Nicola Bottiglieri
In margine a un'immagine simbolica

Pregare con i piedi

La passeggiata di papa Francesco fuori dal Vaticano in mezzo al museo a cielo aperto di Roma suggerisce molte riflessioni sul dopo-emergenza coronavirus. A partire da come ricostruire e da che cosa perdere

Fra le tante immagini piovute su di noi dai giornali, dalla televisione, dai computer durante questa quarantena (il popolo in festa sui balconi, i paracadutisti che si lanciano con la bandiera italiana, i malati agonizzanti con il casco dell’ossigeno, i volti delle infermiere con il livido fatto dalle mascherine sul volto, ecc.) quella che più mi ha colpito è stata la fotografia del Papa a piedi per le vie della città di Roma. Per la sua forza umile e coraggiosa possiamo dire che essa è proprio una icona del nostro tempo.

Lunedì 16 marzo, Papa Francesco infatti è uscito dal Vaticano ed ha fatto a piedi un pezzo di via del Corso, tenendo a distanza le guardie del corpo. Dopo aver percorso un tratto di strada guardando per terra, si è recato a pregare prima nella Chiesa di San Marcello al Corso, vicino Piazza Venezia, dove si trova un crocifisso miracoloso e dopo alla Salus populi Romani di Santa Maria Maggiore. La scelta dei luoghi ha radici nella storia di Roma, il crocifisso miracoloso di San Marcello ha protetto la città durante la peste del ‘500, quando fu portato in processione per 16 giorni nei rioni di Roma, mentre a Santa Maria Maggiore egli si recò dopo l’elezione a Sommo Pontefice.

Cosa ha voluto dimostrare il papa con questa “plateale” passeggiata? Non bastava dire una Messa nella Basilica di San Pietro? O invitare a un digiuno di penitenza tutta la Cristianità? Certo, uscire dalla “fortezza” del Vaticano ha voluto significare essere vicini a quelli che soffrono, recarsi in Chiesa ha voluto indicare il riallacciarsi alle radici più vive della storia cristiana. Tuttavia camminare da soli in una strada deserta, mentre tutta la città è piena di tristezza e paura, significa molto di più. Vuol dire andare in cerca di qualche cosa che non si conosce, cercare di vedere le impronte di chi ci ha preceduti, per trovare nel loro passaggio un indizio di ciò che stiamo cercando. Vuol dire anche, calcando le pietre della strada, che il nostro corpo è poca cosa di fronte alle architetture, ai palazzi, alle fontane, agli obelischi egiziani vecchi di 5000 anni, alla Colonna Traiana, al Colosseo, alle rovine che ornano la città di Roma, perché i corpi passano ma le pietre restano, più degli alberi, delle fontane e delle malattie.

In una selva di edifici di pietra di ogni tipo, in un museo d’arte a cielo aperto, qual è via del Corso con lo sfondo Piazza del Popolo con l’obelisco che ha attraversato secoli e millenni, il corpo segnato dagli anni di un uomo venuto dalla fine del mondo cammina meditabondo, con gli occhi bassi, solo e pensieroso in una città deserta… È sbagliato pensare che sta camminando sul fuoco dell’angoscia, pensando al futuro? Ma che cosa è il futuro? Un vaccino rapido e risolutore da offrire al mondo intero oppure una super preghiera da recitare tutti insieme per convincere il Padre eterno a far cessare il flagello e fare in modo che queste cose non accadano più? Futuro significa ritorno alla normalità? Ma cosa è la normalità, se proprio in tempi di normalità è avvenuta questa catastrofe?

Di fronte a queste domande che quella icona suggerisce, viene in mente una vecchia massima legata al mondo del passato: camminare è una forma di preghiera, perciò la forma migliore per pregare è quella di fare un pellegrinaggio o andare a fondare una  città in un luogo sconosciuto.

Nella storia della Terra del Fuoco, quando gruppi di coloni spagnoli si mettevano in marcia per andare a fondare una città, o cercare un luogo adatto per vivere, ebbene la strada veniva guadagnata non solo facendo marce forzate, ma accompagnando lo sforzo delle gambe con lunghe preghiere. In quel caso esse non ritmavano solo lo scalpiccio dei passi, ma anche quello dei pensieri che si intrecciavano insieme. Si arrivava così “purificati” alla meta: il sudore liberava il corpo dalle tossine, le preghiere liberavano la mente dalle cose inutili.

Nei prossimi mesi non possiamo fare processioni, pellegrinaggi o andare a fondare nuove città, possiamo però, stando a casa, pensare all’immagine del Papa in mezzo alla strada deserta come una metafora sulla quale riflettere. Da subito.

Ad esempio ci possiamo mettere in cammino verso una nuova idea di globalizzazione, perché quella usata fino ad ora si è dimostrata fragile ma soprattutto inutile. Oggi più che mai ha acquisito verità lo slogan più usato dalla “teoria del caos” che afferma come il battito di una farfalla a Los Angeles possa procurare un uragano a Pechino, infatti un virus che ha fatto il salto di specie in un oscuro villaggio della Cina ha potuto in pochi mesi invadere quasi tutti i paesi della Terra. Ed ha acquisito drammatica importanza la globalizzazione dell’inquinamento e dell’economia, senza trascurare il beneficio dell’informatica che ci permette di alleviare le angosce di questi giorni.

Pensavamo che con l’uso degli antibiotici avevamo sconfitto le epidemie – ha ricordato un luminare della scienza in questi giorni – ma avevamo dimenticato i virus, parola che viene dal latino e significa veleno rapido. Oggi, la pandemia ci ricorda ancora una volta che il mondo è più complesso di quanto si creda. E la nostra mente si smarrisce facilmente di fronte alla grandezza dell’universo. Altro non ci resta da dire che nel secolo XX il corpo ha camminato molto svelto ma l’anima non è riuscita a seguirlo.

P.S. Alcune “teste d’uovo” del giornalismo hanno visto l’uscita del Papa dal Vaticano come una leggerezza o un invito inconsapevole alla disobbedienza delle leggi. È un segno della incapacità a tenere il passo con i tempi…

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