Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Tutto su Germanico, quasi imperatore

Una mostra multimediale ricostruisce la romanzesca vicenda del principe condottiero che non riuscì a salire al trono. Ad Amelia, l’antica cittadina umbra che ne custodisce l’unica effigie in bronzo, rinvenuta casualmente nel 1963 durante uno scavo

Amelia, nell’Umbria più vicina al confine con il Lazio, è un paradigma in miniatura della storia della Penisola. Perché è tra le più antiche città d’Italia, sorta mille e cento anni prima di Cristo, come rammenta un tratto superstite di mura megalitiche in cima alla città, dov’era l’acropoli. Perché divenne romana e tra le più considerate dall’Urbs, sicché anche in questo caso la cinta di mura che tutta la circonda ne è testimonianza. E perché poi fu contesa da longobardi e bizantini, tra il diavolo e l’acqua santa, ghibellina contro la guelfa Spoleto, oggetto di accordi tra il re Agilulfo e il papa Gregorio Magno, tra Liutprando e il pontefice Zaccaria. E fu fiorente nel Rinascimento, colta nei secoli successivi e perciò, oltre al Duomo dell’XI secolo che s’affianca alla svettante torre dai dodici lati, va fiera del Palazzo Farrattini con il quale Antonio da Sangallo il Giovane fece le prove generali per il suo Palazzo Farnese di Roma, e del Teatro, che nel Settecento divenne modello de La Fenice di Venezia.

La bella Amelia nella boscosa Umbria è piena dunque di memorie e gioielli monumentali, eppure meno gettonata di Todi, Spoleto, Assisi, per non parlare di Perugia. Però adesso giustamente fa accendere i riflettori su di sé e rilancia un grande suo vanto: possedere l’unica statua di Germanico, il generale della famiglia Giulio-Claudia a un passo dal diventare imperatore se una strana morte non lo avesse portato via nell’ottobre del 19 dopo Cristo. Ameria, come i romani la chiamavano, sta celebrando come si deve il bimillenario del condottiero che Augusto volle far adottare da Tiberio, per assicurarsi la successione sul trono imperiale. Così, con il sostegno del Mibact oltre che del Comune e della Regione, ha allestito nel suo Museo Archeologico una mostra che, ruotando attorno al prezioso reperto in bronzo, ricostruisce la romanzesca vicenda di Nerone Claudio Druso Germanico in un percorso che alterna oggetti e video, installazioni, voci, dipinti, pannelli parlanti. Con un colpo di scena iniziale, la riproduzione ad altissima risoluzione del dipinto di Poussin, La morte di Germanico, conservato al museo di Minneapolis (nella foto).

Un giallo, come tanti nei palazzi imperiali romani, dove chi aspirava al potere assoluto eliminava senza scrupoli madre, moglie, figli, fratelli. Germanico – figlio dell’osannato Druso e che aveva sposato nel 5 dopo Cristo Agrippina Maggiore dalla quale ebbe sei figli, tra cui Caligola – fu ucciso da una misteriosa malattia quando aveva trentaquattro anni e si trovava ad Antiochia, in quell’Oriente dove il geloso imperatore Tiberio lo aveva spedito a sedare sommosse. E dove risuonava comunque l’eco del suo trionfo a Roma, al ritorno dalle campagne in Dalmazia, in Pannonia e Germania. Del condottiero e proconsole, un eroe popolare la cui effigie venne raffigurata anche nelle monete, Svetonio scrisse: «È noto che a Germanico toccarono in sorte tutte le più grandi virtù del corpo umano come a nessun altro». Sicché non stupisce che le sue ceneri furono poste nel Mausoleo di Augusto e che le sua fama postuma lo accostò ad Alessandro Magno. E anche che suoi simulacri fossero sistemati negli spiazzi dove i giovani militari si addestravano, esempio di coraggio e forza di combattente.

Ecco allora spiegato perché la campagna attorno ad Amelia, fiera città romana, abbia conservato sotto la coltre di terra e prato la gigantesca statua bronzea di Germanico: doveva dominare un “campus”, un’area destinata agli esercizi fisici e militari della gioventù locale. Fu rivenuta casualmente nel 1963, durante lo scavo per la costruzione di un mulino, proprio fuori la cinta muraria e la Porta Romana, una delle sei che sfondano la cinta perimetrale di mura antiche romane e medievali. In mostra ritroviamo in gigantografia le prime pagine dei giornali, tra cui Il Messaggero, che annunciavano la sensazionale scoperta di numerosi frammenti in bronzo poi riconosciuti come parte della statua di un personaggio della famiglia Giulio-Claudia, infine confermatosi Germanico. La ricomposizione del manufatto fu lunga e difficile, parti mancanti restano sul retro della figura. Ma la prestanza e il carisma del personaggio sono intatti. Germanico è bardato e armato di spada al fianco e di lancia, che tiene nella mano sinistra. Quella destra, con il braccio teso, è nell’atto di arringare le truppe. E la sua assimilazione con gli eroi del mito giunge dalla raffinata corazza a sbalzo, icastico bassorilievo. Sotto lo scollo mostra Scilla che solleva il braccio per lanciare grosse pietre. Sul petto illustra l’agguato di Achille a Troilo: ecco la mano potente del greco disarcionare il nemico, che resta nudo mentre il cavallo s’impenna.

Teatrale la lorica di Germanico quanto appunto la mostra, che, prodotta da Sistema Museo su progetto di Marcello Barbanera, si intitola Germanico Cesare… a un passo dall’impero e resterà allestita fino al 24 maggio, giorno di nascita del generale. Vi si raffrontano le teste scolpite del condottiero e di Agrippina, la quale torna durante il Secolo dei Lumi in un dipinto dell’americano Benjamin West nell’atto di sbarcare a Brindisi con le ceneri del marito. In un’altra sala risuonano le note attribuite a Haendel di Germanico, una serenata in un atto composta tra il 1706 e il 1709. Oltre al protagonista e alla moglie, vi compaiono altri quattro personaggi: Antonia, Lucio, Celio e Cesare. E vi si celebra la vittoria del 15 dopo Cristo sul teutonico Arminio, che aveva battuto Varo e del quale vennero così recuperate le insegne, cancellando l’onta subita dalla Città Eterna: la corte e il campo di battaglia del principe condottiero che non riuscì a salire al trono.

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