Pier Mario Fasanotti
La seconda parte di una storia inedita

La donna di Bertot

«Rimase lì un quarto d’ora, poi rientrò in camera e il silenzio lo avvertì che il corpo di sua moglie non c’era più. Del resto lei era solo un corpo, non una mente: doveva pur ammetterlo una volta per tutte»

Riassunto della prima parte: Teresio Bertot, meticoloso corniciaio lavora in una bottega della città e ascolta spesso la radio. Il suo lavoro gli piace molto, soprattutto per il fatto che i sottili legni che manovrava, tagliandoli e assemblandoli in figure geometriche esatte, delimitano il mondo che guarda. La precisione è il cardine della sua serenità. Ma, ascoltando la radio, si accorge di una sua fino ad allora sopita passione: il radiodramma. Parlando con se stesso, e mai traferendo i suoi pensieri su carta, inventa dialoghi. Ne escono una sorta di “operette morali” in cui si affacciano domande importanti e imbarazzanti, cui non sa dare risposta. Nel frattempo si accorge che sua moglie si è staccata da lui emotivamente e che ha incontrato per strada un uomo che potrebbe essere il suo rivale in amore. Tutto questo non rientra nella cornice del suo mondo, e allora mette alle spalle la donna con una serie di domande.

* * *

Alla fine di quel fuoco d’artificio di domande, e lei come imbambolata o ubriaca, il colpo decisivo. Quello del cecchino di prima scelta.

“Mi spiace, Teresio: me ne vado”.

“Dove?”

“Non ti riguarda più”.

Di fronte questa risposta, secca come un ramo spezzato, lui capì che non si trattava di una passeggiata solitaria, di un cinema con le amiche. Ma quando mai ci era andata con le amiche? Non gli risultava, ma non era da escludere dato che gli riferiva sempre pochissimo della sua vita.

“Torni?”

“Credo di no. Che ci vuoi fare…”.

Già, pensò Teresio, che alternative ci potevano essere in una donna che non sopportava le sfumature, le mediazioni, le discussioni.

Il corniciaio la guardò con attenzione e notò finalmente i segni del cambiamento: niente pantofole, niente grembiuli bianchi e larghissimi. E poi, un filo di trucco. Certo, era domenica pomeriggio, poteva darsi che Maria si fosse preparata all’abituale promenade, cinema e parco, forse qualche vetrina, nel giorno più tedioso della settimana, per lei non per lui. Ma Teresio non aveva ancora fatto cenno sull’andare e il fare, compito che era sempre stato il suo. Maria era priva di iniziative, non si entusiasmava, non era, in questo, una “ragazza”. Teresio, nella sua bottega, aveva talvolta pensato di aver sposato una donna vecchia con un culo giovane.

E così l’uomo che si era fino a quel momento considerato alquanto esperto della vita e del carattere delle persone, non disse una parola. Eppure era quello l’istante delicato, strategico, il passaggio dal silenzio alla battuta folgorante come nei suoi radiodrammi a radio spenta. S’irritò con se stesso per l’imperizia, o impotenza, del commediografo mancato.

Si limitò a una domanda: “E le cose?”.

“Quelle vengono sempre dopo” rispose Maria andando verso la camera da letto.

Sì, perché il corniciaio era maniacalmente affezionato a tutto quello che stava in casa. Ogni oggetto finiva subito di essere un oggetto per trasformarsi in una storia, in una fantasticheria, oppure in un feticcio. Ornamenti del suo “cantuccio”. Inseparabili, dunque.

Maria ancheggiava come mai aveva fatto? Eccome. Era quindi giunto il momento in cui la donna, pur da sola, si comporta come se l’uomo- no, non lui, ma quell’altro, ovviamente- la guardasse e le chiedesse solo una cosetta: d’essere femmina. Oppure “se stessa”, nel caso quello là volesse a tutti i costi associare il culo, il seno, i fianchi pronunciati a un sistema di vita. Abitudine, rifletté Teresio seduto su una vecchia sedia di vimini collocata nel soggiorno visto che piovigginava, sempre più frequente nei maschi cui non rimane altro che la tecnica del nascondimento o dell’abbellimento romantico di vecchie libidini, quelle che magari diventano spunto d’accusa se non sono manifestate: ma in tempi, modi e con regia che sfugge ai più.

