Cronache dall'Italia sospesa
Cena con Peggotty
«Unica prospettiva di socializzazione delle prossime sedici ore: portare a spasso la mia golden retriever. Si chiama Peggotty, come la governante di David Copperfield»
Immagini di Roberto Cavallini
Mi affaccio dalla porta della libreria e saluto senza entrare. Mauro il libraio alza le spalle, a significare non possiamo che fare così. È un gesto che ho visto indirizzarmi spesso nelle ultime ore, anche da sconosciuti per strada, un misto di rassegnazione e partecipazione accorata a un destino collettivo. Non ti lamentare, dico io, almeno siete in due. Dal banco, oltrepassando agevolmente il deserto che staziona tra gli scaffali, il sorriso interrogativo della sua giovane moglie mi raggiunge. Poi capisce. Se in casa si sta in compagnia, è meglio che esserci da soli.
Unica prospettiva di socializzazione delle prossime sedici ore: portare a spasso la mia golden retriever. Si chiama Peggotty, come la governante di David Copperfield, il ragazzino a cui muore il padre e si ritrova con un patrigno despota, che lo priva anche dell’amore di sua madre. Come tutte le governanti quando hanno raggiunto una certa età, Peggotty, la golden, vive di ricordi e vorrebbe riposare. Le passeggiate si sono fatte più brevi e più rade.
Nell’Italia “protetta” ci sono anche i cani e i padroni che li portano a spasso. Quando ci incrociamo, uno dei due bipedi cambia marciapiede. Non è che ci guardiamo in cagnesco, appunto, anzi da lontano ci sorridiamo e alziamo le spalle, proprio come il libraio. Succede però che i cani non sanno nulla di virus e di distanze cautelative. Loro escono per annusarsi, preferibilmente le parti intime, è il loro modo per capire con chi hanno a che fare. Vogliono stare vicini. Non sanno alzare le spalle, loro.
I cani devono uscire per necessità, i padroni dei cani giocoforza. Io resto a casa, ma il mio cane no. Hashtag.
Noto che, dopo l’abbuffata del fine settimana, spritz e apericena come se niente fosse, ragazzi in giro ce ne sono davvero pochi. La festa perenne a cui erano abituati è stata derubricata improvvisamente a non-c’è-un-cazzo-di-niente-da-fare. Anche dormire tutta la mattina comincia ad apparire privo di significato. Loro e i loro fratelli maggiori, anche gli zii diciamo fino a trent’anni, vagano con aria smarrita: è proprio questo il mondo dove abitavamo? Come i cani, non alzano le spalle. Lo hanno fatto troppe volte quando gli è stato chiesto a che ora sarebbero tornati il sabato notte o come era andata a scuola. Vanno lenti, come facevano anche prima, ma ora si fermano improvvisamente. Si guardano intorno e non riconoscono i luoghi. Nemmeno più cercano una risposta nello smartphone.
Sono chiamati a un atto di responsabilità, che non vale più solo per se stessi e per i loro amici, ma per tutti. Tutti? E chi sono, tutti?
Non solo le famiglie, ma anche la scuola degli ultimi anni, diciamo la verità, ha fatto loro tante domande, fornendo però subito le risposte. Risposte esatte, per definizione. Ora che di risposte certe non ne abbiamo, i ragazzi non sanno che pesci prendere. Così si attaccano con tutte le loro forze a quel residuo di lezioni scolastiche lanciate dagli insegnanti in modalità “didattica a distanza”, che fino a dieci giorni fa nemmeno sapevamo cosa fosse. E anche ora ci sfugge, probabilmente.
Ma ce la faranno, i ragazzi. Il loro compito è crescere e cresceranno. Purtroppo aiutati da Covid-19, cresceranno più velocemente. Ci daranno una mano, proporranno soluzioni. Ci stanno già aiutando, anche se ora non ne sono troppo consapevoli.
Non si può uscire di casa, ma pare si possa andare a correre. Forse è una contraddizione, forse no, non me lo voglio nemmeno chiedere. Il mio amico Massimo abita, come me, anche se a distanza di qualche centinaio di chilometri, in una casa piccola. Nelle case piccole, non so perché, uno ha ancora di più la sensazione di essere al confino. Il divano comincia ad occupare tutto lo spazio. Nella sua casa però c’è una scala che porta a un soppalco. Mi confessa (per telefono, ovviamente) che lui ha cominciato a salire e scendere molto volte durante il giorno. Non ha niente da fare su, niente giù, ma intanto lo spazio domestico si dilata.
Non me lo chiedo come si possa correre all’esterno senza uscire di casa (è la stessa cosa di andare a fare la spesa, comunque) perciò lo faccio. Compio un tragitto che mi permette di arrivare in una bella zona pedecollinare e tornare in centro in poco più di un’ora. Vado a correre da molti anni, ma oggi è diverso. Provo un senso di liberazione e insieme un sentimento d’angoscia. Alla mia età, è bene andare a correre, mi sono chiesto, o sarebbe più giusto rimanere a casa? La visione del divano, di tanto in tanto, rallenta la cadenza dei passi.
Nella stradina di campagna che a un certo punto percorro, c’è un po’ di gente in abbigliamento sportivo. Tutti soli, tutti attenti a mantenere la giusta distanza. Passeggia alacremente anche una famiglia, padre madre e figlio più o meno di dieci anni. Quando li incrocio, i genitori voltano lo sguardo, imbarazzati di trovarsi in così tanti tutti insieme in tempi come questi. Sarà un assembramento? Il ragazzino invece mi guarda con l’aria di volersi scusare per essere in compagnia dei genitori: che avranno ’sti due da voler uscire insieme, e non è nemmeno domenica?
Quelli che corrono si vogliono bene. Si guardano, si salutano. Oggi quel braccio alzato ad abbracciare il vento, significa anche altre cose. Lo vedo negli occhi di un signore che ha la barba brizzolata, come la mia. Siamo ancora qui, stiamo correndo, il mondo è bello, stavolta corriamo nella stessa direzione, vedrai che il nostro Paese ce la farà. Il mondo ce la farà. Dice così il suo sguardo.
Vorrei abbracciarlo e abbracciare altri come lui, ma non si può. Un po’ tutti ci stiamo rendendo conto di quanto fossero sani e belli gli abbracci che ci davamo per strada, le pacche sulle spalle, i baci anche solo per salutarci.
Può l’atto del salutare essere contro la salute? Così continuo ad alzare il braccio appena incontro un essere vivente. In verità non siamo in molti, non è una gran fatica, è quasi l’ora del coprifuoco. Nella piazza occupata solitamente dai tavolini dei bar non c’è nessuno. Il proprietario del negozio di formaggi pone con cura i cartelli sulle due porte del locale; di qui si entra, dall’altra si esce. Saluto Toni, che vende frutta e verdura e che ha messo le cassette vuote a indicare il metro di distanza necessario per non farci male solo acquistando un chilo di mele. Di questi tempi, ci vogliamo bene così, mettendo una barriera tra noi e gli altri. Un po’ mi commuovo. Siamo tutti più lontani e pure, chissà come, ci siamo un po’ avvicinati ai sentimenti degli altri. Vorrei piangere, ma anche questo è vietato per il coronavirus.
Mi piacerebbe tornare a casa e abbracciare una persona a cui voglio bene. Non sarà così, a casa c’è solo Peggotty, la golden retriever, imparentata con la governante di David Copperfield. Cenerò da solo e le racconterò le mie perplessità.
Le chiederò: ma su un divano dentro casa, ci si può abbracciare, vero?