Cucina in quarantena
I tortelli di Za’
«Quando zia Olga chiamava a tavola, zio Cesare subito chiedeva se aveva cucinato i tortelli di zucca, il suo piatto preferito. Si mangiavano anche a casa mia, a Milano, ogni vigilia di Natale»
Non sono una grande cuoca. Se sono da sola me la cavo, specie in questo periodo, senza troppo stare ai fornelli (preferisco la scrivania). L’altro giorno, un’amica ha postato in FB un piatto di broccoli, aglio, acciughe e pangrattato, che mi ha fatto venire l’acquolina. E dal momento che non mi mancava nessun ingrediente, l’ho realizzato, era facile. Con l’aggiunta di un buon rosso, oltremodo gustoso. Non avrei “appestato” nessuno, durante il sonno.
No, vorrei raccontare qualcosa di diverso, complici certi ricordi che in questi giorni di clausura, mi tornano alla mente. C’è una ricetta che mi riesce bene, questo posso dirlo, e ne vado fiera. Ma devo fare un passo indietro.
All’età di nove anni, i miei genitori mi spedirono a trascorrere l’estate a Luzzara, paesino della Bassa reggiana, sul Po. Fu la mia prima estate selvaggia e scatenata: giravo a piedi nudi, mi bagnavo a Po (avevo già imparato a nuotare, con grande terrore di tutti, perché temevano che il Po traditore potesse trascinarmi via nelle sue insidiose correnti), salivo sui covoni di grano. Ero ospite dei miei zii Cesare e Olga Zavattini, che abitavano una casa bellissima, stanze ampie, soffitti in legno, scaloni (scivolavo ogni mattina a cavalcioni del corrimano di legno, che terminava con una testa di serpente scolpita, a fauci spalancate).
Quando Olga chiamava a tavola, zio Cesare subito chiedeva se aveva cucinato i tortelli di zucca, il suo piatto preferito. Si mangiavano anche a casa mia, a Milano, ogni vigilia di Natale: mio padre, anch’egli nativo di Luzzara, voleva mantenere la tradizione emiliana. E io li amavo molto. Ma a casa Zavattini era una norma in tutte le stagioni o quasi, quando era possibile trovare buone zucche.
Perciò, una volta tornata a casa, la mia nonna paterna, sorella di Olga, decise che era tempo che io imparassi a cucinarli. O meglio, decise che doveva istruirmi nell preparazione a mano della pasta (ogni donna emiliana faceva la pasta quotidianamente, sarà ancora così?). L’impasto di uova farina sale un goccino d’olio mi aiutò lei a farlo (avevo fatto il buco nella farina, ma le uova mi colavano da ogni parte, sconfinando come fiumicelli).
Quando potei mettere le mani nella pasta, provai un brivido. Quel contatto era meraviglioso: lavorarla, premerla, ammorbidirla col calore dei polpastrelli, eliminare ogni grumo, trasformarla in una pagnotta liscia e compatta fu una scoperta, migliore di tutti i miei giochi e passatempi (da quel giorno, ogni volta che mi riferisco alla Scrittura, parlo di “pasta della scrittura”, per alludere al lavorio di fino che ogni creazione letteraria comporta, non solo di mani, naturalmente). Il bello doveva ancora venire: nonna Carmen (avrete capito che i nomi erano ispirati alle celebri opere liriche), dopo aver tagliato in tre porzioni rotonde la pasta di un bel giallo, e aver deposto due porzioni in frigorifero, avvolte in un panno, perché non seccassero, mi mise in mano un lungo bastone di legno di ciliegio, un mattarello. Sfarinò la prima porzione di pasta, sfarinò le mie dita, e mi disse: “Coraggio, stendila, vediamo cosa sai fare”. Sudai le sette camicie, perché non era tanto facile, almeno stando alla reazione severa e perfezionista della nonna che trapelava dalla sua espressione: pretendeva una assoluta circolarità dell’impasto lavorato con la pressione dei soli polpastrelli, tenendolo pressoché sempre arrotolato sul mattarello (si appiccicò tutto la prima volta) e di tanto in tanto steso sulla tavola di legno. La pasta doveva mostrare una totale omogeneità, al punto che esaminandola contro la luce della finestra, e trovandola piena di grumi e spessori diversi, la nonna mi riappallottolava l’impasto, lo accarezzava con un pochino di olio, e mi faceva ricominciare da capo. Alla fine imparai.
Il ripieno dei tortelli un tempo richiedeva una lunga preparazione: si tagliava la zucca a tocchetti, la si faceva bollire, si toglieva la buccia, e avvolta la polpa arancione in strofinacci di lino, la si appendeva per una intera notte a scolare sulla vasca. Il giorno dopo, il ripieno era collocato in una grande zuppiera, mescolato più volte con un cucchiaio di legno per amalgamarlo. Successivamente si aggiungevano gli ingredienti necessari: biscotti di amaretti ridotti in polvere (ci voleva la carta e un pestacarne per sbriciolarli uniformemente), scorza di limone grattugiata, un pizzico di cannella, sale, e grana grattugiato in grande quantità. Formato un impasto omogeneo, lo si lasciava riposare per il giorno successivo (io infilavo il dito per assaggiarlo, e dovevano sottrarmelo di prepotenza). Dunque la pasta veniva al terzo giorno.
Un tempo, tirata la pasta, si tagliavano striscioline lunghe, dove deporre palline di ripieno con un cucchiaio, si tirava un lembo della pasta sino a ricoprire la zucca, si premevano i lati del tortello, passando poi la rotella con i dentini per tagliare la striscia e ogni singolo tortello. I bordi laterali di ogni tortello venivano pressati fino a dargli l’aspetto di una caramella (io premevo con forza perché adoravo le code dure, ma ero rimproverata ogni volta perché la pasta rimaneva troppo cruda ai bordi).
Dunque, i tortelli di zucca non sono un piatto di veloce preparazione, per quanto oggi la zucca si faccia cuocere nella vaporiera (viene meno acquosa) e le macchine a rullo per stendere poi le striscioline di pasta sino al corretto spessore, agevolino il lavoro, specie se hanno anche un motore.
Ma il sapore di una vecchia ricetta legata a ricordi familiari, a persone che non ci sono più, ha immensamente più valore. Me lo rammenta il mattarello di legno di ciliegio che nonna Carmen mi ha lasciato in eredità quando ha capito che poteva fidarsi di me, che l’avevo quasi superata, che era infine giunto il momento di passarmi le consegne.
Piccolo dettaglio: i tortelli di zucca si accompagnano a un buon lambrusco. Non tutti amano il dolce della zucca nella pasta, bisogna farci il …palato, e nemmeno tanto può piacere quel vino frizzantino che è il lambrusco, ma per Za (e mio padre) era di rigore. L’espressione fiera e golosa di quel suo faccione sorridente – il bavaglio allacciato al collo, le forchette impugnate dritte dalle sue grosse mani – non posso dimenticarla.
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Immagini di Roberto Cavallini