Tuttavia ammise che quella di sua moglie era una discreta battuta. Da lavorarci ancora un po’ su, tuttavia significativa se piazzata dentro un copione, non c’era che dire. Immaginò il titolo della piece: “Io e le cose”. Poi si corresse: “Lei e le cose”. In fondo lui non c’entrava proprio niente. La casa non era grande, e sentì aprire i cassetti e le ante dell’armadio. Si presentò, attraversando il soggiorno, già elegante, anzi “elegantina” (parola prudente che amava ripetere convinto che il diminutivo contenesse più garbo). Ma che voleva aggiungere con quella femminea correzione di sé? Titolo probabile: “La donna e la valigia”. Già sentito, già usato. Anche al cinema, se non ricordava male. Ma certo, ricordò poco dopo: doveva essere addirittura il titolo di un film.

Sempre immobile su quella seggiola di vimini, a poco a poco si rese conto che la sua attenzione si stava fissando sul contenuto della valigia, anche se non era certo che Maria trafficasse con quella. Ma era molto probabile lo facesse. Non aveva forse detto di volersene andare?

“La donna è una valigia”: titolo pretenzioso, ma di un certo spirito. Ci avrebbe pensato. Eccome: da quel giorno, a parte di quell’idiota del suo assistente Antonio, sarebbe vissuto da solo. Un tipo di futuro che però non lo spaventava affatto. Avrebbe avuto, anche a casa, più spazio e più occasioni per sperimentare le sue commedie incompiute. Magari a voce alta. Sussurrare non fa bene al teatro, pensò. Qualche volta però sì, era necessario. Ma solo qualche volta. Del resto come la metteva col pubblico sulle poltroncine di finto velluto rosso o di plastica pacchiana, quella ti si appiccica al sedere e fa rumore quando ti alzi? Il pubblico aveva bisogno di voce alta, di parole ben scandite. E anche di una trama ben congegnata. Ma qui stava il punto: Teresio immaginò il suo prossimo impegno nel costruire le vicende, dalla “a” alla “zeta”. Sì, sì, lo avrebbe fatto. Anche solo per se stesso. D’altra parte non faceva parte, pure lui, del pubblico?

Incurante della pioggia che avrebbe infradiciato le pantofole, il corniciaio andò sul terrazzino. Che era angusto e non aveva tettoia. L’acqua gli cadeva sulla testa, e dai suoi capelli gli sembro scaturisse una nuvola vaporosa. Era la prima volta che si comportava così.

Rimase lì un quarto d’ora, poi rientrò in camera e il silenzio lo avvertì che il corpo di sua moglie non c’era più. Del resto lei era solo un corpo, non una mente: doveva pur ammetterlo una volta per tutte. Non aveva sentito lo scatto della serratura. Annusò il profumo sparso nella stanza matrimoniale: nuovo, leggermente dolciastro, mai sentito prima. Allora aprì anche le finestre, sia quella del soggiorno sia quella della cucina, per avere un riscontro d’aria e annullare la traccia volatile di un tradimento, di una bella e buona vigliaccata.

Andò poi in cucina e ci rimase qualche minuto, sempre senza sedersi. Infine prese da sotto il lavandino una bottiglia di vino bianco, “leggero ma un po’ traditore” gli aveva detto il signor Conforti del minimarket in fondo alla via, quello con l’accento pugliese. Tornò in terrazza, con bottiglia e bicchiere.

Pensò con un certo rammarico di non aver mai frequentato i bar, figurarsi le osterie. Era seduto su una seggiola di ferro, si bagnò i calzoni. Sarebbe stato meglio guardare la gente passare, origliare, rubare qualche frasetta e immaginare il seguito. Ma il terrazzino era al sesto piano e poi c’era quel cespuglione che resisteva al freddo dell’inverno torinese a impedirgli una vista più larga.

Maria, e lui non lo sapeva, era diretta a Roma. Il rappresentante di commercio aveva preso la sua decisione, e gliela aveva comunicata accarezzandole l’ombelico in un alberghetto dove c’era tanta polvere, letti con coperte sbiadite e tristi e l’incessante rumore degli sciacquoni, oltre le quattro pareti. Lui aveva saputo del trasferimento una settimana prima. E s’era messo a fare programmi.

