A proposito di “Ritratti e paesaggi”
Paesaggi critici
Il critico Andrea Caterini tratteggia la sua idea di letteratura, da Virginia Woolf a Némirovsky, per arrivare a un'analisi della narrativa contemporanea che non deve essere compiacente né consolatoria
Andrea Caterini è un giovane scrittore-critico che seguo dai suoi esordi, La guardia (Italic Pequod, 2010); siamo stati anche colleghi per un certo periodo – purtroppo breve – alla Gaffi editore, ha scritto belle cose dei miei romanzi, va beh, facciamola breve, è un amico ma cercherò di essere oggettivo.
Di lui sono appena usciti due libri saggi molto interessanti, che vi consiglio, affatto diversi l’uno dall’altro, nel formato editoriale soprattutto, nelle dimensioni, ma in qualche modo fra loro intrecciati. Entrambi espressione di una precisa idea di critica esercitata a trecentosessanta gradi, anzitutto, senza steccati e senza gerarchie fra le varie arti, e poi ancorata alla propria vita, alla propria personale esperienza (anche di lettura, di interpretazione). L’oblio della figura nella stanza di Giorgio Morandi (Sillabe, collana diretta da Antonio Celano) – è uno studio critico breve, denso, sul grande pittore bolognese partendo da alcune ossessioni/idiosincrasie di carattere personale risalenti al tempo dell’università, una refrattarietà alla ripetizione di alcuni soggetti (anche a me è capitato qualcosa di simile con altri artisti): «E dunque bottiglie, vasi, brocche, barattoli e alcuni paesaggi: poche forme; le stesse ritratte per tutta una vita. Che, comunque le si vogliano designare – ossessione o necessità – svelano che non è nella varietà che si scioglie il rapporto di Morandi con la realtà, ma nel modo di osservarla. In una tensione e in un raccoglimento capaci di diventare, essi stessi, intrinseci a quelle forme, vivendole dall’interno e svestendole di ogni residuo naturalistico, ideologico, intellettualistico».
Appena qualche mese prima era uscito per Castelvecchi Ritratti e paesaggi – sul romanzo moderno, un saggio importante, credo, in cui sono confluiti diversi studi monografici scritti da Caterini negli ultimi anni, su romanzieri e romanzi del 900, partendo da alcuni grandi Moderni: soprattutto Virginia Woolf; bellissimo il saggio di apertura, intitolato Virginia la pazza, che racconta in parallelo la vita e la genesi dei romanzi della grande scrittrice inglese, attraverso lo studio dei diari e delle lettere, proponendo una sua personale gerarchia: anzitutto Signora Dollowey, Gita al faro e Le onde. Poi gli altri: Notte e giorno, La crociera, Orlando ecc. «Con Le Onde – scrive il critico – aveva portato al limite la sua sperimentazione romanzesca, spezzato definitivamente il cordone col romanzo tradizionale trovando una voce (o la moltitudine di voci di un unico io) tutta interiorizzata: uno spazio che fosse soltanto mentale».
La Woolf soffriva di violente crisi nevrotiche, depressive, emicranie, allucinazioni uditive, e altri disturbi di vario genere anche legati alle molestie subite da un fratellastro in età infantile, che la portarono talvolta in clinica, e comunque si “curava”, curava la sua “follia”, anche con la scrittura. Ne era ben consapevole il marito Leonard, che sorvegliava i suoi tempi di scrittura: «Per comprendere l’importanza e il sostegno che ha dato a Virginia per tutta la vita, basti dire che prima di sposarla, Leonard le dirà che se con il matrimonio lei avesse smesso di scrivere, lui l’avrebbe lasciata. In quel periodo, quello appunto del matrimonio, Virginia stava scrivendo con molta fatica già da qualche tempo il suo primo romanzo, La crociera, che pubblicherà nel 1913». Caterini dimostra qui – e in diversi altri saggi e microsaggi di questa raccolta, da Proust a Némirovsky, da Svevo a Tozzi, da Malaparte a Fuentes, da Joseph Roth con il suo Giobbe a Walpole a Pirandello ecc. – una sorprendente qualità di stile critico-biografico, cioè ibrido, un po’ saggistico, un po’ narrativo.
