magari ne vedi un altro che invece senza maschera e niente corre, tutto sudato. Ma sono davvero pochi. Questi ultimi soprattutto ormai. Qualche automobile passa, ma il traffico che di solito c’è qui, lungo questa via almeno, è sparito del tutto.

Il comune di Fonte Nuova, che della bellezza dell’antica Nomentum ha conservato ben poco credo, è il posto in cui ora vivo, non quello in cui sono nata e cresciuta.

Eppure stavolta, questo dettaglio, fa poca differenza. Perché in questo periodo ogni quartiere, ogni zona, è uguale all’altra. Certo, non identica. Ma le strade si assomigliano tutte. I negozi sono chiusi e in giro non c’è nessuno. Sono aperti solo supermercati e farmacie. E fuori, uno dietro l’altro come fossero i segnaposto di un gioco da tavola, uomini e donne in fila.

Via Palombarese, la via principale, che imbocco dopo aver percorso una breve stradina di campagna, dove il paesaggio è fatto soprattutto di basse colline e ulivi (la mia casa è proprio lì) è silenziosa. Un po’ come se fosse domenica. Ma non lo è. Lo sai e lo percepisci che c’è comunque qualcosa di diverso nell’aria.

Passo davanti all’ottico, chiuso, dove normalmente mi rifornisco. Passo davanti ai negozi di casalinghi cinesi – ce ne sono almeno tre a poca distanza l’uno dall’altro – dove trovo quasi sempre tutto quello che cerco, e anche quelli hanno le saracinesche abbassate. Mi accorgo invece che il negozio che vende le piante e i prodotti per la coltivazione è aperto, perché, immagino, vende anche il mangime per gli animali. Passo davanti ai bar chiusi, uno dopo l’altro. Ce ne sono diversi lungo la via. Ne vedo uno carino, con i tavolini e le sedie di vimini che sono rimasti lì all’aperto sotto una veranda coperta. In attesa. Mi riprometto che quando riaprirà andrò a prendere il cappuccino lì una volta.

La strada è dritta e lunga, vuota, ma tutto questo silenzio e la mancanza di fretta mi fanno guidare piano.

Ho fatto il giro di alcuni supermercati prima di fermarmi e ho notato che la fila è più lunga in quelli grandi. Ce n’è uno molto grosso poco lontano da casa, proprio vicino alla rotonda da cui parte la Nomentana bis, una strada costruita qualche anno fa per snellire un po’ il traffico di queste zone. Ho visto che la gente era in fila ancora prima di arrivare, perchè diverse persone erano sedute sul muretto che circonda l’ampio parcheggio. Forse una quindicina, una ventina al massimo, ferme lì, col carrello della spesa vuota. Mi sono sembrati tutti abbastanza giovani ad una prima occhiata. L’età media comunque non credo superasse i sessanta. Mentre passavo là in mezzo, facendo il giro per uscire dal parcheggio e andare via, ho cercato di vedere alcune di quelle facce. Una ragazza con i capelli neri e lisci lunghi fin sotto le spalle ha ricambiato il mio sguardo. Mi sono apparse pensierose, stanche, molto simili a quelle che incontri di solito in metropolitana la sera. Non c’era nessuno, almeno tra quelle che ho visto, che rideva. Alcuni sembravano tristi o scocciati. L’ho percepito dall’atteggiamento, da come tenevano la testa o le mani, perchè le facce, mezze coperte dalla mascherina, parevano tutte uguali.

Alla fine mi sono fermata ad un supermercato piccolo, dove non vado quasi mai.

Parcheggio senza problemi (di solito qui il posto non si trova con facilità), indosso la mascherina e scendo. La mia è di stoffa e a pois colorati. L’ho comprata ad Hanoi, in Vietnam, solo qualche mese fa, e di certo non avrei mai pensato di doverla utilizzare anche qui.

‘Prego, un altro!’, dice la guardia, una donna truccata in modo pesante con i capelli corti, messa apposta là fuori per controllare e regolare uscite ed entrate. Anche qui l’età media è abbastanza bassa. C’è un unico anziano, proprio di fronte a me. Un signore sull’ottantina. Ed è senza mascherina. Indossa anzi un cappello con un’ampia falda, come quelli di paglia da donna. E un paio di occhiali che gli ingrandiscono gli occhi. Mi è sembrato quasi elegante. Insomma uno di quelli che ci tiene. Con gilet, camicia. Un bel paio di pantaloni beige. L’ho notato perché quasi tutti in questi giorni, compresa me, indossano la tuta o abiti comodi, di quelli con cui di solito stai a casa.

Il signore anziano ha continuato, anche una volta entrati, a non curarsi delle distanze di sicurezza. E a sorridere con fare eloquente a chiunque gli passasse vicino. Pareva proprio avesse voglia di farsi una chiacchierata. Ma nessuno mi pare lo abbia assecondato. Anzi. Ho cercato di evitarlo anch’io. E’ rimasto molto tempo a scegliere delle mele rosse. Ne metteva dentro la busta alcune, poi ci ripensava, ne tirava fuori un paio e continuava a scegliere. Per prendere la frutta ho dovuto tornare in quel punto almeno un paio di volte prima che lui si allontanasse.

