Lo scaffale degli editori
Per chiese e memorie
Due guide particolarissime introducono il lettore alle tombe degli italiani illustri nel mitico cimitero parigino di Père-Lachaise e alle chiese romane, ricche di arte come di storie segrete
Due guide del cuore, nelle quali ogni posto è fitto di storia, arte, suggestioni, corrispondenza di amorosi sensi. E nelle due tra le città più visitate d’Europa, Roma e Parigi. Nella Ville Lumière poi l’itinerario è in un luogo dell’anima, dove si cammina in silenzio e si riflette molto.
È il più famoso cimitero di Parigi, il Père-Lachaise, che ha il record mondiale di tre milioni e mezzo di visitatori, molti quasi in pellegrinaggio a cercare le tombe di Jim Morrison e di Molière, di Camus ma anche di Abelardo ed Eloise, di Corot, di Bizet, di Gilbert Bécaud. E però ci sono anche molti italiani dietro le austere lapidi. Illustri – Bellini e Modigliani, i fratelli Rosselli e Luigi Cherubini, Gobetti e De Nittis, la contessa di Castiglione, Gioachino Rossini e Georges Moustaki, al secolo Giuseppe Mustacchi – ma anche meno conosciuti eppure paradigmi di genialità del Bel Paese, siano poveri emigranti che oltralpe fecero fortuna, siano funambolici personaggi dello spettacolo. Li ha rintracciati tutti, anche quelli nascosti tra i viali alberati e dei quali non si ha più memoria, una bella pubblicazione edita da Skira, L’Italia del Père-Lachaise. “Vies extraordinaires des Italiens de France et des Français d’Italie” (320 pagine illustrate, 60 euro). L’ha fortemente voluta il console generale d’Italia a Parigi, Emilia Gatto. E l’ha curata con puntiglio Costanza Stefanori che dalla decina di tombe appartenenti a italiani che viene segnalata nelle mappe ufficiali del cimitero aperto nel 1804 è arrivata nell’arco di un anno a individuarne 49, per un totale di 61 personaggi. Eccoli allora rivivere proprio a partire dai loro sepolcri, nelle pagine di questo volume in doppia lingua – italiano e francese – e doppi ritratti elaborati per ciascuno, uno più strettamente biografico, l’altro narrativo, con firme dell’empireo della cultura e del giornalismo. Come quella di Dacia Maraini, che ci parla di Maria Callas, greca-americana, eppure italiana dal 1949 al ‘66, quanto durò il suo matrimonio con l’industriale Giovanni Battista Meneghini, che la introdusse nei teatri italiani, in primis La Scala, dove il talento della soprano esplose irrefrenabile. Una storia di successo e di tristezza dopo l’abbandono di Aristotele Onassis, finita a Parigi nel 1977. La Maraini affida alla sua pagina un affettuoso ricordo legato al viaggio in Africa intrapreso con Pasolini e la diva. Che scoprì nella sua timidezza, nella umile subalternità di fronte al carisma culturale di Pier Paolo. E vi affida anche un risentimento contro lo “sciovinismo francese” che ha oscurato la tomba della Callas. Alla quale non è toccato di meglio che la sistemazione in un sotterraneo, e il suo nome inciso tra «mille mattonelle messe in fila, dove c’è anche la sua, in ceramica, 15 per 15 centimetri».
Altri hanno tombe malmesse ma più evidenti. Come i Tortoni, François Xavier e François Aldègonde, padre e figlio. Il primo emigrato da Roma, garzone in un caffè-pasticceria nel modaiolo Boulevard des Italiens che rilevò facendolo diventare il tempio del gelato. Il secondo custode del prestigio del locale paterno, trasformato nel luogo più in voga di Parigi, frequentato da George Sand e da Manet, da Maupassant, Proust, Otto Bismark. E ci sono le targhe in memoria di osannati circensi, come Antonio Franconi e come Achille Zavatta, il clown triste che si suicidò nel 1993 dopo aver creato il Circo Bostok e il genere della “operetta del circo”, compromesso tra fantasia musicale e pantomima.
Di Yves Montand, al secolo Ivo Livi, arrivato a Marsiglia a tre anni con il padre militante antifascista e operaio, diventato cantante famoso grazie alla liaison con la Piaf, narra Corrado Augias. Che ricorda anche l’avventura dell’affascinante italo-francese con la Monroe, concludendo che «tra Marilyn e Edith, povero passerotto famelico, fu Edith a lasciare il segno avviando Yves non solo verso il successo ma verso la vita».
Dal cimitero alle chiese. Da Parigi a Roma. In giro negli scrigni artistici più spirituali della Città Eterna ci porta Willy Pocino, infaticabile studioso ed editore. Con la sua casa Edilazio e con la collaborazione della figlia Mariarita, ha pubblicato Dizionario delle chiese più belle di Roma (300 pagine, 22 euro), una scelta impegnativa tra i mille – tanti si dice che siano – luoghi di culto della Capitale. Ma questo volume, fitto di indicazioni senza mai essere prolisso, davvero è da portare sottobraccio in passeggiate capitoline, alla ricerca del bello spesso oscurato da caos e degrado. A scorrere l’indice si possono poi fare illuminanti osservazioni. Per esempio che un terzo delle chiese segnalate sono paleocristiane. E tra queste conserva maggiormente l’aspetto originario Santa Sabina, che risale al quinto secolo. Qui ritroviamo una porta istoriata in legno, rarità arrivata a noi dopo quindici secoli. «Di fronte – nota Pocino – una finestrina lascia intravedere l’arancio piantato da San Domenico nel giardino del convento. Secondo la tradizione maturarono qui le cinque arance candite che Santa Caterina da Siena offrì a Urbano VI nel 1379».
Altro “miracolo” a San Sebastiano sulla via Appia, dove “resistono” i graffiti per Pietro e Paolo, giunti dall’Oriente per trovare il martirio nel cuore dell’Impero, le frecce che trafissero un altro martire, appunto Sebastiano, e la pietra che secondo tradizione conserva le impronte che Gesù avrebbe lasciato sulla via Appia nel breve incontro con l’apostolo Pietro che si accingeva a lasciare Roma per sfuggire all’uccisione. Ed ancora, la suggestione di Santa Pudenziana, fiera del più antico mosaico (IV secolo), di San Paolo fuori le Mura, la prima chiesa costruita dal convertito imperatore Costantino, di Santa Costanza, con il suo Mausoleo, di Santa Maria Maggiore, fatta costruire secondo la leggenda, da Papa Liborio là dove, nel 352, nevicò ad agosto.
L’altra fetta di indimenticabili chiese appartiene al Rinascimento e al Barocco. Caravaggio con due capolavori aggiunge prestigio a Santa Maria del Popolo, la prima chiesa incontrata a Roma dai pellegrini che giungevano dal Nord. Borromini inventa per Sant’Ivo alla Sapienza la cupola più originale, una conchiglia che nelle volute nasconde forme di api, replicate nella pianta del tempio e presenti nello stemma araldico dei Barberini, la famiglia di papa Urbano VIII. In Santa Maria in Vallicella tre dipinti di Rubens. Danno il via, nel 1608, al Barocco.