Due volumi sulle maschere africane
Oltre Picasso
Patria della Commedia dell’Arte, sappiamo ben poco della magia delle maschere We, Liuba o Songye. Le interpretiamo attraverso categorie estetiche o antropologiche, ma occorre forse sbarazzarsene per comprendere qualcosa dell’arte mobile made in Africa
Due volumi di maschere africane sul tavolo del mio studio. Una splendida monografia della collezione del californiano Woods Davy, dal titolo Kifwebe, Unsiècle de masques Songye et Luba, etnie bantu della Repubblica Popolare del Congo, e un più agile ma non per questo meno riccamente illustrato volume We, dal nome della popolazione che vive tra i confini di Costa d’Avorio e di Liberia (e forse per questo situarsi liminare sono definiti gli Indulgenti). Il volume è a cura dell’antropologo Alain-Michel Boyer, entrambi i libri sono editi da 5 Continents, che pubblica l’arte del mondo indifferentemente in inglese e francese, ma anche in altre lingue come l’italiano o l’arabo. Possiedo una piccola raccolta di arte africana, costruita negli anni, per lo più Dogon o Ibo, di cui mi servo come pittore perché innegabilmente le forme di quell’arte raffinano e essenzializzano il mio segno, lo prosciugano all’essenza. Quindi, come per una sorta di omaggio, vorrei per una volta guardare all’arte africana e alle maschere in particolare, senza sovrapporre la mente utilitaristica, restituendo il valore che meritano.
Per una volta vorrei sbarazzarmi di Picasso, e non pensare a quanto il grande pittore sia stato influenzato dalla scultura africana, dalla mancanza di realismo, dai tratti essenziali, dagli occhi sporgenti, eccetera. E vorrei anche sbarazzarmi del mio amato Modigliani, per una volta, e non pensare alle misteriose donne dai colli lunghissimi e dalle orbite vuote. Solo per una volta vorrei provare a guardare le maschere africane senza il lasciapassare dell’arte europea. E dimenticando anche l’interpretazione psicologica della maschera, nell’opposizione finzione/realtà. E senza il taglio antropologico che le classifica come manifestazione etnica. Lo stesso Jean-Miche Boyer, nel testo che accompagna il volume We , scrive: «la forma non permette mai davvero d’iscrivere l’opera in una categoria». E Vandenhoute: «Una classificazione stilistica è completamente indipendente da una classificazione fondata sulle funzioni spirituali della maschera».
Anzitutto, non tutta l’Africa possiede maschere. Gli Ashanti, ad esempio, non ne hanno. Poi, le maschere non sono tutte uguali e non hanno la stessa funzione, lo stesso ruolo. Tra i We c’è la maschera saltimbanco, c’è quella che canta, quella del “mendicante della commedia”, coloratissima e adornata di piume di pollo, che introduce ben altre grandi maschere, ornate da piume delle più nobili aquile; c’è la maschera dei funerali… E dal punto di vista dei materiali di costruzione, non deve far meraviglia che si utilizzino bossoli e cartucce vuote, crini di cavallo, denti di felini, conchiglie di fiume, tappi di ferro di bottiglia, piume, corde… D’altronde le maschere facciali della nostra Commedia dell’Arte sono fatte oggi anche con vecchi giornali. Si utilizza quello che si ha, come sanno gli artisti e gli artigiani. Ma quello che mi meraviglia è che in Europa le maschere africane trovino posto solo tra i modelli dei pittori e degli scultori, o peggio tra gli scaffali degli antiquari. La loro vita bloccata in un modello estetico o in una categoria antropologica mentre sono ancora in uso, come sono in uso i riti del teatro, ancora e spero per molto tempo, presso la nostra cultura.
Le maschere sono gli attori del teatro africano, sono le dramatis personae della commedia della vita, del teatro del mondo, che ancora e sempre viene riproposto per affermare la varietà dei sentimenti umani, l’amore, la guerra, la morte, la nascita, la cupidigia, la stoltezza, la furbizia, la pazienza… È ben strano che noi conosciamo tutto delle maschere rese “vere” da Goldoni, di Pulcinella, di Arlecchino e di tutti gli altri, mentre disconosciamo totalmente il testo e le drammaturgie che ritualizzano puntualmente la vita sociale dei popoli africani. Ricordo il nostro stupore quando, molti anni fa, a cena a casa nostra, un giovane Wole Soyinka, che più tardi avrebbe vinto il premio Nobel per la letteratura, ci manifestò il suo interesse per Bergamo, dove sarebbe voluto andare a cercare informazioni sulle maschere nate lì, Arlecchino e Brighella, di cui noi sapevamo ben poco, se non quello che da Goldoni è meravigliosamente mutuato. Non è un caso che Soyinka sia anche un drammaturgo, dopo gli anni londinesi al Royal Court Theatre, in Nigeria fonda un gruppo teatrale chiamato per l’appunto Le Maschere.
Ma la maschera africana è un’arte mobile, in continua evoluzione, con una flessibilità per noi sconosciuta: le maschere facciali possono sostituirsi l’una all’altra, da una cerimonia all’altra, o quando l’una delle due, ad esempio, è stata rubata e non è stata rimpiazzata. In quel caso perde il suo nome originario, i canti che l’accompagnano cambiano, e la maschera indossa l’esatto ruolo di quella cui si sostituisce, senza mutare aspetto. Mi viene in mente che gli We, abitatori dei confini, siano detti “gli indulgenti” proprio per questo accettare la necessità della situazione. Accettando lo spostamento di ruolo, senza cambiare i connotati della maschera, il rito si può compiere, the show must go on. Geniale resilienza, elasticità della mente africana. Ma quando è sullo scaffale di una vetrina, quando è snaturata, senza i suoi ornamenti tipici, senza la musica o la danza che l’accompagna, la maschera perde la sua identità al punto da non esser più riconosciuta da quegli stessi che fino a poco prima l’avevano utilizzata. Si direbbe che, deritualizzata, non esista più. La sua funzione è la sua ragion d’essere. Su questo non si deroga. È per questo che migliaia di capolavori dell’arte africana, statue, ornamenti, maschere, escono continuamente dal continente per essere esposti nelle case dei collezionisti o nei musei del mondo. Opere che si possono acquistare a prezzi ridicoli sulle bancarelle dei mercatini, a patto di saperle distinguere tra la paccottiglia magari made in China.
Ma l’indulgenza, la resilienza dell’Africa, ricrea il pieno dal vuoto, anche in questo caso: nessuno piange per la perdita di una maschera o di una coppa sacra. Semplicemente viene rifatta, se la comunità richiede quell’opera per quella funzione. Ma a noi rimane sempre la sensazione di aver spogliato, e di continuare a spogliare un continente che non si piange addosso, che non rivendica niente, e non ci chiede niente indietro.