Una testimonianza dal cuore della tempesta
Il silenzio di Bergamo
Lo scrittore Andrea Di Consoli intervista il poeta Corrado Benigni che in questi giorni, a Bergamo, vive nel pieno del dramma coronavirus. «Ha ragione quel medico che ha detto “Siamo andati in guerra armati solo di una fionda”. Sarà dura, ma ci vorrà una buona dose di immaginazione per ripartire»
Corrado Benigni è un poeta che vive e lavora a Bergamo. È nato nel 1975 e ha pubblicato alcune raccolte di poesie favorevolmente accolte dalla critica. Tra le sue raccolte voglio segnalare Tribunale della mente e Tempo riflesso. Ho deciso di intervistarlo perché ho sentito l’esigenza di chiedere a un poeta di descriverci dal suo punto di vista quello che sta succedendo a Bergamo, epicentro dell’epidemia del Covid-19.
Corrado, tu sei un poeta che vive a Bergamo. E a un poeta che vive a Bergamo io voglio anzitutto chiedere: descrivimi quello che vedi in questi giorni di epidemia nella tua città. Cosa hanno visto i tuoi occhi e cosa hanno sentito le tue orecchie in questi giorni così orrendi?
Vedo deserto e silenzio. È come se l’esterno fosse scomparso e risucchiato in un interno finora sconosciuto. Le strade sono vuote, attraversate qua e là dal suono lancinante delle sirene delle autoambulanze. Le persone si intravedono solo come ombre che scostano le tende da dietro le finestre illuminate. Spesso si usa dire, con una certa retorica: “silenzio irreale”, oppure “silenzio sospeso”. Qui il silenzio di questi giorni è realissimo e palpabilissimo, un luogo inabitabile. Eppure quelle finestre illuminate la sera sembrano portarmi dentro le case abitate, dànno un senso di quiete, di qualcosa che ancora c’è, il respiro di una presenza da custodire. In tutto questo avverto anche un senso di raccoglimento che sembra pervadere tutti.
Quali sono gli aspetti che più ti stanno angosciando di questa grave emergenza sanitaria che ha colpito principalmente Bergamo? Cosa non dimenticherai mai?
Ho visto per la prima volta la mia città in ginocchio. E ce ne vuole. Bergamo è per vocazione una città attiva, orgogliosa, poco lamentosa. Ci insegnano a essere così fin da bambini (almeno fino a quando ero bambino io, nato nella metà degli anni Settanta). Ma questa volta Bergamo è stata colpita al cuore, non solo del suo motore economico, ma ferita nel profondo dei propri sentimenti, della propria fede (fede in senso lato, non solo religioso). Per la prima volta Bergamo ha toccato l’impotenza, una specie di nudità della propria consapevolezza, della propria fiducia nel futuro. Eppure, nonostante questo, non si è arresa e continua a lottare. Lo vedo negli occhi, dietro le mascherine, delle poche persone che incrocio con lo sguardo al supermercato. Questo, non dimenticherò mai.
Come sono le notti lì a Bergamo?
Buie. Ma illuminate da tante finestre accese, come piccoli fiammiferi o sentinelle, che sembrano disegnare nell’oscurità nuove tessiture tra le persone.
E i risvegli?
Ogni mattina, subito svegli, si pensa di essere ancora dentro l’incubo della notte appena trascorsa e che tutto è passato, viene da dire: era solo un brutto sogno. Ma non è così. E tutto questo lascia addosso una sorta di torpore, che dura a lungo. Dà la sensazione di camminare dentro un vischio.
Che idea ti sei fatta sul perché la tua città è così colpita dal coronavirus?
Non voglio addentrarmi in questioni tecniche, che preferisco lasciare a chi è professionalmente competente. Bergamo e la sua provincia sono densamente popolate, come quasi tutta la Lombardia (la striscia di territorio che da Novara arriva a Verona, attraversando da ovest a est la Lombardia, si può dire che è un’unica città); tutto è profondamente interconnesso, ci si sposta rapidamente e frequentemente da una città all’altra, da un paese all’altro, da un quartiere all’altro, soprattutto per lavoro. Questo brulicare di persone, questo mescolarsi di fiati, strette di mani, abbracci, parole, credo abbia fatto da potente detonatore per la trasmissione del virus, prima che tutto si fermasse.
Chi siete voi bergamaschi? Che carattere avete?