“Ti piace la capitale?” le aveva chiesto col dito che girava attorno al tortellino di carne: lui era di Modena, figurarsi, e lei aveva sempre ridacchiato per quell’espressione così graziosamente presa in prestito per chiamare l’ombelico. Così ogni volta, e le volte erano diventate ormai tante, senza saltarne una, questo è amore importante, mica la solita squallida avventuretta. Maria aveva rimuginato sulla relazione tra tempo dedicato all’amore e nuovi e seri progetti.

“A Roma? Sì, sì. Massì, ci sono stata, di sfuggita però” ed era vero: con Teresio in viaggio di nozze, un viaggio che era diventato un ricordo piatto, lui che aveva scoperto le botteghe di via dei Coronari e gira e rigira finiva sempre lì a guardare vecchi legni, cornici soprattutto, e ferri battuti, un po’ lugubri se vogliamo ma tanto eleganti, che facevano molto eredità di famiglia ricca o persino nobile.

“Vedrai come ti troverai bene. E poi sentirai che buoni profumi, di pini, di erba fresca fresca…ah, i pini di Villa Borghese…la conosci?”

“Mi pare di sì. Non ricordo bene…”.

Vedrai, vedrai”.

“Bello, bello” lei aveva incoraggiato quel Salgari del commercio che s’era tolto anche le calze salvo poi rimettersele perché c’era un po’ “freschino” nella camera d’albergo, lei invece no, aveva preferito rimanere tutta nuda come aveva visto fare in molti film, ma col lenzuolo poco sopra il seno: faceva sexy, discretamente sexy, come piace agli amanti.

“La domenica ti porto al Pincio”.

“Al Pincio, che bello!”

“Se troviamo un appartamentino con la terrazza, una sera facciamo l’amore fuori, basta mettere delle piante attorno e nessuno ci vede…”

“E se ci vedono?”: un sorriso malizioso, che a lui piacque molto tanto è vero che rispose con un sorriso ammiccante.

“Sì, facciamolo”, lei era ormai convinta del progetto, anche nei suoi risvolti più privati, anzi molto ma molto intimi. E poi sapeva arredare balconi, terrazzini e terrazze, ci aveva la mano, altro che il “cespuglione” che piaceva poco a Teresio. La cura delle piante? Era una gran balla. Bastava crederci nel momento in cui lo diceva a lui. Si sarebbe data da fare, il clima romano poteva darle un bell’aiuto.

Se Maria avesse conosciuto le sculture greche e romane, probabilmente si sarebbe eccitata a paragonare quelle con il proprio corpo: fianchi larghi e levigati, cosce ben tornite, manine ipocrite sul pube, occhi rivolti al cielo, esseri di pietra così assorti in sensualità indecifrabili e ambigue. Ma non le conosceva, allora rimase nella fantasia della terrazza protetta sì e no dai rampicanti, lì a confondere il profumo delle rose e dei ciclamini con quello che sarebbe emanato dai corpi amorosamente sudati. Da qualche parte aveva visto la foto del Partenone, ma non era sicura che quello fosse a Roma, anzi forse non lo era davvero, comunque sapeva che il suo sarebbe stato un tuffo nel passato. E quel passato storico lei l’avrebbe rianimato e attualizzato. Altro che guglie, altro che canali stretti e sporchi del Piemonte, il Po che doveva avere battelli come sulla Senna a Parigi, ma non li aveva. La città dove era pur nata le pareva fredda e plumbea, attraversata da un’ acqua torbida, un’acqua da suicidio.

Pensò a lungo a ciò che ricordava di Parigi per averla vista in alcuni film. Alla fine si diceva: accontentati di Roma, sempre meglio della Torino delle ombre e dei palazzi con geometria severa. Aveva tanta confusione in testa, in quella testa di ignorante. Ma quella confusione le procurava tanto entusiasmo. C’era un cambiamento dietro l’angolo, questa era la cosa principale della quale essere orgogliosa. Anzi: euforica come certe ragazzine. Avrebbe scoperto una città diversa, gente che voleva immaginare estroversa e ordiale. Eh, pensò, le scoperte sono il sale della vita. Ma dove aveva sentito quella bella frase? Al cinema o in tv? Ah, ecco un’altra frase suggestiva: il “biondo Tevere”. Biondo? Mah. Comunque quell’aggettivo richiamava alla memoria il chiarore, la primavera. Bello, bello.