Caterini si espone al giudizio più che in altri suoi libri, un giudizio non sempre empatico, positivo, ma anche problematico e perfino negativo. Ciò si nota nel medaglione dedicato a Némirovsky, per esempio, uno dei migliori, di cui riconosce con sicurezza le opere più felici, più originali, da quelle più “facili”, stabilendo due linee tematiche, fra loro intrecciate nella sua opera: la prima è “paterna”, quella de denaro, della religione (ebraica), degli affari, e la seconda, la più nutriente, quella “materna”, che attiene invece al desiderio, alla passione, all’infanzia. “Bisogna però essere onesti. I libri di Némirovsky – compreso Suite francese – considera il critico – sono imparagonabili ad alcuni capolavori di suoi contemporanei: dalla Recherche di Proust al Viaggio di Celine, da L’uomo senza qualità di Musil a L’Ulisse di Joyce, da La montagna incantata di Mann alla Metamorfosi di Kafka… «Non possiamo non ammettere che Némirovsky è certamente una minore del suo tempo, e non bisogna farsi abbagliare neppure dal suo successo postumo. Sulla sua opera potremmo dire quello che laconicamente affermò Henry James a proposito di Dickens, ovvero che egli fu “il più grande tra gli scrittori superficiali”».
Ci sono poi saggi che sembrano esplorare più di altri i limiti strutturali del romanzo moderno, in autori anche minori, come Oreste del Buono, influenzatissimo dal Nouveau roman, i cui libri (Racconto d’inverno, Per pura ingratitudine ecc. ) sanciscono un’impossibilità di “raccontare una vita compiuta”, un’impossibilità all’autobiografia, in definitiva alla scrittura. «Io credo che a Del Buono abbia nuociuto invece l’ironia. Cosa voglio dire? Che il suo tono non è mai di chi prende sul serio quello che fa, e di conseguenza se stesso».
Nella seconda parte del volume, diversa dalla prima, meno omogenea, i saggi diventano più “militanti” (Caterini è critico militante de Il Giornale): vi si analizzano romanzi e romanzieri italiani scomparsi da poco e contemporanei: per adesione, Campo de fiori di Siciliano (in un classico Personal essay che racconta del suo rapporto con l’anziano scrittore, di una sua gaffe consumata a casa sua, quella casa che anche io frequentavo molto qualche anno prima, a un passo dal San Leone Magno, nel quartiere Trieste), Procida di Cordelli, Spregamore nel Trittico di Paolo del Colle, ecc. Ma ci sono anche approfondimenti sullo stato della letteratura italiana contemporanea e della critica in alcuni “Ritratti in forma di conversazione”, con belle interviste ai critici ch’egli considera i propri maestri, Cordelli ancora (qui nella veste di critico), Berardinelli, Massimo Onofri, Colasanti, Manica, Montesano, assieme ad altri maestri della critica che non ci sono più, come il grande Giacomo Debenedetti, che viene citato spesso in questo libro come architrave di riferimento, insieme a pochi altri.
Concluderei ricordando alcuni affondi critico-polemici particolarmente incisivi, dentro una rapida e precisa mappatura della narrativa italiana contemporanea per stili, contro certe tendenze che Caterini definisce insidiose, soprattutto quella contro i romanzi socialmente utili. In Non dirmi che hai paura (Feltrinelli) Giuseppe Catozzella… «Ha solo trovato la giusta formula per appagare i buoni sentimenti di tutti. Ha scritto quello che ognuno voleva sentirsi dire. Ha soddisfatto la bontà d’animo di ogni lettore». Oppure contro certo romanzo storico come Le assaggiatrici di Pastorino: «Sentiamo che non facciamo un passo fuori dall’ordinario, che il tema del libro non è che un tema deciso a tavolino. E quale tema più appetibile del nazismo e delle sue infinite variazioni – tutte facilmente romanzabili e tutte già romanzate? Un libro che ha la pretesa di essere letterario ma che non va oltre l’intrattenimento».