I bergamaschi sono molto cambiati negli anni, come d’altro canto tutto il popolo italiano, oggi molto diverso rispetto agli italiani del secondo dopoguerra. Tuttavia, aldilà degli stereotipi e dei luoghi comuni, se dovessi usare una sola parola per definire chi siamo, direi: operosità. Un termine che contiene opera, una parola bellissima, dalle mille sfumature di significato. Certamente operosità in senso materiale, legata a un fare pratico, come si sta vedendo in questi giorni nei nostri ospedali, e più in generale riferita all’operosità delle migliaia di aziende e industrie che lavorano su questo territorio. La parola opera però ha a che fare anche con un elemento immateriale, con la creatività, l’ingegno, la dedizione al prossimo. Anche in questa accezione i bergamaschi stanno dimostrando grande operosità. La fantasia serve sempre nelle situazioni complicate, può aiutare a salvare vite, trovando una soluzione all’ultimo momento, quando tutto sembra perduto. Essere operosi con l’immaginazione è anche fondamentale per sopravvivere in questi giorni di clausura.
Cosa fai, scrivi, leggi? Riesci a isolarti in questi giorni, riesci a trovare un po’ di concentrazione?
Mi concentro per disciplina. È la mia forza di resistenza, anche se non è facile. Mi accorgo, ancora di più in questi giorni, quanto coltivare una vita interiore, anche attraverso la poesia, sia importante. Oggi questo mi aiuta tenere accesa una lampada nel buio, a guardare senza cinismo quanto sta accadendo. In questi giorni leggo molto Iosif Brodskji, soprattutto i suoi saggi, vero e proprio ossigeno per la mente. La sua lucidità mi dà forza, e penso soprattutto alle pagine de La condizione che chiamiamo esilio; lui che ha vissuto sulla propria pelle la tortura e i lavori forzati usa la parola esilio avendolo realmente sperimentato. Tengo sempre a mente una frase di Brodskij: «La letteratura è un antidoto permanente alla legge della giungla».
Bergamo è una delle città più industrializzate d’Italia. Cosa accadrà da un punto di vista economico nella tua città? Cosa prevedi?
Saranno mesi, forse anni, difficili. Non solo per le industrie e le tante aziende che brulicano sul territorio, ma anche per le tante associazioni di volontariato e culturali. Qui la ricchezza contribuisce anche a realizzare importanti progetti, festival, mostre, concerti, ad aiutare gli ultimi in difficoltà. Sarà dura, ma ancora una volta ci vorrà una buona dose di immaginazione per ripartire e un grande spirito di volontà, che da queste parti non manca.
C’è qualcosa che poteva essere fatto e che non è stato fatto?
Da quanto ho letto e visto, qualcosa non ha funzionato all’Ospedale di Alzano Lombardo, almeno prima dell’arrivo dei medici dell’esercito che hanno riorganizzato il Pronto Soccorso da cima a fondo. Dal Pronto Soccorso di questo paese, alle porte di Bergamo e ai piedi della Valle Seriana, è partito il contagio inarrestabile di centinaia di persone e non è stata creata per tempo una zona rossa in quella parte di territorio. E poi molto di più si poteva fare per salvare le vite dei tanti medici di base che hanno perso la vita per salvare quelle dei propri pazienti. Come ha detto un medico in questi giorni: «Siamo andati in guerra armati solo di una fionda». Penso spesso a questi uomini e donne che tanto hanno fatto e stanno facendo per tutti noi. Saranno ricordati come i pompieri di New York dopo l’11 settembre.
Quando quest’incubo sarà terminato, e molti italiani verranno magari in vacanza a Bergamo per darle una mano a risollevarsi, cosa devono vedere immediatamente? In altri termini, qual è per te il luogo più importante della tua città?
Astino (nelle foto che illustrano questa intervista, ndr), un luogo magico, in una valletta meravigliosa ai piedi delle Mura di Città Alta. Ci vado spesso a passeggiare e meditare. Oggi mi mancano le camminate in quel luogo. Qui si trova un ex monastero edificato nei primi secoli dell’anno Mille. È stato abbandonano per secoli e restaurato solo negli ultimi anni, diventando un punto di aggregazione culturale tra i più vivaci a Bergamo. Un luogo che è quasi un’enciclopedia per come la storia si è stratificata. Le pietre di questo ex monastero sono vive e ci parlano ancora, nonostante abbiano attraversato intemperie, pestilenze, abbandoni, sono ancora lì dopo secoli in tutto il loro splendore. È per me un simbolo di resistenza e di forza. E anche di rinascita quando questo incubo sarà passato.
Di cosa hai paura in questo momento?
Molte volte si è usata l’espressione: “nemico invisibile”. Questa volta la definizione credo sia più che mai esatta. La paura è che da oggi questo nemico continui a vivere tra noi, anche nel futuro, sotto diverse forme e in modo subdolo, pronto a esplodere in qualsiasi momento. Credo che le guerre future saranno soprattutto contro questi nemici invisibili. Ma per ora cerchiamo di combatterli almeno nel presente.