Teresio bevve piano. Piccoli sorsi. S’era messo davanti alla porta finestra, tanto dall’altra parte non si poteva vedere niente. Ecco perché si sentì fuori casa.

Un vantaggio tutto sommato perché le battute finalmente gli vennero.

“Primo uomo: allora sei un cornuto?”

“Secondo uomo: è stato un tradimento, ecco”.

“Primo uomo: sempre cornuto sei”.

“Secondo uomo: una cosa fuori cornice”.

“Primo uomo: e dai con queste cornici! Non ti accorgi mai di quel che capita dentro, te e quei maledetti listelli di legno”.

“Secondo uomo: sono sempre stato attento, se è per questo”.

“Primo uomo: e allora come la mettiamo con quella che se ne va col suo ganzo?”.

“Secondo uomo: una spiegazione c’è, io ne trovo sempre di spiegazioni”.

“Primo uomo: e quale sarebbe?”.

“Secondo uomo: è questa: ho commesso l’errore di pormi fuori della cornice. Ecco tutto”.

“Primo uomo: ah!”.

Era soddisfatto, il dialogo era riuscito, senza dubbio. Così almeno gli sembrava. Rimise a fuoco quanto poteva guardare dal terrazzino: tavolo rotondo, sedie, buffet, un angolo di divano. E proprio lì immaginò la moglie di schiena, chinata, le mani sul bracciolo del divano. Che gran bel sedere, senza quel camicione bianco e smisuratamente largo che faceva scomparire sempre tutto. Tutto tutto. Non l’aveva mai messo dentro la sua cornice. Né se stesso né il culo arrogante ed egoista di Maria.

Si voltò, spostando la seggiola. Alla sua destra il terrazzino non aveva rampicanti. Un rettangolo libero. C’era il reticolato di ferro che lui stesso aveva installato, ma chissà perché sotto non erano stati messi vasi, forse per dare aria al “cespuglione”, e quindi si poteva vedere bene il cielo e una parte, ma nemmeno così ampia, della casa che s’affacciava su un’altra strada.

Con i capelli appiccicati, fili grigiastri che scendevano ai lati in modo fiacco, fissò fino a sera tardi il rettangolo di ferro con dentro niente. Era solo una cornice. La si doveva riempire. Già, ma con che cosa? Con se stesso, tanto per cominciare. Ma sarebbe finita lì perché il bel sedere della moglie era chissà dove a quell’ora. Il vuoto lo fece impallidire. E tremò anche, ma non per il freddo. Ma come fare per mettersi dentro la cornice? Impresa non da poco. A meno che con un balzo…

E invece balzo non fu. Nessun vuoto per una testa voltata all’ingiù. Si sarebbe trattato di uscire da quella provvisoria e arrugginita cornice di ferro. Già, perché? Solo per il fatto che sua moglie aveva riacquistato il dono della parola e aveva deciso di offrirlo a un altro uomo? Commedia scadente, pensò Bertot, così brutta che nemmeno una eventuale versione da avanspettacolo l’avrebbe riaggiustata.

Il vuoto scomparve dalla sua vista, improvvisamente. Anche per un’idea che gli era venuta in testa, manco si fosse seduto accanto a lui l’Arcangelo Gabriele.

Lasciò con uno scatto da acrobata la seggiola di vimini e rientrò nel soggiorno. In tempo per vedere sua moglie con la valigia in mano e un sorriso stupido. Maria teneva aperto il soprabito, che malcelava una gonna stretta. Lì, proprio lì, si fissò lo sguardo del corniciaio. Gli parve di intuire, sotto la stoffa leggera, la leggera traccia circolare di calze autoreggenti. Pensò che quello era un particolare fantastico da mettere in una sua commedia, magari facendo pronunciare all’attore questa considerazione sbarazzina, dolorosa e vera: le autoreggenti sono la segnaletica che una donna piazza davanti ai suoi occhi prima ancora di sbatterla in faccia dell’uomo che si afferra e s’intontisce, lasciandogli intatta la convinzione che sia lei, un po’ riluttante al principio, a volersi concedere.