Sento dire che il lievito di birra è finito da giorni. A me serve della varichina (solo perché a casa non ne ho più e l’avrei comprata comunque) ma mi rispondono che è finita anche quella e non sanno dirmi con certezza quando la riporteranno. E’ così in ogni supermercato a quanto ne so.

Tutti si aggirano tra gli scaffali un po’ di fretta, un po’ confusi. La mascherina stringe, appanna gli occhiali o tira i capelli. Alcuni di tanto in tanto la tengono abbassata sul mento. E i guanti in lattice, oppure quelli di plastica che si usano di solito per prendere frutta e verdura, fanno sudare le mani e rendono la presa delle cose poco sicura.

Ogni tanto senti tossire e ti chiedi da dove, da chi, provenga. Oppure (ancora peggio) viene da tossire a te e allora soffochi il colpo di tosse e ti guardi intorno sperando che nessuno ti abbia visto.

No, non è un giorno come gli altri.

Il comune di Fonte Nuova è nato nel 2001dall’unione dei due forse più noti Tor Lupara e Santa Lucia, due zone rimaste ben distinte che si sviluppano rispettivamente lungo le grosse arterie della Nomentana e della Palombarese. E’ quest’ultima che, uscita dal supermercato, sto attraversando di nuovo. Un lungo budello d’asfalto pieno di buche, a volte enormi, o richiuse in maniera grossolana e approssimativa, fiancheggiato da case e villini tutti diversi tra loro. Alti, bassi, rustici, moderni. Molto vecchi o di recente costruzione. Senza alcuna continuità estetica. In alcuni casi l’entrata delle abitazioni è direttamente sulla strada, schermata solo da un cancelletto. Sembrano vuote oggi. Non vedo nessuno neppure dai balconi, che di questo periodo sono sempre pieni di fiori. Non ci sono neppure quelli. Il silenzio è talmente forte che con i finestrini abbassati e la radio spenta, ho sentito la musica provenire da una di queste case. Non mi ricordo più adesso che canzone era, ma per qualche secondo sono sicura di averla canticchiata.

Il negozio che vende la vernice è aperto, non so perché, e prima di rientrare mi fermo anche lì. Fuori ci sono solo tre persone. Davanti a me c’è una donna bionda con gli occhiali da sole scuri e la mascherina. Ha il viso tutto coperto in pratica. E tiene la testa bassa, quasi a volersi nascondere. Come se si vergognasse.

Il primo della fila invece è un tipo calvo, sulla cinquantina. Indossa una tuta acetata e pare non avere niente a che fare con tutti noi. Ha la felpa aperta e continua a ridere e parlare al cellulare. Senza maschera. Quello che gli sta dietro, immagino proprio per questo motivo, si è allontanato ancora di più, molto più di un metro, tant’è che io, che sono l’ultima, sono quasi in mezzo alla strada.

Il commesso intanto, che intravedo da fuori, mi pare stia preparando al signore calvo la busta con ciò che ha comprato. Lui allunga la mano e paga. Senza mai scollarsi dal telefono. La bionda che ho di fronte inizia ad agitarsi. Si sta stritolando le mani. Ha gli occhiali da sole ma credo mi stia guardando. Forse è agitata a causa di quel tizio. Si muove sul posto senza allontanarsi da dove si trova. Si volta da un alto, poi dall’altro. Ma il pelato è ancora lì. Forse c’è un problema col pagamento. Forse ha pagato con la carta. Non so. Fatto sta che il tempo passa. Il sole comincia a farsi sentire, è quasi mezzogiorno, e la signora bionda non ne può più. Sbuffa, scrolla la testa, alza le mani come per imprecare e se ne va molto irritata, mugugnando qualcosa che non capisco. L’uomo, il secondo della fila, che si è tolto un attimo la mascherina per asciugarsi il sudore, mi guarda con aria interrogativa, ma subito si volta dall’altra parte, forse preso dal timore che avrei potuto rivolgergli la parola. Io avanzo di qualche passo. E dopo pochi minuti anche il calvo con la tuta monta in macchina e va via.

Quando esco rivedo dal finestrino la signora bionda. Si era solo andata a sedere nella sua auto, poco distante dal negozio, in attesa che l’uomo senza mascherina se ne andasse. Infatti la vedo scendere e con passo molto frettoloso rimettersi in fila.

Esclusi la cassiera e il tipo delle vernici mi rendo conto che, da quando sono uscita di casa, circa tre ore e mezza prima, non ho scambiato una parola con nessuno. E’ stato come essere rimasta in apnea. Neanche ‘buongiorno’, ‘permesso’, o ‘mi scusi’. E adesso anch’io ho, come il vecchio del supermercato col cappello di paglia, voglia di farmi una bella chiacchierata. Me la sarei fatta volentieri anche con lui se avessi potuto. Magari imbustando insieme quelle mele rosse e mature che poi, dopo che se ne era andato, ho preso anch’io.

Invece non appena riesco a sedermi sul divano apro whatsapp e faccio una videochiamata. A chi? Non so. L’importante è parlare, mi dico.

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