Il pubblico avrebbe assentito. Gli uomini avrebbero ridacchiato, piano piano, certe donne si sarebbero stizzite. Ma nessuno avrebbe disturbato il vicino di sedia. Le discussioni dopo, accendendosi finalmente una sigaretta.

Maria aveva l’inconfondibile sguardo del commiato. Lo sguardo che mescola, senza sciogliere del tutto, determinazione e imbarazzo.

“Be’, un saluto è d’obbligo, non ti sembra?” disse lei.

“Indubbiamente. Bisogna essere civili anche nei drammi, non credi?”

Altra frase da utilizzare, però cambiata un po’, resa più incisiva, magari. Doveva essere una staffilettata, altrimenti il pubblico del teatro sarebbe scivolato nell’ovvietà della conclusione: pièce mediocre.

“Ti rubo solo pochi minuti, Maria. C’è una cosa che non trovo, in camera da letto. Aiutami in questa piccola ricerca, poi me la caverò da solo…”

“Vabbè…”.

Quel “vabbè” gli parve un anticipo della parlata romanesca. Maria, che forse aveva caldo, si sfilò l’impermeabile e si diresse in camera da letto.

“Che cosa stai cercando?” domandò vicino al letto matrimoniale. Già, chissà perché lì, penso Bertot, e non vicino all’armadio. Chissà. Il destino? No, mai dire una cosa così scadente in teatro, mica voleva tornare a Giacosa, a decenni prima, alle donne che svengono aggrappate alle tende, languidamente. No, no.

Seconda mossa acrobatica e Bertot scaraventò Maria sul letto, divertendosi per qualche attimo nell’osservare la sua sorpresa, al limite del terrore. Con la mano destra afferrò un cucino e glielo mise in faccia. E sul cuscino ci mise i suoi palmi aperti, facendosi forza con le ginocchia. Maria si dibatté, mostrando le autoreggenti.

Quanto tempo passò prima che il corniciaio s’incollasse alla sicurezza consolatoria che lei era morta? Non sapeva, non avrebbe mai saputo, strabiliato dalla velocità con cui un essere umano passa dalla vita alla morte. Dettagli, in un teatro. Ci pensassero gli attori. L’autore non si deve curare di ciò che decide il regista. È il nucleo della rappresentazione che conta, suvvia.

Le tolse il cuscino dalla faccia, notò la bocca aperta e la sbavatura del rossetto. Come prima cosa le sfilò le autoreggenti e se le mise in tasca. Ci voleva, a quel punto una frase forte per il pubblico. Tipo:”Nelle nostre tasche dobbiamo conservare non tanto i ricordi più belli, ma quelli più osceni, così da toccarli per ricordarci come è andata la nostra vita, fino a un certo giorno”.

“Non male” disse guardando il niente “proprio non male…però ci vuole ancora qualcosa che faccia riflettere il pubblico, pronto a tornare a casa col fremito di una verità appena esposta in modo così spudorato. Dai Bertot, mi sa che devi comprarti un computer e lavorare sodo, ah, ah…vediamo…”.

Bertot il vedovo, con una tasca gonfiata dal nylon più provocante del mondo, andò avanti e indietro, con le mani dietro la schiena. Poi sorrise. Anzi rise forte, sempre più forte. La frase finale della commedia l’aveva trovata: “Mia cara, con un semplice cuscino ho cancellato sia le parole che non mi hai mai detto sia quelle, presumo migliori, che avresti potuto dire a un uomo qualunque, a un uomo che non sa dove collocare cose e persone nelle cornici, che non ha la minima idea del contorno delle cose”. Guardò il soffitto, qua e là screpolato per una vecchia infiltrazione, e udì lo scroscio di applausi di un pubblico grande, grandissimo. Tutti lì, la maggior parte degli uomini con la cravatta, a battere le mani per omaggiare una magnifica prima. Ora si trattava di contabilizzare le repliche. In ogni caso il grosso del lavoro era andato bene, l’Orient Express era entrato in stazione. Bella frase anche questa, pensò Bertot: “La utilizzerò in un altro lavoro. Che ci sarà, che ci sarà. Eccome!”.

(2. Fine. Clicca qui per leggere la prima puntata)

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